30/11/07

10. GETATCHEW MEKURIA & THE EX & GUESTS Moa Anbessa (Terp)


Amsterdam, 18 luglio 2003. Cucina dell’OCCII, storico squat cittadino. Scopro che la musica meravigliosa che invade la stanza, una specie di funk diverso da qualunque funk abbia mai sentito, viene dall’Etiopia degli anni ’60 e ‘70. C’è una collana intera di cd chiamata Ethiopiques, la cura un francese di nome Francis Falceto ed è un tesoro da scoprire.
Torino, 9 febbraio 2005. Concerto degli Ex, che vivono ad Amsterdam e dell’OCCII sono figure attive. Attaccano con un canto eritreo, e fanno un concerto che sarà difficile dimenticare. Al banchetto vendono vari volumi di Ethiopiques, oltre ai loro dischi e a una cassetta stampata per il loro tour in Etiopia. Esatto, gli Ex sono andati in tour in Etiopia.
Amsterdam, oggi. Terp - etichetta gestita dagli Ex che per prima ha scoperto i Konono N°1 - pubblica due splendidi album che rafforzano l’insolita connessione: Takkabel! di Mohammed “Jimmy” Mohammed e Moa Anbessa, firmato Getatchew Mekuria & The Ex & Guests. (...) Mekuria è il più famoso sassofonista etiope. Un omone settantenne che nei ’50 ad Addis Abeba pare abbia inventato il free jazz, del tutto ignaro di chi fossero Ornette Coleman e Albert Ayler. Vola in Olanda e riarrangia undici brani del suo repertorio insieme agli Ex e a una sezione fiati: fusione superiore di stili e personalità, energia pura al di là di punk, jazz o ethio-groove che dir si voglia. Perché questa (...) è grande musica e basta. Che non assomiglia a nessun’altra (occhio: non è afro!) e alla quale occorre accostarsi col cuore, liberi. E visto che sono tanti i fili che legano insieme la vicenda, ci sarebbero anche questi: al regno più antico d’Africa, a un popolo mai dominato in 3000 anni di storia, depositario di un’identità culturale fortissima e capace di sviluppare autonomamente una tradizione musicale unica al mondo, qualcuno voleva far cantare Faccetta nera.
(Rumore 183, aprile 2007)

Lo si diceva poco fa per i Low, tocca ripeterlo al quadrato per gli Ex: sono questi i gruppi che ci piacciono. Non per partito preso, perchè si stava meglio prima e la vecchia scuola è sempre meglio della nuova
e bla bla bla. Cose nuove belle, rischiose, interessanti ce ne sono a bizzeffe e pure in questa classifica. Ma fare al ventiseiesimo anno di carriera musica più bella, rischiosa e interessante di quella che facevi al primo non è davvero cosa da tutti. Pensateci: di chi potete dirlo? Bisogna davvero essere dei fuoriclasse insomma, nel cuore e nella testa. Tutto il resto arriva da solo.

(Qui la mia intervista a Terrie, chitarrista degli Ex e responsabile della Terp Records, e Francis Falceto).

11. METAL CARTER Cosa avete fatto a Metal Carter? (Vibra)


Il primo degli esclusi. E non senza grossi dubbi. Perchè se ancora state a Pagliaccio di Ghiaccio (peraltro grandissima!) e a tutta la faccenda Truceklan come a uno scherzo, vi conviene recuperare il tempo perso in fretta. Chi segue le cose che qua e là scrivo sa quanto ami il rap italiano: in via purtroppo quasi esclusivamente potenziale, data la pressochè assoluta carenza di cose degne nel genere. Cioè, dentro di me so che il rap in italiano potrebbe essere una delle mie cose preferite, ma praticamente nessuno lo fa come secondo me andrebbe fatto.
E qui entrano in ballo i ragazzi del klan (questo è il mio reportage dalla capitale sull'argomento, con introduzione che amplia il discorso sulla scena italiana), fra i quali senza nulla togliere agli altri Metal Carter si staglia imperioso. Non esiste in Italia un rapper come Metal Carter, anzi non esiste nella musica italiana nessuno come Metal Carter. Il migliore rapper italiano è un capellone tutto tatuato, metallaro con frequentazioni hardcore-punk, che accostando buia introspezione e flash quotidiani brucianti dipinge un mondo di disagio ed insoddisfazione quasi struggente, profondamente umano nel suo essere grottesco, disperato, ironico, puro. Un cocktail angoscioso di droga, insoddisfazione, turbe, risentimento famigliare e malattia dal quale il tira fuori la testa e (quanto poco hip-hop...) urla che lui non è il migliore. Il peggiore, casomai.
"Migliore rapper italiano", va da sè, secondo canoni opposti rispetto a quelli convenzionali e stereotipati della doppia acca, i cui seguaci non toccherebbero Carter nemmeno con un forchettone. Meglio così. Intanto lui affina una tecnica e un timbro inconfondibili, lucida il vocabolario e piazza featuring colossali (due sul nuovo album di Gel, e uno sul nuovo di Fibra che - copyright Damir Ivic - è in pratica un bignami dell'universo-Carter in una strofa e mezza). In attesa di un nuovo album intorno a febbraio. Ridurlo a horror-rap da macchietta sarebbe un errore imperdonabile.
Sull'attenti davanti al Sergente di Metallo.

12. LOW Drums And Guns (Sub Pop)


Questi sono i gruppi che ci piacciono. Quelli che all'ottavo album, e dopo aver codificato un suono e dato il là a decine di seguaci non sempre all'altezza, ancora sanno e vogliono stupire. Ci si faceva un'idea dei Low come di un gruppo avviato a una onesta seconda parte di carriera senza sussulti, e ci si ritrova i Low come gruppo del tutto rilevante nel 2007, autore di un disco eccezionale che porta in sè il loro passato e lo proietta nel futuro.
Drums And Guns (stupenda anche la parte grafica, con varie foto di batterie e pistole) suona inconfondibile, eppure nuovo, per un motivo innanzitutto tecnico: al posto della chitarra (ma spesso al posto di tutto) ci sono loop, campioni, elettronica, suoni spettrali pescati chissà dove. L'effetto è solenne, rarefatto. Le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker danno calore e familiarità, in mezzo a una distesa di neve vagamente minacciosa. Dragonfly, Belarus, Sandinista, Violent Past gli esempi più brillanti. Altrove il ritmo si fa leggermente più animato, e sbocciano meraviglie come Breaker (beat hip hop dell'altro mondo, intro minima eppure maestosa sulla quale si innesta una melodia emozionante da cantautorato anni '70), Always Fade (beat sporco che va sfasciandosi, inno laico con passaggi melodici enormi) e soprattutto Hatchet, scarne sincopi funk/r'n'b e un testo che fa davvero davvero sul serio così:

"You be my Charlie
and I can be your George
let's bury the hatchet like
the Beatles and the Stones

they'll play our songs forever
on the radio
let's bury the hatchet like
the Beatles
the Beatles and the Stones

i know you've got a thing
for ordinary guys
but i've heard your records and
they sound a lot like mine

so you be my Mary Ann
and i'll be your Yoko
and let's bury the hatchet like
the Beatles
the Beatles and the Stones
like the Beatles
the Beatles and the Stones".

Si capisce che sono i Low dal primo istante, anche se i Low così non li si era mai sentiti. Una delle sorprese più belle dell'annata, da un trio in giro da una quindicina di calendari.

27/11/07

13. ALBARN/ALLEN/SIMONON/TONG The Good, The Bad & The Queen (Honest Jon's/Parlophone)


Escluso il suo non suonare come somma o meglio ancora prodotto delle sue parti, non c'è davvero nulla che non vada in questo affascinante The Good, The Bad & The Queen. Consideriamolo però un mezzo disco solista di Damon Albarn, nonostante la formazione da supergruppo (senza nome a detta degli stessi protagonisti) e il contributo comunque importante di Tony Allen, Simon Tong e Paul Simonon. Fra i tre, il leggendario batterista degli Africa 70 di Fela Kuti risulta forse il meno appariscente, come se i suoi ritmi inconfondibili non trovassero in realtà granchè spazio per distendersi. Tong non se lo caga nessuno, ma se lo levi dall'economia dei pezzi poi te ne accorgi. Simonon è come il fratello maggiore del nostro, un'anima affine incontrata abbastanza per caso che ha fatto quadrare il cerchio del progetto, e ha dato linee di basso così.
Ma di puro, adulto Damon sanno queste dodici istantanee di odierna Britannia. Scure, notturne, disincantate, a presa lenta, malinconiche in una maniera non scontata, con rare impennate ritmiche distribuite fra ballate scritte, suonate e cantate perfettamente, con testa e cuore. Storie di territori londinesi della parte ovest della città, che suonano toccanti e rilevanti anche molto lontano. Una Londra che brucia ancora, in quello che è uno dei migliori dischi firmati Albarn in giro.

20/11/07

14. OF MONTREAL Hissing Fauna, Are You the Destroyer? (Polyvinyl)


Con la quantità smodata di dischi che escono ogni mese, e le ore del giorno ferme a ventiquattro, capitano alcune cose bizzarre. Per esempio, capita di catalogare mentalmente artisti sentiti soltanto nominare in categorie che, se si arriva all’ascolto, finiscono per rivelarsi completamente sballate. Chi scrive ringrazia ad esempio questo ottavo album degli of Montreal (non è un errore, la o va minuscola) per avergli rivelato in modo così entusiasmante che Kevin Barnes e soci non sono un triste gruppo post-rock chitarristico spaccamaroni, ma i fratelli meno piacioni e kitsch degli Scissor Sisters. Che disco, Hissing Fauna. Ricco, lussureggiante, intenso. Gioioso pur se (anzi: proprio perché) concepito e realizzato dal suddetto Barnes lungo un periodo di nera depressione. La musica come terapia per tirarsene fuori: testi nudi e autobiografici fino alla didascalia, e ciononostante mai privi di un’ironia e di un’autoironia rinfrescanti. Aiutati in questo senso da un ventaglio sonoro variegato fatto di Pulp in botta, glam, pop psichedelico fine ’60, bubblegum, Prince, synth-pop primi ’80, chitarre, computer, falsetti, costruzioni complesse ed immediatezza disarmante. Disco-prog? Roba retro, si direbbe sulla carta, ma in realtà slegata dal tempo come i dischi davvero umani sanno essere. Dodici pezzi che sfociano con naturalezza l’uno nell’altro, con potenziali singoli a presa rapidissima come She’s a Rejecter o Gronlandic Edit, e con un centro fisico e morale rappresentato dai dodici minuti di The Past Is a Grotesque Animal, confessione emozionante in forma di frenetico ottovolante krauto. Siamo tutti di Montreal.
(Rumore 181, febbraio 2007)

15. NOYZ NARCOS Verano Zombie (Vibra)


A breve distanza dal pregevole ritorno di Metal Carter recensito sul numero scorso, esordisce in proprio un altro pezzo di Truceboys, clan (Truceklan, anzi) capitolino che è la vera cosa nuova dell’hip hop nazionale. Non tanto in termini di musica o metrica - solide e convincenti, ma mediamente abbastanza classiche entrambe - quanto di impatto e visione. Non si parla di hip hop intanto, ed è già aria fresca, e nemmeno si esercita il flow in evoluzioni fini a se stesse. Si fa del crudo realismo metropolitano piuttosto, dipingendo un moderno quadro roman gothic in cui non filtra nemmeno un raggio di sole, e del quale Noyz rappresenta il lato più feroce e diretto. Come un Club Dogo spostato a Roma, con più droga e meno politica. E proprio una folta rappresentanza milanese fa capolino fra gli ospiti, insieme agli altri tre boys Cole, Gel e Carter, al sempre ottimo Danno (Colle Der Fomento) e al fenomeno Chicoria.
(Rumore 183, aprile 2007)

PS - QUI un mio reportage dalla Roma del Truceklan. Ne riparliamo, comunque.

19/11/07

16. GUI BORATTO Chromophobia (Kompakt)


Questo invece è stato nei primi dieci fino all'ottantacinquesimo minuto, e poi è scivolato quaggiù. Fondamentalmente, perchè bello ma discontinuo. A tracce clamorose infatti, il brasiliano Gui alterna momenti abbastanza anonimi ed abbioccati (il blocco centrale da Chromophobia ad Acròstico, per esempio), che allungano la durata e diluiscono l'esaltazione provocata dai picchi.
Primo fra tutti Gate 7, che è stato a lungo un punto fermo dei dj set di chi scrive, talvolta lo è ancora (che se c'è una cosa che non capisco è il giudicare un dj dalla data di uscita dei dischi che suona), e riesce a coinvolgere anche chi normalmente non frequenta zone minimal, techno, tech-house o similari. 6'40" di puro godimento, un ottovolante caldo e acido spinto da una pulsazione della quale ancora non ho ben capito tempo e metrica, ma chi se ne frega. Mr. Decay arriva giusto un millimetro dopo, ma ha anche lei le sembianze di un inno: sale piano piano, si scioglie in una melodia che strappa il cuore.
Loro due, ancora prima dell'apice pop Beautiful Life (unico pezzo cantato, con la frase ripetuta da Luciana Villanova che entra dritta in testa, e prova a convincerti che è una vita bellissima mentre palpita un fondale shoegaze/techno), del groove spinto di Shebang o delle chitarre molto wave di Xilo, consacrano Boratto. E ci si chiede come mai, per restare in casa Kompakt, abbia fatto molto più parlare di sè il disco di The Field. Che è bello e a tratti pure bellissimo, ma davvero sembra lo stesso pezzo copiato e incollato dieci volte. Chromophobia è invece discontinuo, lo si è detto, ma vive.

(Edit dell'11 dicembre: avendolo dovuto riascoltare, avrei cambiato idea su The Field e From Here We Go Sublime. Come dire: forse è bello proprio perchè sembra lo stesso pezzo copiato e incollato dieci volte. Maggiori dettagli su Rumore di gennaio.)

17. AKRON/FAMILY Love Is Simple (Young God)


Il problema degli Akron/Family, se di problema si può parlare, è che ancora non hanno fatto il disco in grado di eguagliare l'intensità meravigliosa di un loro concerto. Questa l'avete già sentita mille volte, lo so. E chi l'ha detto poi che un disco debba per forza eguagliare un concerto.
Ma se avete avuto la fortuna di esserci stati saprete che un concerto degli Akron/Family non è esattamente un concerto come gli altri (a molti mesi di distanza ripeterei parola per parola ciò che dissi con notevole trasporto QUI), e che eguagliarne l'intensità su disco è pressochè impossibile. Non perchè siano i dischi ad essere poco belli, ma i concerti ad esserlo troppo.
Detto questo, avercene.
Love Is Simple (non è vero! Anzi è vero!) è l'ennesima prova dell'unicità di questo quartetto di New York che - non ricordo chi lo disse - racchiude in sè praticamente tutta la storia del rock, e suona nello stesso tempo del tutto originale. Come qualcosa o qualcuno che non conosci, ma ti è immediatamente familiare nell'istante esatto in cui ci vai a sbattere contro.
Inoltre, è forse il disco che più si avvicina a quei concerti (provare per credere roba come Ed Is a Portal, o There's So Many Colors, che straripano di quella stessa commovente energia corale) e quello meno percorso da correnti avanguardistiche e free. O forse solo quello dove l'amalgama di tutto quanto detto riesce meglio.
Vale comunque il discorso fatto per M.I.A. e Kala: con più tempo, chissà.

PS - Nella prima tiratura del disco è incluso un dvd dal vivo (The Great American Mess 2006). Non rende del tutto l'idea, ma aiuta.

15/11/07

18. M.I.A. Kala (XL)


Questo è meglio levarselo in fretta, altrimenti tocca cambiare tutta la classifica.
Che già di per se è una cosa molto più legata al momento di quanto sembri, sia perchè l'umore e le circostanze influiscono sempre su un giudizio (non molto, un po'), e sia perchè quando arriva il tempo di stilare (per noialtri arriva un mese prima, se ci fate caso) capita che un sacco di roba uscita nell'anno non la si è nemmeno ancora comprata/scaricata/ascoltata/riascoltata/capita(?). E non è che puoi recuperare tutto in due o tre giorni.
(Dieci dei venti titoli di questa classifica li ho recensiti io, sarà un caso?)
Kala comunque è fra questi. Ad ogni ascolto guadagna idealmente una posizione, e non si può. Sta qui in basso perchè mentre compilavo mi pareva cominciasse bene e si perdesse un po' per strada, risultando discontinuo. Perchè bene comincia eccome. Con uno dei pezzi dell'anno, Bamboo Banga: minimale e profondo, sciabolate di sirene, due minuti prima che sulla cassa entri il rullante, voci e vocine, riff di fiati bhangra ridotto all'osso, e una specie di ragga di lei che non ha poi molto senso, ma quando dice "M.I.A. coming back with power power" oppure "Somalia Angola Ghana Ghana Ghana/India Sri Lanka Burma Bamboo Banga", qualunque cosa voglia dire, crollano i muri.
Fosse tutto così, dicevamo. Non è tutto così, perchè è probabilmente impossibile, ma che disco comunque: grezzo, creativo, potente, essenziale. Con un'altra manciata di chicche come Jimmy (più Bollywood di così si muore), Mango Pickle Down River (sorta di remix di un brano dei Wilcannia Mob, crew di rapper dodicenni aborigeni australiani, sul serio), l'irresistibile fialstrocca con colpi di pistola di Paper Planes (costruita su un campione di Straight to Hell dei Clash), Come Around (con Timbaland) e Hussel (con un tal Afrikan Boy che dizzeeggia in scioltezza). Ma tutto fila, ed è da due giorni che non ascolto altro.
Producono Diplo (quanto è baile funk XR2?) e soprattutto Switch. Per me, meglio di Arular.

PS - Per restare in tema desi: disco scoperto leggendo, e finendo, Londonstani di Gautam Malkani. Domanda a chi lo ha letto: quanto ci avete messo a capire il trucco? Sono solo io il fesso che si è battuto il palmo della mano in fronte alla terzultima pagina?

19. KATHY DIAMOND Miss Diamond To You (Permanent Vacation)


C’è Maurice Fulton, mente dei Mu e produttore/remixer dal profilo tanto riservato quanto semi-leggendario, dietro questo album di debutto della bionda cantante di Sheffield. E si sente: Miss Diamond To You vibra di un’energia calda e originale che assume di volta in volta forme house, deep soul, funk o electro, e alla quale la voce porta potenzialità pop enormi. Un voce eterea che sa farsi del tutto concreta e reale, su un tappeto sincopato e pulsante di batteria molto vera, bassi suonati fenomenali e synth al posto giusto che a tratti ricorda persino i !!! del primo album. E poi ci sono le canzoni: un gran singolo come All Woman, innanzitutto. Ma non solo. I Need You è una Madonna di Stuart Price spogliata del superfluo e portata a Berlino, Until the Sun Goes Down è minimal-salsa con coda celestiale (e dovrebbe andare da dio con Africa Calling di Timmy Regisford), Another Life un funk futurista da brivido. Ma lo dice Kathy stessa: “I came, I saw, I conquered your heart”.
(Rumore 186/187, luglio/agosto 2007)

10/11/07

20. PINBACK Autumn Of The Seraphs (Touch And Go)

Senza stare a farla troppo lunga.
Volevo rendere pubblica un po' per volta la lista dei venti dischi del 2007 che la rivista per cui scrivo mi ha chiesto, come ogni anno. Il lettore poi ne vede dieci, ma in realtà sono venti.
Quindi mi sono chiesto come farlo. Blog di MySpace? Non lo legge quasi nessuno e non è bellissimo. Il mio sito Love Boat? E' bellissimo ma non lo legge nessuno. Tumblr? Figo, però... un blog ce l'ho già, e da molto tempo. Chiuso sbarrato, ma si può sempre riaprire.
Cosa succederà quando saremo arrivati al numero 1 chi può dirlo. Intanto cominciamo.


Non è facile descrivere i Pinback di Rob Crow e Zach Smith. È inversamente proporzionale a quanto è invece facile ascoltarli e perdersi nel loro mondo di delicatezze. Chi almeno una volta già si è perso - Autumn of the Seraphs è il quarto album del duo di San Diego - sa di cosa si sta parlando, e difficilmente avrà bisogno del sottoscritto che ribadisce il concetto. Basterà dire che è diventato tutto più maturo senza perdere un grammo di spontaneità, e che una coppia di batteristi come Mario Rubalcaba (RFTC) e Chris Prescott (No Knife) ha reso le cose molto più facili. Agli altri diremo invece che si tratta di pop-rock moderno e progressivo, maestoso nell’incedere ma favolosamente umano, svolto in undici canzoni pericolose per come si infilano nelle vostre giornate senza preavviso, ogni volta più belle. Vengono addirittura in mente i Sense Field di Building senza la pompa epica, e tutti quei dischi che uno ascolta quando è innamorato per non rischiare di scordarsene neanche un istante.
(Rumore 188, settembre 2007)


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