18/12/12

Che ce frega de Chenpeng, noi c'avemo Sandy Hook

Che bella e toccante la copertura massiccia che telegiornali e quotidiani italiani hanno dato dei tragici eventi di Newtown, Stati Uniti, dove il 14 dicembre scorso il ventenne Adam Lanza prima ha ucciso sua madre, poi si è recato alla scuola elementare di Sandy Hook e ha aperto il fuoco, uccidendo venti bambini e sei adulti, e infine si è suicidato.
Un evento triste, drammatico, assurdo. Eppure pareva di stare in un telefilm, come spesso accade quando notizie di questo genere arrivano dagli Usa. E anche in Italia, la tragica faccenda è diventata per un paio di giorni la prima notizia di ogni telegiornale o quotidiano, in un moto di commozione generale tanto umanamente giustificato quanto, purtroppo, pilotato.

La stessa mattina del 14 dicembre, giusto qualche ora prima per questioni di fusi orari, in un'altra parte del mondo succedeva quasi lo stesso. Nel villaggio (attenzione alle parole: per i nostri media, in Asia e in Africa si tratta sempre di villaggi, che fa molto terzo mondo e sottosviluppo, mai di frazioni, borgate, paesi o piccole città) di Chengpeng, Cina, il trentaseienne Min Yongjun accoltellava prima un'anziana donna residente lì vicino, quindi ventitre bambini che stavano entrando nella locale scuola elementare. Senza ucciderli, fortunatamente.
Solo che la notizia è stata praticamente assente dagli stessi telegiornali e quotidiani di cui sopra, e se è comparsa lo ha fatto in modo estremamente breve e fugace.
Solo perché da una parte ci sono stati ventotto morti e dall'altra nessuno?
O proprio perché da una parte ci sono stati ventotto morti e dall'altra nessuno?

Ora, le possibilità sono tre.
1) Nessun redattore di nessun telegiornale o quotidiano italiano tiene d'occhio le agenzie cinesi.
2) Qualcuno le tiene d'occhio, ma ha preferito tralasciare.
3) Qualcuno le tiene d'occhio, ha notato e ha segnalato, ma più in alto si è preferito passare oltre.

Dando come purtroppo probabile la prima (ci arriviamo per vie traverse in seguito) e come poco probabile la seconda (se uno deve fare quello e una cosa così gli sfugge, annamo bbene), restiamo sulla terza. Passare oltre Chengpeng vuol dire bucare due volte.
Bucare la notizia, innanzitutto: uno che entra in una scuola per uccidere bambini a destra e sinistra è una notizia, qualunque sia il luogo in cui questo succede, qualunque sia il numero dei bambini che costui effettivamente riesce a uccidere.
E bucare una coincidenza pazzesca, già notizia di per sé: la stessa cosa, lo stesso giorno, nelle due principali potenze mondiali.

Con una differenza cruciale, nelle politiche di controllo delle armi.
Assenti o quasi negli Stati Uniti, dove sostanzialmente puoi entrare in un negozio e comprarti un'arma e delle munizioni quando ti pare, in nome di un concetto di libertà personale molto largo (con relative pubblicità, tipo questa).
Molto presenti in Cina, dove la proprietà privata di armi - forse l'ultima proprietà privata ad esserlo ancora, da quelle parti... - è quasi totalmente bandita.
"La differenza fra Min Yongjun e Adam Lanza: un coltello e una pistola", ha commentato qualcuno.
"Di questi tempi, ci vuole molto per fare sembrare buono il governo cinese - piagato com'è dalla corruzione, dall'opacità e dall'effetto paralizzante degli interessi di pochi - agli occhi dei suoi cittadini. Noi ci siamo riusciti", ha commentato qualcuno.
"Essendo un paradiso di libertà, democrazia e diritti umani, che per cento anni ha dato ogni giorno lezioni di libertà, democrazia e diritti umani ad altri paesi, anche fino al punto dell'intervento armato, l'America dovrebbe darsi una calmata ed esaminare le proprie politiche di controllo delle armi", ha commentato (nello stesso pezzo citato sopra) un cittadino cinese.
Se anche siete fra coloro che aderiscono al dogma "Usa=bene, Cina=male", potete sinceramente dargli torto?

Ma oltre agli sforzi fatti per evitare di intaccare il dogma di cui sopra, e magari far sorgere nel pubblico un dubbio, anche minimo e del tutto occasionale, c'è dell'altro.
Un gioco che faccio spesso, di quelli che se non facessero incazzare sarebbero pure divertenti, è quello di sostituire i nomi. Provate con questo pezzo del Washington Post sulle killing list di presunti terroristi - tenute dall'amministrazione statunitense e vagliate personalmente dal Nobel per la pace Barack Obama - e sulla loro applicazione in giro per il mondo anche in assenza di accuse documentate.
Dove c'è scritto Stati Uniti leggete Iran, ad esempio, e immaginate.
Roba tipo "(...) the matrix lays out plans, including which U.S. naval vessels are in the vicinity and which charges the Justice Department should prepare"; ovvero, l'Iran che cattura e/o uccide in giro per il mondo persone che ha stabilito unilaterlamente essere dei terroristi, dando poi mandato al proprio ministero della giustizia di preparare delle accuse su misura. Non male, dai.
Un'altro gioco è quello di invertire le parti, e anche lì immaginare cosa succederebbe.
Un grande classico è naturalmente mettere Israele dove c'è scritto Palestina e viceversa, ma il gioco lo si può giocare anche su avvenimenti più piccoli. Tipo quello di cui stiamo parlando.
A parti invertite, zero morti negli Stati Uniti e ventotto in Cina, anche la diversa copertura dei due eventi sarebbe stata invertita? Dirette a tutto spiano dalla Cina e trafiletto, se va bene, sugli Stati Uniti? Mah.
Manca la controprova, certo, ma mi viene da dire di no.
Perché?

Perché mi sembra sia in gioco qualcosa di più sottile.
La costruzione e il consolidamento di una comunità (il concetto arriva dal fondamentale Il paese dei buoni e dei cattivi di Federica Sgaggio, citato a ripetizione da questo blog) - compattata da eventi come questo, toccata come se ad aver subito la violenza fosse stato ognuno dei suoi membri - tramite la costruzione e la diffusione di un mondo. Un mondo nostro, di fatto opposto idealmente al resto.
Un mondo fatto da una decina di stati, grossomodo: Italia, Stati Uniti d'America, Germania, Francia (ma da quando il marito di un'italiana non è più presidente molto meno), Spagna (perché ci sono i reali), Regno Unito (perché ci sono i reali), Israele, un po' di Europa in senso molto vago, ogni tanto un po' di Australia. Una parte di quello che indipendentemente dai punti cardinali chiamiamo Occidente, nemmeno tutto.
Un mondo civile, democratico e amante dei diritti umani, va da sé.
Un mondo che ha definito la sua nazione guida con guerra e dopoguerra, e che ha trovato la sua capitale morale l'undici settembre 2001.

La prima sono gli Stati Uniti, naturalmente. E sappiamo anche come.
Questo pezzo di Serge Halimi (Avere per sé la storiaArticolo completo qui), ad esempio, basta a far dubitare di tutti i libri di storia sui quali abbiamo studiato, e a far venire i brividi pensando a cosa scriveranno su Iraq, Afghanistan, Gaza, Berlusconi e quant'altro quelli dei nostri nipoti.
Il 6 giugno 2009, il presidente Barack Obama pronunciò un discorso per celebrare lo sbarco in Normandia, e più in generale la vittoria degli alleati contro i nazisti. Dedicò quattordici parole ai «Russi che subirono di certo le perdite più pesanti sul fronte dell'Est».    
È lì infatti che si trovavano 165 divisioni tedesche, e le migliori - contro 76 impegnate sul fronte dell'Ovest. I liceali francesi, britannici, americani non sentono spesso parlare della  battaglia di Kursk (luglio-agosto 1943). Eppure costò 4 milioni di uomini, rappresentò il vero punto di svolta della guerra e si concluse  con il trionfo degli eserciti sovietici, che uccisero o ferirono 500.000 soldati tedeschi al prezzo di perdite ancora più pesanti. Quasi nello stesso momento, 6.000 anglo-americani morivano durante la campagna di Sicilia. E 60.000 nel corso di tutto l'anno 1943.
"Memoria" e storia continuano a divergere con l'aiuto di Hollywood, si immaginerà presto che Berlino fu conquistata dagli americani. Nell'agosto-settembre 1944, un istituto di sondaggi - già allora - chiedeva ai parigini la cui città era appena stata liberata quale paese avesse contribuito di più alla vittoria. Verdetto: l'Unione sovietica, 61%; gli Stati uniti, 29%. Sessant'anni più tardi, lo stesso istituto pose la stessa domanda ai  francesi. Questa volta risposero così: gli Stati Uniti, 58%; l'Unione sovietica, 20%. Decennio dopo decennio, la "quotazione" dell'Armata rossa ha continuato a scendere... Il campo che  ha vinto la guerra fredda ha anche vinto la guerra delle memorie. Storia e potere sono in parte legate.
La seconda è New York, naturalmente. Ormai un brand, più che una città.
Prendete l'uragano Sandy. Lo abbiamo già detto: se una cosa del genere merita la prima pagina del giornale, la merita ovunque succeda, che rada al suolo capanne di contadini o grattacieli.
Invece, mentre Sandy devastava i Caraibi lasciando una scia di morti, dispersi e sfollati - in paesi fra l'altro enormemente più poveri degli Stati Uniti - tutti i titoli e i servizi erano su come New York si stesse preparando. Mentre quello faceva danni seri a Cuba, Haiti, Giamaica, Bahamas e Repubblica Dominicana, inviati e corrispondenti parlavano dei sacchi di sabbia per le strade di Manhattan.
Ma non solo: si è continuato a parlare quasi esclusivamente del probabile arrivo e dei possibili effetti dell'uragano a New York pure quando questo già aveva continuato a fare danni risalendo gli Stati Uniti da sud, colpendo Florida, Carolina, Virginia e Delaware. Stati Uniti batte resto del mondo, insomma, ma New York batte resto degli Stati Uniti.
Nei giorni appena passati, avete notato la stessa agitazione presso i media italiani per il tifone Bopha, che stava devastando le Filippine? Grado 5, il massimo, nella stessa scala Saffir-Simpson che classificava Sandy come grado 2, e giusto qualcosa nelle pagine degli esteri, o scrollando in basso dopo la gravidanza di Kate Middleton e la macchina di Lapo Elkann sulle strisce pedonali. Poi è stato annunciato il concerto benefico per le vittime statunitensi di Sandy del 12 dicembre al Madison Square Garden di New York, e pure quella notizia è salita più in alto di quella sulle povere Filippine. Che ad essere povere, ai nostri occhi, tanto sono abituate.
Ecco, potete pensarla come volete, ma i numeri restano numeri: o un uragano è notizia degna, o non lo è. Ma se lo è, un uragano di grado 5 lo è più di uno di grado 2.
O dell'annuncio di un concerto benefico per alcune delle vittime di quest'ultimo.

(Vogliamo continuare con l'alluvione del 2010 in Pakistan, un quinto della superficie del paese allagato, danni per 35 miliardi di dollari, circa duemila morti, sei milioni di sfollati, dieci milioni di persone costrette a bere acqua non potabile?)

A parità di notizia, insomma, se questa riguarda il mondo di cui sopra te la dico, se riguarda la sua capitale te la dico tre volte, o la gonfio, o la creo, basta che se ne parli. Possono anche essere notizie a sfondo negativo (tipo un pazzo che entra in una scuola e uccide una ventina di bambini), più che la qualità conta la quantità. L'obbiettivo è creare una familiarità, una consuetudine, farci percepire quella parte così lontana di mondo come casa nostra. Molto più che le nazioni che con noi confinano, ad esempio: qualcuno sa qualcosa della Slovenia, dell'Austria o (in un'interpretazione ampia del concetto di confine che mi sento di sposare in pieno) dell'Albania e del Montenegro? Perché quando li visitiamo ci sembrano paesi molto più stranieri degli Stati Uniti? Se quella è casa nostra, qualunque cosa succederà saremo pronti a difenderla, a stringerci forte intorno a lei insieme ai nostri pari, a sacrificare vite e risorse per lei e per quello che rappresenta.

Se la notizia riguarda invece un altro posto, non te la dico; o te la dico proprio perché non posso farne a meno, e mi fermo lì. Persino se pari non è, ma obiettivamente più grave.
Tanto, in questo grande altrove, hic sunt leones. "Non-persone", per usare la felice espressione coniata da Alessandro Dal Lago per i migranti,che provo ad applicare in questo caso anche a chi è cittadino di paesi non compresi nel nostro mondo ma difficili da ignorare (Cina, India, Iran, Brasile, Argentina, Messico, Indonesia, Nigeria, Cuba, Venezuela, Sudafrica, Egitto), o di paesi che beatamente ignoriamo e basta. Una suddivisione che la gente fa mentalmente propria, che diventa automatica e inconscia, e che tornerà utile per esempio quando dovrai farti eleggere gridando che li rimanderai a calci in culo a casa loro, quando casa loro la dovrai occupare militarmente o bombardare, quando dovrai difendere solo per la loro nazionalità due simpatici marinai in misteriosa trasferta e col grilletto facile ("Per il processo ai marò tempi indiani" dice lo strillo del telegiornale di Sky, facendo riferimento a un sottinteso che non esiste - perché mai si è sentita usare l'India come sinonimo di lentezza, nemmeno fra gli stereotipi più banali - ma che deve fare effetto per ciò che evoca, per l'oriente da cartolina coloniale che chi ascolta ha in mente. Come se i processi italiani fossero veloci, fra l'altro...).
Può davvero dispiacerci per i poveri filippini o pakistani, al di là di una generica partecipazione al loro ennesimo dramma? Di loro sentiamo parlare solo in casi come questo, e per noi diventano solo un elenco di calamità naturali ed attentati. Conosciamo uno scrittore, un attore, un cantante, uno sportivo, un comico, un politico, un cuoco, un serial killer, un pittore, un quartiere di città, un piatto tipico, un modo di dire filippino o pakistano? Quando succede qualcosa lì, la nostra esperienza non traccia alcun collegamento; non abbiamo materiale a disposizione, non è roba nostra.
Negli Stati Uniti in generale e a New York in particolare colleghiamo tutto. Quella scena geniale di Woody Allen, quelle pagine meravigliose di Jonathan Lethem all'inizio di La fortezza della solitudine, quel testo di Lou Reed o di James Murphy, quel disco dal vivo di James Brown all'Apollo Theatre, quelle altre migliaia di informazioni che accumuliamo senza saperlo da quando siamo nati.
Credendo che sia soltanto perché gli americani sono bravi, spesso bravissimi, a fare quello che fanno.

05/12/12

Di solito ci provo, ma un titolo migliore di quello del disco stesso stavolta non l'ho trovato.

Come qualcuno fra voi saprà, metà del mio lavoro consiste nel dire a uomini e donne apparentemente persi che l'ultimo di Fabio Volo (di solito chiesto con grande sicurezza, ma senza sapere se esista veramente un ultimo di Fabio Volo, anche se in effetti un ultimo di Fabio Volo c'è sempre, in senso letterale o in senso astratto) è esattamente davanti ai loro occhi.
E che il prezzo, se non è stampato sul retro, è nell'aletta come per il 99.99% dei libri esistenti al mondo.
L'altra metà consiste invece nello scrivere, soprattutto di musica (ma non solo, qualche tempo fa ho persino intervistato un ministro!). Ma capita che alcune cose scritte vengano successivamente tagliate, per ragioni di spazio e di overbooking, diciamo.
Tutto questo popò di introduzione, dunque, per un piccolo disco uscito qualche tempo fa, e rimbalzato da un numero all'altro di Rumore fino a diventare troppo poco nuovo per rimbalzare un'altra volta.
Saluti.





Ahmed Abdul-Malik/Chick Ganimian
Oud Vibrations
(Fingertips)

Complimenti per il gioco di parole, e per l'idea. Recuperare due oscurità jazz uscite alla fine degli anni '50, due album in cui in primo piano sta l'oud, cugino del liuto diffuso nel mondo arabo e nel Vicino Oriente. Firmati da due statunitensi di origini lontane - sudanesi Ahmed Abdul-Malik, armene Charles "Chick" Ganimian - entrambi portatori di tradizioni in cui il suono caratteristico dello strumento la fa da padrone. East Meets West, del primo, prosegue e perfeziona con ottimi risultati la strada ipnotica e modale aperta dal precedente Jazz Sahara: raga insistenti e potenza hard bop, con fiati a cura di Lee Morgan, Johnny Griffin e Benny Golson. Come with Me to the Casbah, del secondo, è invece una piccola delizia exotica che sonorizzerebbe alla perfezione un vecchio film di spie, sceicchi e danza del ventre. E in mezzo a swingante r&b, escursioni nel deserto e cover classiche (My Funny Valentine, Over the Rainbow) spunta anche il quasi rock'n'roll della hit Daddy Lolo.




01/12/12

1. Goat. World Music (Rocket).





























Fosse anche una patacca la storia del collettivo che vive nel remoto paesino di Korpilombolo, cinquecento abitanti nell'estremo nord svedese, e della maledizione scagliata su quei luoghi da stregoni voodoo messi al rogo, è una patacca studiata benissimo. Così come per nulla fuori luogo è il titolo, formula odiosa e vetusta nella sua accezione comune, ma perfetta per un disco come questo.
Perché quella dei Goat è vera psichedelia transnazionale che attinge i suoi elementi da posti ed epoche diversi, e li lascia liberi di reagire insieme: rock acido californiano e viaggi fuzz mediorientali, corrieri cosmici tedeschi e capelloni di campagna nordeuropei, rock latino, Funkadelic e Spacemen 3, Black Sabbath e Circulus. Con le avanguardie funk lisergiche dell'Africa occidentale come collante di un amalgama riuscito perfettamente e brillante nella sua accessibilità pop, in cui riff maestosi e bonghetti si mescolano a canti femminili da rituale pagano e groove implacabili.
Sono trentasette minuti di rapimento. L'apertura solenne di Diarabi e del suo motivo arabo insistito; il wah wah e le percussioni dell'epica Goatman, potente litania; gli acuti fra le distorsioni saturate di Goathead; l'organo e gli intrecci di chitarra da Benin in fiamme di Disco Fever; le steel drums che spuntano fra i gorghi di Golden Dawn, prima di un torrenziale assolo di chitarra da free festival; il sax urlante che porta in fondo Let It Bleed, benvenuto sprazzo di luce; il piglio da soul sister in botta hard rock di Run to Your Mama, che avrebbe fatto felice Betty Davis o la Tina che con Ike coverizzava i Led Zeppelin; le chitarre acustiche e i violini di Goatlord, con distortissima elettrica finale; la concentrazione di tutto quanto nella strumentale Det som aldrig förändras otto minuti che sfociano nella ripresa furiosa del tema di Diarabi.
Una rivelazione, una festa. Tio Mil Kvar Till Korpilombolo, cantava Agneta Fältskog degli Abba in quello che fino a ieri era l'unico quarto d'ora di celebrità del paesello. Dieci miglia a Korpilombolo, arriviamo. (Rumore n.249)

30/11/12

2. Daphni. Jiaolong (Jiaolong).





























Vi siete persi i 12" con cui Dan Snaith ha inaugurato il suo alias parallelo Daphni, mentre mieteva successi ovunque come Caribou? Niente paura: Jiaolong li raccoglie tutti, e aggiunge anche quattro tracce inedite, confermando come la spinta verso il dancefloor non sia una scappatella, ma una parte ormai fondamentale dell'orizzonte sonoro dell'uomo. Che ci è arrivato mutando progressivamente il suono del gruppo madre, e che ora la lascia libera di srotolarsi in nove tracce di house creativa, calda e spontanea come quella dei grandi (Theo Parrish, ad esempio). Musica che funziona in pista - la già nota e ballata Ye-Ye resta il top in questo senso, ma occhio all'avanzare solenne di Ahora, e al funk percussivo della nuova Pairs - e che non si limita a quello, in cui si sentono la testa e la mano di chi per mestiere fa (anche e soprattutto) altro, e che a queste cose è giunto un passo alla volta. Le tracce vivono e si evolvono davanti a noi, ed è una gioia analogica senza fine. (DJ Mag n.24)

3. Tom Zé. Tropicália Lixo Lógico (Passarinho).





























Destinato in area "pop" come segno di speranza in un mondo migliore, scusate l'enfasi. Un mondo in cui chi ascolta musica sia in grado di elaborare oltre Ligabue e Biagio Antonacci; in cui Antônio José Santana Martins e quelli come lui non debbano sempre passare per i geni pazzarielli che fanno musica difficile, ma anzi siano protetti e riveriti. Perché in fondo quelle di Tropicália Lixo Lógico sono canzoni, solo che in ognuna ce ne sono tre, quattro, cento. Tutte belle. Tanto dadaiste e bislacche - parliamo di uno dei pilastri del tropicalismo brasiliano, per chi arrivasse ora - quanto giocose, gioiose, frizzanti. Ricche come intere discografie, smontate e rimontate davanti ai nostri occhi da uno Zé beffardo e aperto verso l'esterno come non mai, in forma smagliante nonostante i 76 anni suonati. In quello che ha tutta l'aria di essere il suo miglior disco da quando ha ricominciato a farne. Almeno. (Rumore n.250)

4. LV. Sebenza (Hyperdub).





Lo scorso anno Routes, che insieme al poeta nigeriano Joshua Idehen raccontava Londra e la sua sempre mutante geografia umana e sonora con ispirazione rara. Quest'anno il Sudafrica, dove il trio inglese ha creato questo altrettanto entusiasmante seguito con la collaborazione di tre nomi grossi della scena locale: la stella Spoek Mathambo, il duo Ruffest e soprattutto lo sciolto Okmalumkoolkat, rimatore geniale già a bordo per il clamoroso singolo Boomslang (2010), qui al microfono in otto pezzi su quattordici. Non semplici voci su basi preconfezionate, ma interazione a un livello superiore fra diverse personalità. Poeti urbani in combinazione spontanea con la miscela transnazionale di kwaito, UK funky, kuduro, garage, soca ed electro-soul approntata con gusto e misura da Horrocks, Gordon e Williams. Sintesi micidiale di pista da ballo e ricerca, divertimento e intelligenza. Molto difficile farne a meno. (Rumore n.249)

29/11/12

5. Neneh Cherry & The Thing. The Cherry Thing (Smalltown Supersound).

























Deve essere il mese delle collaborazioni insolite. Non bastavano Sun Araw e M. Geddes Gengras spediti in Giamaica a vivere e registrare con i Congos, arriva pure il ritorno in grande stile di Neneh Cherry. A tre anni dall'ultima uscita dei suoi non trascendentali CirKus, ma soprattutto a ben sedici dal suo più recente album solista (Man, quello con la hit Seven Seconds), la cantante afro-svedese si ripresenta in forma smagliante, e con lei il trio avant-jazz svedese/norvegese The Thing. Un cerchio che si chiude, in un certo senso, chiamandosi questi come una composizione di papà Don ed essendo nati proprio per suonare la sua musica. Forse anche per questo lavorano insieme da un anno e mezzo, ma suonano come una band in giro da sempre. Tale è la naturalezza con cui la versatile voce soul di Neneh e la potenza dei tre - Mats Gustafsson ai sax tenore e baritono, Ingebrigt Haker Flaten al basso elettrico e al contrabbasso, Paal Nilssen-Love alla batteria - si fondono in un un unicum scuro, denso, emozionante.
Solo due su otto i brani autografi: Cashback, firmata Cherry, che inizia per sola voce e quattro corde prima di diventare un concentrato di urgenza ritmica e malinconici ottoni lontanamente balcanici; Sudden Moment, firmata Gustafsson, otto minuti e mezzo di sax supremo e galoppate free. Ma sono le cover la vera sorpresa, materiale di provenienza eterogenea che diventa cosa loro. Pronti? Dream Baby Dream dei Suicide, con fiati e basso che assumono toni slow rilassati e profumati di New Orleans, mentre la batteria tira dritta fino all'intenso crescendo finale. Too Tough to Die di Martina Topley-Bird, che moltiplica la tensione gospel originaria con riff rallentati e pesanti. Golden Heart, che diventa una invocazione cosmica con voce effettata, dal primo album per Blue Note di papà Don; What Reason Could I Give di Ornette Coleman, allora cantata da Asha Puthli (!), oggi resa più melmosa e inquieta. Dirt degli Stooges, devastante, ma forse la meno originale del lotto, forse perché gli Stooges di Fun House erano già free jazz. E Accordion di MF Doom e Madlib in modalità Madvillain, la trasformazione più netta, con il giro di fisarmonica del titolo suonato come marcia funebre dal baritono, e Neneh a cantare intorno al rap come sa. Si tratti di un episodio o del principio di un'avventura condivisa, disco memorabile comunque. (Rumore n.245)

6. Shackleton. Music for the Quiet Hour/The Drawbar Organ EPs (Woe to the Septic Heart!).





























Il tizio corre da solo, è chiaro. Almeno dal fenomenale Fabric 55 di due anni fa, tutto autografo. Dubstep, techno, ambient, minimalismo, avanguardia, etnografia, chi se ne frega. Chiuso alla grande il 2011 insieme a Pinch, Shackleton apre l'anno nuovo con un mostro che alza l'asticella di un'altra tacca o due, la sua creatura più aliena e rivoluzionaria. Una suite di 65 minuti divisa in cinque parti, Music for the Quiet Hour, che sviluppa le zone più rarefatte e grigie della sua musica, vagando mentalmente e fisicamente senza perdere di vista la narrazione. Come moderna musica classica per nulla tranquilla, che anzi fiorisce di continuo. The Drawbar Organ EPs (tre vinili o un altro cd, dipende dalla versione del box) sono in confronto puro Shackleton, con aggiunta di un organo elettrico con cui il nostro si dà un inusuale tocco di leggerezza, continuando ad esplorare come il suo celebre omonimo. (Rumore n.245)

7. Allah-Las. Allah-Las (Innovative Leisure).




























I maniaci del futuro a tutti i costi, di solito, bollano dischi come questo al primo ascolto: revivalismo. In attesa di sapere perché un gruppo che rifà la California di metà Sessanta sia revivalista e uno che rifà qualunque altra cosa invece no, riascoltiamo ancora una volta - ormai si contano a dozzine - e con sommo piacere il primo album di questo quartetto di Los Angeles. Un album che se davvero fosse stato scritto e registrato nella California di metà Sessanta sarebbe oggi riverito come un classico. Un sogno al rallentatore a base di limpidi arpeggi elettroacustici e maracas, riverberi e melodie pop psichedeliche, garage-folk malinconico (vedi cover di It's Been a Long Journey degli oscurissimi Roots) e surf. Un concentrato di purezza e classe innata, dal sapore quasi arcaico, misterioso, che evoca spiagge e canyon della loro terra con una nitidezza impressionante. Galeotto fu Amoeba, mitologico negozio di dischi del Sunset Strip dove tre dei quattro hanno lavorato, smistando migliaia di vinili usati nel retro, scoprendo e trattenendo il meglio (è lo ius primae noctis del commesso): "Otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, seduti lì ad ascoltare cose di gruppi mai sentiti prima. Può diventare una vera libidine, specialmente per un dipendente giovane e curioso che in realtà non sta lavorando, ma scavando fra pile di dischi e mettendo da parte quello che vuole". Aggiungere una cantina/sala prove con tavole da surf d'annata di papà allineate lungo i muri, e il quadretto è completo.

 (Rumore n.251)

28/11/12

8. Robert Hood. Motor: Nighttime World 3 (Music Man).






















Non mettete fretta a Robert Hood. Colonna dell'elettronica detroitiana, fondatore del collettivo Underground Resistance e padre della via minimale alla techno, gli ci sono voluti dodici anni per il terzo capitolo del suo atto d'amore per la Motor City, partito nel '95 e continuato appunto nel 2000. Ma ne è valsa la pena. Motor: Nighttime World 3 è una colonna sonora perfetta per la città, la sua storia, la sua caduta e il suo futuro. Ma è soprattutto un monumento alla profondità del discorso musicale di Hood, e alla sua capacità di gestire atmosfere ed emozioni in forma di narrazione, creando un ambiente vivo in cui sembra di sentire le macchine respirare. Non mancano le mazzate da pista, certo (Drive, Black Technician, l'intricata A Time to Rebuild), ma ci sono anche morbido soul tecnologico, retroterra jazz che viene a galla, malinconia noir e dolcezza estrema. Chiamiamolo compositore. (Rumore n.250)

9. AAVV. Jende Ri Palenge (Soul Jazz).






















A volte ho l'impressione che qualche emissario delle case discografiche studi attentamente i miei gusti e i miei gesti, e tornato in ufficio si metta al lavoro sul disco fatto apposta per me. Quello da farmi apparire per finta coincidenza sul monitor quando faccio una ricerca qualunque. Jende Ri Palenge, per esempio. Mi fossi messo a tavolino a inventarlo, non sarei riuscito a farlo così bene. San Basilio de Palenque è un piccolo villaggio nel nord della Colombia, poco distante dalla costa caraibica, ed è il primo centro abitato fondato nel XVII secolo da schiavi fuggiti. Ma soprattutto, è l'unico sopravvissuto fino ad oggi, preservando una unicità etnica, linguistica e culturale che lo ha reso letteralmente un angolo di Africa in Colombia, oltre che "capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell'umanità" dall'Unesco. Lì sono stati Simon Meija (Bomba Estéreo) e Santiago Posada, per documentare in suono e immagini una comunità che è come una lezione di storia. Lo dice a un certo punto Panamá, leader del To Ane E Lo Memo Sexteto, che per lavoro pubblicizza la macellazione di un animale cantandola in rima per le strade del paese all'alba: "Siamo qui solo per caso, dovremmo essere tutti nel continente nero, in Angola". E profondamente africana - Angola e Congo soprattutto - è la musica che i due registrano nello studio messo su in loco e quindi donato alla comunità. Altamente percussiva e altrettanto melodica, miracolosamente sospesa fra due continenti, accattivante come poche altre registrazioni etnografiche sul campo sono mai state. Ma non è tutto. Oltre a un cd di venti canzoni originali ci sono un altro cd con dodici remix, affidati a una superba selezione di produttori elettronici (Osunlade, Deadbeat, Matias Aguayo, Kalabrese, Jay Haze, Kromestar...), e un bel dvd con documentario e svariati extra. Il tutto disponibile anche in vinile quintuplo e dvd, edizione limitata di mille copie. Monumentale. (Rumore n.244)

27/11/12

10. Sun Araw & M. Geddes Gengras Meet The Congos. FRKWYS Vol. 9: Icon Give Thank (RVNG Intl.)




























Complimenti a chi ha avuto l'idea, intanto. Accoppiare due guru del nuovo suono sperimentale/psichedelico come Sun Araw e Gengras e delle leggende del roots reggae come i Congos le batte tutte. Ma oltre ai presupposti, sono buonissimi i risultati: l'incontro in Giamaica fra i quattro vecchietti e i due freak - in full immersione nello stile di vita locale, erba compresa... - produce tre quarti d'ora di musica eccezionale in tutti i sensi. Ciascuno si mette al servizio dell'altro con ammirevole dedizione e rispetto; i due mutando il loro suono in una versione moderna del batitto rasta più lento, spirituale e meditativo, i Congos facendo volare alte le loro voci ultraterrene su una così insolita base, come se fossero ancora al Black Ark con Lee Perry ai cursori. Un'unione magica, documentata a dovere anche nel dvd allegato Icon Eye. (Rumore n.245)

05/11/12

Che cento fiori sboccino




























Questa è l'edizione in doppio vinile di Jiaolong, primo album di Dan Snaith/Caribou come Daphni.
Raccoglie tutti i singoli già usciti su vari 12" e aggiunge qualche traccia nuova, è la realizzazione compiuta dei desideri più rigorosamente dance intravisti nei suoi album precedenti, ed è uno degli album dell'anno sul mio personalissimo taccuino.
















Questa invece è la tessera per il download dell'album, contenuta nella stampa inglese dell'album sull'etichetta di Snaith stesso, si chiama Jiaolong pure lei.
"Questa card è fatta al 100% di materiale riciclato, e ha semi di fiori di campo incorporati. Una volta usata, piantatela in uno strato sottile di terra e guardateli crescere."
Quando dicevamo che per affrontare il download illegale bisognava rendere nuovamente appetibile un disco, magari in vinile e con una bella confezione, magari con il download gratuito, non arrivavamo a immaginare tanto.

(L'ha prodotta una ditta che si occupa di tutto, dalla stampa della tessera al servizio di hosting per i file a cui la tessera si riferisce)

07/10/12

Vicino oriente

M.I.A. in Bulgaria, e a un certo punto spunta Erlend Øye che balla come un fesso qualunque. Signori, DENA.



("Tra l'altro mi fa tornare ai tempi in cui in qualsiasi città italiana o europea andassi, ad un certo punto spuntava Erlend. Ma qualsiasi proprio." Damir Ivic mette la ciliegina sulla torta)

18/09/12

"Facci ballare"



 “(...) I’d fallen back in love with moments in small, dark clubs when a DJ puts on a piece of music that not only can you not identify, but that until you heard it you could not have conceived of existing”. (Dan Snaith, Daphni/Caribou).

Dedicato a tutti quelli che chiedono pezzi ai dj.
Se sanno leggere l'inglese.
Se sanno leggere.

17/09/12

Con quella faccia un po' così










Una volta era la gente a parlare (o ad aspirare di) come i giornali e come la televisione. Senza arrivare ai corsi di italiano via teleschermo del maestro Manzi in "Non è mai troppo tardi", bastava l'esempio dei giornalisti. Gente che arrivava lì perché sapeva parlare, aveva un vocabolario vasto e lo usava nel modo più appropriato. "Parli come uno della televisione", si diceva.

Oggi, per uno dei tanti ribaltamenti (di senso, di prospettiva, di significato) che hanno investito l'Italia e i suoi meccanismi comunicativi negli ultimi due decenni, sembra succeda il contrario.
In una sorta di telefono senza fili disastroso, sembra siano tv e giornali a parlare come la gente, ad andare appresso a un parlare comune che la gente stessa ha acquisito dai mezzi di comunicazione, per poi plasmarlo a proprio piacimento e attraverso le scorciatoie più a portata di mano. Forse era meglio prima.

Prendete la parola "extracomunitario", ad esempio.
Un tecnicismo, sulla carta. Una roba da legislatori e da pignoli che accomuna senegalesi e statunitensi (en passant: cominciamo a chiamarli così e non americani?), marocchini e svizzeri, australiani e cinesi, russi e nigeriani.
Ma una parola che nei mezzi di comunicazione italiani ha avuto fin dalla sua comparsa un uso limitativo, riservato esclusivamente a una piccola parte di coloro così definibili. "Extracomunitari" non sono tutti i cittadini di paesi non facenti parte dell'Unione Europea (en passant: da un bel po' ormai si chiama così e non più Comunità Europea, forse conviene aggiornarsi. Extraunitari? Extraunionisti?), ma solo quelli che cercano di entrarci, nell'Unione Europea.
I poveri.

Un uso razzista, dunque. Dove il razzismo in gioco non è tanto quello da manuale del bianco verso il nero, quanto quello ben più difficile da estirpare del ricco verso il povero, o del povero verso il più povero ancora.
Una parola che quindi ha avuto da subito un significato acquisito dall'uso: per l'italiano medio, "extracomunitari" sono gli stranieri, anzi un sottoinsieme degli stranieri. Quelli percepiti come più inclini alla delinquenza comune, alla clandestinità (come se la clandestinità fosse una scelta), allo spaccio, allo stupro.
Gli africani. Marocchini, senegalesi, nigeriani.
Non i cinesi, ad esempio, che in Italia sono tantissimi ma che sono benestanti, e probabilmente per questo ci fanno davvero paura. Di fronte a loro l'italiano abbassa la cresta: avete mai sentito definire "extracomunitario" un cinese? Difficile, ma in compenso avrete sicuramente sentito definire "extracomunitario" un rumeno, anche dopo l'ingresso della Romania nell'Unione.
"Extracomunitario" da cavillo burocratico diventa nazionalità, e insulto.

Oggi assistiamo a un ulteriore slittamento semantico. Orribile.
Nell'articoletto di cui sopra, apparso oggi sul sito di Repubblica (e qualche ora dopo aggiornato con le generalità dell'uomo, che di fatto hanno reso "tagliabile" la frase in questione), si legge:

Non si conosce ancora l'identità dell'uomo, che pare essere extracomunitario.

Dopo essere diventato sinonimo di "straniero", anzi solo di qualche esemplare di "straniero" particolarmente sgradito, il termine diventa anche connotazione fisica, descrizione dei tratti somatici di una persona.
Non "pare essere nordafricano", dunque, ma "pare essere extracomunitario".
Li si riconosce a vista, meglio.

(Segnalo anche l'evidente carenza di un approccio simile man mano che gli anni passano, e la società italiana si fa grazie al cielo più varia e meticcia: se il morto fosse stato uno degli ormai numerosissimi italiani figli di nordafricani, seguendo questa logica, avrebbero scritto lo stesso "extracomunitario"?)

28/08/12

Rodney à la coque

Visto Mayor of the Sunset Strip.

Lui mi ha sempre fatto una gran tristezza, ma una cosa soprattutto (soltanto?) ha caratterizzato la carriera di Rodney Bingenheimer: il buon gusto per la musica.
Bene, sono riusciti a fare un film di cui di musica si parla pochissimo, in cui ci si sofferma per parti interminabili su banalità private di nessun interesse, in cui uno che non sa nulla di Rodney alla fine ne sa ancora di meno, e non capisce perché si debba fare un film su di lui.
E dopo il quale Rodney stesso fa il triplo della tristezza, senza che venga dato (e spiegato, e contestualizzato) il giusto peso a quello che ha fatto per la musica pop.

(L'abisso massimo è quando l'amico d'infanzia dice che secondo lui a tutti quelli famosi piaceva stare con lui per prenderlo in giro. Fuori gara lei che dice che è un buon amico dopo che lui ha raccontato per mezz'ora quanto la ami e sia bello avere lei come donna. Fuori gara anche l'amico del Texas, l'unico più sfigato di lui).

Cerca in Soul Food

Archivio