31/12/13

E classifica sia (parte prima: le ristampe)

Come dicevo poco fa in quello che volente o nolente è diventato il succedaneo del mio blog e di tutti i blog, "non capisco se vada più di moda fare classifiche di fine anno o fare battute simpatiche su chi fa classifiche di fine anno; io la facevo da anni e quest'anno ho smesso, non so se farmi tornare la voglia o no."
Davvero, guardate nell'archivio del blog. Io la faccio da anni, organizzando anche un patetico countdown che parte una ventina di giorni prima e svela un disco al giorno fino all'uscita in edicola del giornale per cui ho preparato la playlist (questo dovrebbe fornirmi almeno un motivo vero per averla fatta oltre al semplice diporto, anche se la carta stampata è morta non ha senso non la leggo più bla bla bla bla), e credetemi quando vi dico che sono fra i post meno letti in assoluto di questo blog, già di per sè non proprio agli onori delle cronache (non capisco perché, tra l'altro).
Comunque sia, sono bastati due o tre commenti di sincero incoraggiamento ed eccomi qua.
Cominciamo con le ristampe, come i siti seri.
Naturalmente, vale il solito disclaimer: le ho dovute compilare mostruosamente in anticipo, mancano sicuramente mille cose di cui mi sono accorto in seguito, etc etc etc.





10
The Stark Reality
Acting, Thinking, Feeling
(Now-Again)

Già ristampati e antologizzati intorno all'inizio del millennio dalla stessa Stones Throw/Now-Again, gli Stark Reality del chitarrista John Abercrombie - poi destinato a una brillante carriera nel giro ECM - e del vibrafonista, cantante e leader Monty Stark vengono oggi celebrati in grande stile con un sontuoso cofanetto (cd triplo o vinile sestuplo) che ne presenta l'opera integrale, con rarità e inediti. Il fulcro è l'unico album pubblicato all'epoca, nel 1970, dalla AJP di Ahmad Jamal (!): il doppio The Stark Reality Discovers Hoagy Carmichael’s Music Shop, reinterpretazione molto sui generis di un album per bambini del 1958 di Hoagy Carmichael, appunto. Testimonianza perfetta dell'approccio giocoso e senza freni del gruppo di Boston nel combinare in modo peculiare jazz progressivo e psichedelia, pop beatlesiano e funk imbevuto nel fuzz. Il resto è roba precedente, altrettanto brillante: il primo singolo, l'altro album Roller Coaster Ride, nastri con formazione allargata scoperti nel 2005, apparizioni televisive. Tutto insieme, fa già da ora una delle ristampe dell'anno. (da Rumore n. 255)





9
Dur-Dur Band
Volume 5
(Awesome Tapes From Africa)

Prima ancora di ascoltarlo, non è fantastico che questo disco innanzitutto esista? Un album registrato nel 1987 a Mogadiscio, da uno dei gruppi più attivi e amati dell'allora fiorente scena musicale somala pre-guerra, testimonianza di valore inestimabile per gli appassionati di Africa (quella zona è un mezzo mistero anche per loro) e per chiunque discuta lo status quo, Europa e stati Uniti al centro e tutto il resto folklore. Se ne occupa Awesome Tapes From Africa, miniera d'oro in forma di blog e occasionalmente etichetta, rimasterizzando la cassetta originale e stampandola in doppio vinile o cd: undici canzoni che frizzano come il migliore dance-pop tropicale, unendo melodie tradizionali e ipnotico tiro funk, atmosfere arabe o indiane del vicino oriente e linguaggio mainstream globale. Quattro cantanti, tre coristi, due percussionisti, sezione fiati, tastiere, e un'energia vitale contagiosa. (da Rumore n. 256)





8
Billy Bragg
Life's A Riot Spy Vs Spy
(Cooking Vinyl)

Dai, su.





7
The Waterboys
Fisherman's Box
(Chrysalis/Ensign)

Sono gli '80, ma non quelli che vanno di moda ora. Quelli di Mike Scott e dei Waterboys sono '80 che non andranno di moda mai, troppo sinceri e vulnerabili, troppo poco rimasticabili per le disincantate platee attuali. Lui è uno scozzese che dopo tre begli album di epico rock d'autore decide di essere irlandese. Si trasferisce a Dublino. Inserisce il violino di Steve Wickham e sposta Anto Thistlethwaite dal sax al mandolino. Si immerge tanto nella musica tradizionale del posto quanto in country, gospel, Dylan, Morrison. Il risultato è Fisherman's Blues, ottobre 1988, la potenza emotiva dei predecessori moltiplicata da un senso di libertà e serenità enorme. Un album frutto di sessioni quasi leggendarie, svoltesi a Dublino, Berkeley e infine Spiddal, vicino Galway. Meravigliose canzoni senza tempo come And a Bang on the Ear, When Ye Go Away, Fisherman's Blues, una Sweet Thing degna dell'originale su Astral Weeks.
Per il venticinquesimo, tutte quelle sessioni sono raccolte in un unico cofanetto, 121 tracce di cui 80 mai sentite prima. Un blocco che fa impressione per quantità e qualità, con roba che avrebbe gonfiato il disco almeno a doppio senza toccarne il valore, anzi alzandone la portata. Ma quello che davvero emoziona è la rivelazione del processo creativo, sia quando sentiamo improvvisazioni che brillano come cose provate e riprovate, sia quando vediamo canzoni prendere forma versione dopo versione. A Fisherman's Blues - la canzone - ne bastano due: una, la prima, con Scott al piano che chiama cambi e accordi, e una di cinque minuti più tardi che suona familiare. Perché è l'ultima, la definitiva. Quella che un quarto di secolo fa apriva l'album a cui dà il titolo con piglio da sommario, sintesi e manifesto, come forse solo London Calling aveva fatto in precedenza. (da Rumore n. 263)





6
AA.VV.
Kenya Special - Selected East African Recordings From The 1970s & '80s
(Soundway)
(...) Soundway pesca invece dal passato, e con Kenya Special - Selected East African Recordings from the 1970s & ‘80s (doppio cd o triplo lp più 7") mette in fila trentadue delizie d'annata, quasi tutte pubblicate solo a livello locale su 45 giri dalle tirature basse o bassissime. Un bell'incrocio di stili vicini e lontani, benga e rumba congolese, rock zambiano e afrobeat nigeriano, soul e funk, rock psichedelico e disco. E la stessa aria di sperimentazione in libertà che si respira nelle serie gemelle dedicate dall'etichetta a Nigeria e Ghana, anzi anche di più. (da Rumore n. 257)





5
Rodion G.A.
The Lost Tapes
(Strut)

Come spesso capita per questo genere di dischi, conta la storia ancora prima della musica. Il che non vuol dire che la musica non conti, o conti poco, ma solo che è la storia a mettere in discussione per prima le certezze, a fare viaggiare la mente. La storia di Rodion Ladislau Roșca ad esempio: guru elettronico nella Romania degli anni '70 e '80, autocostruttore di amplificatori e pioniere del campionamento con i suoi registratori Tesla a bobine, spirito indipendente sempre più isolato dopo la svolta autoritaria di Ceaușescu nel 1971, inattivo da decenni prima di questa riscoperta. Quella dei suoi Rodion G.A. (solo due pezzi pubblicati su una raccolta nel 1981, il resto davvero lost e ascoltato ora per la prima volta) è musica decisamente avanti, combinazione potente e personalissima di elettronica analogica, prog, psichedelia kosmische, funk e lontane arie folk-pop. La colonna sonora di un mondo futuro, o parallelo alla tristezza di quello reale. Escapismo ricoperto da una coltre di mistero, e percorso da un senso di tragedia immanente. Commovente. (da Rumore n. 258/259)





4
AA.VV.
Jazzactuel
(BYG/Charly)
La storia di un sogno. Tre ragazzi parigini che, un anno dopo il terremoto del '68, accolgono nella capitale francese una lunga serie di musicisti free jazz statunitensi e spiriti affini del giro psichedelico e avanguardista, ne registrano jam ed esperimenti, e fondano un'etichetta per documentare il tutto. La storia della BYG e della rivista Actuel, raccontata nel 2000 da un eccezionale cofanetto con cd triplo e libretto, splendidamente annotato da Thurston Moore e dal critico Byron Coley, pieno di foto e materiale d'epoca. La scaletta mette i brividi: Art Ensemble Of Chicago, Sun Ra, Archie Shepp, Don Cherry, Anthony Braxton, Paul Bley, Steve Lacy; sottovalutati come Grachan Moncur III, Frank Wright, Clifford Thornton, Dave Burrell, Jimmy Lions, Alan Silva (pazzeschi i 22 minuti di Seasons - Part 6 della sua Celestial Communication Orchestra), Burton Greene, Andrew Cyrille (solo percussioni in Pioneering), Dewey Redman. Oppure Daevid Allen, Gong, Acting Trio, il collettivo Musica Elettronica Viva. La musica mette i brividi, ancora di più. Non ci sono scuse, costasse pure il triplo del prezzaccio a cui gira. (da Rumore n. 257)





3
Ghetto Brothers
Power-Fuerza
(Truth & Soul)
Capita a tutti di chiedersi cosa sia successo nel giorno della propria nascita. Internet aiuta, ma quando continua a non saltare fuori nulla ci pensa il caso. Spulci la discografia di Pharoah Sanders ed eccola lì, la data di uscita di Black Unity. Ti perdi nel libretto che accompagna una ristampa ed eccoli lì, gli incontri di pace di Hoe Avenue. Gli incontri di pace di Hoe Avenue?
Il South Bronx a cavallo fra Sessanta e Settanta è uno slum in tutto e per tutto, nero e portoricano per due terzi. È il Bronx che abbiamo memorizzato in centinaia di film, sinonimo di area urbana degradata e pericolosa, terrore alla sola pronuncia. Nel giro di qualche anno il boom è andato in malora, lì più che altrove: negozi sbarrati, case che cadono a pezzi, incendi, scuole carenti, pugno di ferro poliziesco, disoccupazione al 30%, tanta eroina. Un vuoto enorme, che per i giovani viene riempito soprattutto dalle gang: cento quelle attive in tutto il Bronx, per una stima di undicimila affiliati complessivi su circa un milione e mezzo di abitanti. "Le gang," scrive Jeff Chang nel suo Can't Stop Won't Stop - A History of the Hip-Hop Generation, "diedero una struttura al caos. Offrivano rifugio, conforto e protezione. Incanalavano energie e trovavano nemici. Allontanavano la noia e davano significato alle giornate. Trasformavano il deserto in un parco giochi. Erano come una famiglia." Ma nel caso dei Ghetto Brothers, famiglia anagrafica e famiglia di strada si trovarono a coincidere.
Nato nel 1952 a San Juan, Porto Rico, Benjamin "Benjy" Melendez arriva a New York quando ha solo otto mesi, stabilendosi con i genitori e i sette fratelli nel Village e spostandosi dopo una decina d'anni nel Bronx, l'area più boricua della città. Lui, Victor e Robert provano un po' di gang della zona, ma alla fine decidono di fondarne una tutta loro, i Ghetto Brothers appunto. Dagli altri li differenzia l'etica, la dedizione al miglioramento della propria comunità, l'ispirazione progressista e sociale, il trattamento delle donne come pari. Le guerre di territorio e la difesa dei colors lasciano presto spazio ad altro: la cacciata di spacciatori e tossici dal quartiere, la pulizia di giardini e aree abbandonate, il supporto concreto ai meno abbienti, l'interesse per il nazionalismo portoricano.
Ma la violenza resta, e l'attivista Joseph Mpa suggerisce a Benjy un salto di qualità: trasformare l'organizzazione in forza di pace. Aiutarsi l'un l'altro invece di uccidersi, nella solita devastante guerra fra poveri. Guerra che lascia sul campo anche Cornell "Black Benjy" Benjamin, peace counselor - nessuna altra gang ha un ruolo simile - dei Ghetto Brothers, ucciso mentre tentava di pacificare due gruppi rivali in battaglia. Melendez e compagni decidono però di non reagire violentemente, e di promuovere anzi il primo storico trattato di pace fra tutte le gang del Bronx. Hoe Avenue Boys Club, 8 dicembre 1971. In sala c'è anche il quattordicenne Kevin Donovan, membro dei Black Spades allora noto solo come Bambaataa. Ed è grazie al clima di armonia che segue che può nascere l'hip hop. I Ghetto Brothers cominciano ad organizzare block party e jam session ogni venerdì sera, e in tanti seguono il loro esempio. Ma di rock'n'roll e non di rap stiamo parlando.
Cresciuti a pane e Beatles nell'idillio dei primi Sessanta, i fratelli Melendez esordiscono armonizzando classici dei Fab Four agli angoli delle strade del quartiere con altri due amici, battezzandosi Los Junior Beatles e arrivando persino ad aprire un concerto della leggenda Tito Puente. Quando il professore Manny Dominguez e sua moglie Rita Fecher (insegnante anche lei, e nel 1993 autrice insieme a Henry Chalfant del documentario Flyin' Cut Sleeves, testimonianza straordinaria di tutto quanto stiamo dicendo) riescono a trovare una sede all'organizzazione, il suo radicamento sociale diventa evidente, e lo spazio permette di dedicarsi alla vecchia passione. Nasce una band omonima: Benjy alla voce, Victor alla chitarra ritmica, Robert al basso, David Silva alla chitarra solista, Franky Valentin ai timbales, Luis "Bull" Bristol alla batteria. Arriva una specia di residenza di fronte a un negozio di alimentari, il padrone mette elettricità sandwich e bibite, loro suonano e cantano per i passanti. Sembrano canzoni dei Beatles suonate da Santana, un'oasi di pace ed energia positiva nata chissà come in mezzo all'inferno. Sono l'ultima cosa che ci si aspetta di sentire dopo tutto questo preambolo.
Power-Fuerza è l'unico, rarissimo album dei Ghetto Brothers. Registrato in un giorno in presa diretta con due percussionisti aggiunti. Pubblicato nel 1971 dalla Salsa Records e ristampato oggi dalla Truth & Soul. Otto canzoni di innocenza e orgoglio, che brillano di un candore e di una gentilezza d'animo commoventi. Inni di protesta, ma soprattutto di amore e spensieratezza. Vie d'uscita. Da una gang del Bronx ci si aspetterebbe tutt'altro, ma è proprio questo il bello. (da Rumore n. 253)





2
AA.VV.
There's a Dream I've Been Saving: Lee Hazlewood Industries 1966-1971
(Light In The Attic)

Dai, su.
Questa nemmeno ce l'ho.



1
AA.VV.
Dangerhouse: Complete Singles Collected (1977-1979)
(Munster)
Si fa presto a dire punk: chiedete, e ognuno avrà i suoi luoghi e i suoi periodi, i suoi simboli e i suoi inni. Se chiedete al sottoscritto, non si può prescindere dalla Los Angeles dei tardi '70. Il senso di disperazione, il sarcasmo nel venirne a patti, l'immediatezza sonora e la contemporanea reverenza per le radici r'n'r, l'inafferrabile legame che quei gruppi avevano con una terra solare e decadente, bella fuori e marcia dentro. In quel quadro, e in quella produzione già di per sè esaltante, i tre anni di vita della Dangerhouse si avvicinano alla perfezione. La toccano, la definiscono. Con con sedici vinili soltanto. La raccolta Yes L.A., che sbeffeggia la quasi coeva No New York. L'album dell'eccentrico Black Randy (Pass the Dust, I Think I'm Bowie... che titolo!). E i quattordici singoli qui riuniti, in doppio cd o in cofanetto limitato con repliche in vinile delle stampe originali. Perché è il singolo il vero formato Dangerhouse, la disciplina in cui eccelle uno dei primi marchi davvero DIY del tempo, e qui ce ne sono almeno cinque da antologia del rock tutto. Quello dei Randoms, con un inno supremo nella frenetica Let's Get Rid of New York (c'era simpatia, evidentemente). Il primo degli X, con l'urlo di We're Desperate e il salto nel futuro di Adult Books. Il primo degli Avengers, con l'assalto di We Are the One, I Believe in Me e Car Crash. 198 Seconds of the Dils, novantanove dei quali riservati alla lucida ostilità di Class War. We Got the Neutron Bomb dei burloni, potentissimi Weirdos. Almeno, si diceva: che ne facciamo di Alley Cats, Eyes, Bags e Rhino 39? E dei nervosi Deadbeats di Kill the Hippies? E di deliziosi irregolari come Howard Werth e appunto Black Randy? Ne facciamo tantissimo, oggi come ieri. (da Rumore n. 261)

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