30/03/03

Un altro brano scritto e realizzato appositamente contro la guerra di occupazione angloamericana in Iraq.
Assalti Frontali Il Mio Miglior Inganno (Baghdad Baghdad)

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10. Against Me! The Disco Before The Breakdown
(No Idea 2003, 7” nuovo, € 3.50)

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11. Against Me! Against Me!
(Sabot 2001, 7” nuovo, € 3.00)

Dopo nove dischi black, i primi due acquisti non black portano ben chiaro il marchio del migliore hardcore punk, genere e scena a cui ho dedicato gli anni migliori della mia vita, ma del quale ben raramente acquisto dischi ormai (chi legge “Soul Food” lo sa). Parlo, ovviamente, del punk come genere musicale universalmente o quasi riconosciuto. Altra cosa è dire che i primi due posti della mia top ten 2002 sono occupati da gruppi e da dischi che ritengo punk al 100%. Anzi, che ritengo due tra le migliori declinazioni odierne della magica parolina, ovvero Sleater-kinney e Q And Not U.
Non è un caso quindi che i due titoli in questione siano firmati quindi agli Against Me!, perché era veramente da tempo che un gruppo punk non mi dava queste sensazioni e questo senso di imprescindibilità, qui e ora. The Disco Before The Breakdown è il nuovo singolo del quartetto di Gainesville, segue il fenomenale Reinventing Axl Rose (vedi archivio di febbraio 2003) e precede il passaggio della band in casa Fat Wreck Chords.
Tom Gabel è come al solito capace di scrivere testi decisamente sopra la media, e altrettanto come al solito il folk-punk anthemico e viscerale della band è capace di commuovere. La title-track è spedita e sottolineata da una inedita sezione fiati. Tonight We’re Gonna Give It 35% è uno slow che si infiamma nel finale. Beginning In An Ending un numero acustico non trascendentale.
Mancano un po’ l’effetto singalong e i cori immediatamente memorizzabili, e forse per questo i brani ci mettono un po’ a farsi apprezzare del tutto, ma il 7” porta cose nuove, è il presente della band, e in questo senso è preferibile alle certezze. Se però le certezze sono come quelle che porta l’omonimo singoletto nero, allora vanno bene pure quelle: quattro pezzi acustici, tre dei quali già conosciuti in verisone elettrica sul citato album. Riascoltare Jordan’s First Choice, reinventing Axl Rose e soprattutto Those Anarcho Punks Are Mysterious così nude e ridotte all’essenziale -l’essenziale di grandi Canzoni Di Protesta- è un piacere.
Not In Our Name

gibbs

9. Joe Gibbs & The Professionals No Bones For The Dogs
(Pressure Sounds 2002, cd nuovo, € 11.00)
Mannaggia alle mie malandate finanze, ma la bonanza Pressure Sounds si ferma qui. Con un pezzo da novanta. Parlare di Joe Gibbs & The Professionals vuol dire in realtà parlare dei Mighty Two, ovvero lo stesso Joe Gibbs ed Errol Thompson: un team produttore/fonico di prim’ordine che contribuì come pochi all’esplosione reggae di metà ’70. Dubs From The Migthy Two 1974 To 1979 è infatti sottotitolata questa raccolta.
Già collaboratore di mammasantissima come Lee Perry, Niney The Observer e Bunny Lee, ma in qualche modo escluso dai circoli chiusi di Kingston per il suo essere forestiero di Montego Bay, il nostro si costruì una salda reputazione di produttore capace nei suoni e puntuale nei pagamenti. Al suo fianco, il genio del signor E.T. a manovrare con lui manopole e cursori. Gibbs con effetti speciali e Errol padrone del ritmo.
Il materiale su cui i due lavorano è di primissimo ordine, equamente diviso fra tracce vocali, strumentali e deejay. Spadroneggiano i Culture: I Am Not Ashamed, Jah Jah See Them A Come (trasfigurata in Informer Version), London Bridge Is Falling Down (altrettanto trasfigurata in Baldhead Bridge tra drumming incalzante e echi ovunque) e l’immortale Two Sevens Clash nella versione deejay di Bo Jangles, con memorabile e declamatoria intro a citare le parole di Marcus Garvey. Vibrazioni serissime percorrono la scarna C/W Burning Version (Burn Babylon di Sylford Walker) e l’altrettanto scarna War Is Over (dall’iperclassico Tribal War di Little Roy). Il ritmo Real Rock su cui poggerà Armagideon Time guida Alan: Hit By A. Larry. Tutte le diciotto tracce sanno fino al midollo del reggae che piace a me. È musica strumentale alla quale l’assenza di voci (in verità nemmeno assenti, anzi… il loro eco la caratterizza eccome…) non toglie un grammo della carica militante, anzi enfatizzandola. Non so spiegare come, ma è così. Valgono anche in questo caso le azzeccatissime parole contenute nelle note di In The Dub Zone di Ja-Man All Stars (Blood & Fire), che chi legge Sodapop spero abbia colto nella mia recensione: "The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon. I produced one with Junior Byles and Rupert Reid, others are by Bob, Yabby You, Burning Spear etc. and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass (…). The range of emotions reflected in reggae varies from sad, hopeful, defiance, vengeance, redemption, thanks and praise, comfort, and happiness. You name it - and reggae reveal and expose that emotion".
Bella la grafica e ottimo il booklet. Senza dubbio una delle migliori collezioni dub in mio possesso. Parola.

26/03/03

royals

8. The Royals Pick Up The Pieces
(Wambesi 1977/Pressure Sounds 2002, cd nuovo, € 11.00)
Ancora Pressure Sounds alla scoperta del reggae perduto di qualche decennio fa. E questo è reggae davvero perduto, perché i Royals di Roy Cousins e dei vari compagni di avventura che al suo fianco si sono succeduti sono esistiti dal 1967 al 1979, lasciando in eredità soltanto dei singoli e un paio di album. Il primo dei due viene riesumato ora con aggiunta di bonus tracks e versioni alternative (ma nessun dub, purtroppo).
Nome apprezzato quanto marginale e sfortunato commercialmente, i Royals erano un gruppo vocale, nella migliore tradizione americana prima ed isolana poi. Ramo laterale di quell’immaginario albero genealogico che lega Drifters e Temptations a Pioneers, Paragons e Wailers prima, Congos, Abyssinians ed Heptones dopo. Una voce solista, le altre a sostenerla con armonie vocali perfette, e a battere sotto il ritmo del reggae più soulful.
Soulful anche quando i temi sono chiari e forti, introdotti da titoli come Ghetto Man, Blacker Black, Leave Out Of Babylon, Sufferer Of The Ghetto. Proprio questo, a pensarci bene, è quello che spiazza ad un primo ascolto: leggi queste cose e ti immagini l’apocalisse in levare, il dramma su basso e batteria, non tre o quattro voci di seta e melodie celestiali. Ma Roy Cousins è questo, e fin da quando si faceva il culo con i pacchi delle poste jamaicane (insieme a Barry Llewellyn degli Heptones, Tommy Thomas dei Chantells e Don Carlos, giusto per la cronaca, oltre ai futuri Royals Errol Davis e Lloyd Forrest… ma ve lo immaginate quel magazzino? Roba da pagare per lavorarci!) per poi investire i pochi guadagni nel suo gruppo e nelle sue etichette, ci ha sempre creduto. E le atmosfere più tese alla fine ci sono lo stesso, nella citata Blacker Black come in Facts Of Life, If You Want Good, Make Believe. Insomma, tocca consigliare anche questo.
Notevoli la confezione e il booklet, forse solo un po’ vago sulla provenienza dei venti brani (quale è la scaletta originale? Quali i bonus? Quale l’anno di ogni pezzo?).

24/03/03

burningspear

7. Burning Spear Spear Burning
(Pressure Sounds 2001, cd nuovo, € 11.00)
Parlando di Winston Rodney parliamo di uno dei Campioni con la C maiuscola. Uno dei pochi artisti jamaicani ad aver realizzato con successo il crossover verso un enormemente più vasto pubblico internazionale, ma senza compromettere i suoi ideali e la sua visione di mezzo centimetro.
Voce tonante ed inconfondibile forgiata come molte a Studio One, temi religiosi e soprattutto politici affrontati in maniera seria e diretta, brani spesso slegati dalla formula strofa/ritornello ma nondimeno capaci di farsi ricordare, la scelta dell’indipendenza culturale dalla scena cittadina di Kingston (lui è un uomo di St. Ann, costa nord, che nella capitale ci andava solo a registrare…), un carisma imponente a cominciare dallo pseudonimo scelto: signor*, Burning Spear.
Fresco di un contratto con la Island che ne farà quello che tuttora è (se non avete ancora approfittato di Marcus Garvey/Garvey’s Ghost in serie economica, album e relativa versione dub su un unico cd, fatelo immediatamente o sparite. Altrimenti approfittate della medesima offerta per il seguente Man In The Hills), il nostro comincia a produrre singoli con la sua etichetta, la Spear, per sé e per amici e collaboratori come Philip Fulwood soprattutto.
E proprio la voce dolce ma ferma di quest’ultimo è una delle sorprese che questa seminale raccolta -a queste produzioni dedicata- riserva: le sue Thanks & Praises e I Gave You My Word stanno all’altezza del miglior Burning Spear, la seconda soprattutto. Idem con patate per On That Day di Burning Junior, meno dipendente dal modello di quanto il nome scelto non porterebbe a credere. Il deejay originale Big Joe impreziosisce The Prophet, ed è una delle purtroppo poche occasioni per sentirlo.
E lui, Winston Rodney? Beh, questi singoli completano ed integrano in maniera perfetta i due album succitati come testimonianza di un grande del reggae in stato di grazia. Versioni dub scintillanti accompagnano quasi ogni traccia, ed uno dei migliori booklet visti ultimamente completa l’opera rendendola fondamentale.
(Poche note aggiunte qui in cima, ma a posteriori: la tracotanza e la menzogna sono sotto gli occhi di tutti, così come l'orrore, ed è davvero poca la voglia di dire la mia. L'impero colpisce ancora, tutto lascia pensare che sia solo l'inizio e tutto sembra andare come deve andare che noi lo vogliamo o no. Preferisco invitarvi, ma sono sicuro che non avete bisogno del mio invito, a cercare informazioni contaminate il meno possibile e a boicottare il più possibile. STOP THE SON OF A BUSH!!!)

Trattandosi del quinto titolo reggae su sei (ed essendocene molti altri già in coda) mi pare sensato ribadire un paio di cosa già dette e ormai sperdute da qualche parte negli archivi.
Mi raffiguro la maggior parte dei lettori di “Soul Food” come fruitori di rock indipendente in senso lato, e come tali me li immagino soprassedere di fronte alla spesso schiacciante maggioranza black dei dischi di cui mi trovo a parlare. Soprassedere non tanto in sede di lettura del weblog, quanto in sede di approfondimento successivo. Almeno fino a quando qualche bianco non si metterà a fare musica direttamente influenzata da questa e noi la compreremo. Quella, ovviamente, non questa.
Chi legge Sodapop mi avrà già sentito blaterare di queste cose (e di altre, vedi la non-differenza tra dub e reggae). Chi non la legge farebbe bene a leggerla: un manipolo di valorosi si occupa con competenza e rigore che mi sono sconosciuti di rock indipendente in senso lato. Il sottoscritto si occupa di reggae. Se volete leggere le mie recensioni, cliccate sui nomi che non conoscete
Se state cominciando a capire che la musica è tutta bella ma il reggae lo è un po’ di più, e desiderate ulteriori e ben più seri approfondimenti, vi consiglio l’acquisto immediato di “The Rouch Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton. La si trova piuttosto facilmente, ed è qualcosa di imprescindibile.

pratt

6. Phil Pratt Phil Pratt Thing
(Pressure Sounds 2000, cd nuovo, € 11.00)
Da tempo avevo messo gli occhi su questo tributo alle produzioni del misconosciuto Phil Pratt, produttore non kingstoniano e quindi per certi versi al di fuori del caotico music-biz della capitale. Beh, non mi sbagliavo. Pratt aveva stile, gusto ed esperienza degni dei più illustri contemporanei, e lavorò con nomi di primissimo piano.
Ken Boothe, per esempio. Campione del pop-reggae, inaugura le danze da par suo con I’m Not For Sale, per cedere subito la scena a Big Youth ed alla sua drammatica Keep Your Dread, senza dubbio uno dei vertici di Manley Buchanan. Di seguito, due versioni strumentali del pezzo, una accreditata a Bobby Kalphat ed alle sue tastiere, l’altra dubbata a dovere.
Ancora roots & culture per continuare, e del migliore: ascoltate Going The Wrong Way di Al Campbell –o il trattamento deejay maestoso che ancora Big Youth le riserva- e ditemi se non è al livello dei grandi classici del reggae. Dello stesso Al Campbell Take These Shackles ed Every Man Say, ma quei livelli restano ineguagliati. Party Time è una versione precedente a quella che decretò la fama definitiva degli Heptones sotto l’egida di Lee Perry.
Verso la fine, si torna a temi più rilassati e terra terra: Who Gets Your Love è una delle tante prove della classe di Ken Boothe, una delle migliori (peccato non sia presente qui nella spettacolare verisone estesa con deejay contenuta nell’omonimo album). Talk About Love di un suadente Pat Kelly sul quale irrompe un Dillinger in forma smagliante è una versione discomix da manuale. Let Love In è l’unico contributo del principe Dennis Brown alla compilation, ma è più che sufficiente. Big Score, infine, è di nuovo Dillinger sulla suddetta.
PS- Per approfondimenti ulteriori sulla figura di Phil Pratt e sulle sue produzioni, impossibile non citare la web radio/zine australiana Fire Corner: lo speciale intitolato come questo cd è una meraviglia.

19/03/03

Visto “8 Mile”. Freestyle entusiasmante.

leeperry

5. Lee Perry Voodooism
(Pressure Sounds 1996, cd nuovo, € 11.00)
Il suo distributore italiano saluta l’anno nuovo con un bel 20% di sconto su tutto il catalogo e, dentista permettendo, come posso non tuffarmi su Pressure Sounds, o quantomeno sull’essenziale della label londinese non ancora in mio possesso? L’ho già detto ma farà bene ripeterlo, a livello di ristampe reggae siamo appena un dito sotto l’Inarrivabile.
Cominciamo come meglio non si potrebbe con il benemerito Scratch e con una portentosa raccolta di ultrararità periodo Black Ark, il suo apice: banzai! Come prevedevo, abbondano meraviglie in rapida sequenza. Che dio o qualcuno al suo posto benedica Errol Walker, per esempio: se Voodooism dovesse servire a una cosa soltanto, che sia il raccolto di gloria postuma che Better Future e il suddetto meritano. Ma è solo una delle venti citazioni possibili: grossomodo dieci originali con relativa geniale versione dub a cura dell’inarrivabile Upsetter. Siamo nella prima metà dei ’70, e da questi studi e queste mani sta uscendo a getto continuo roots music della migliore specie, dai campioni riconosciuti come dalle seconde e terze linee a cui il cd è dedicato. Altissimo livello.

15/03/03

blackeyes

4. Black Eyes Some Boys/Shut Up I Never
(Ruffian/Release The Bats 2002, 7” nuovo, € 3.00)
Fra pochi giorni li conosceremo tutti per il loro imminente stupefacente incredibile album di debutto su Dischord, e se tanto mi dà tanto saranno già tra i nomi nuovi di molti per il 2003. Da Washington, va da sé, arrivano i Black Eyes con la loro formazione che dire atipica è poco: Dan Caldas (batteria e basso), Daniel Martin McCormick (chitarra e percussioni), Hugh McElroy (basso, tastiere e percussioni), Jacob Long (basso, chitarra e percussioni), Mike Kanin (batteria). E tutti cantano.
Ma è solo parzialmente l’ascolto ostico che ci si potrebbe aspettare. Se Shut Up I Never sul lato b è infatti un esemplare caotico e tribale di suoni nuovi, con i vari ritmi post-punk inglesi come vago sfondo ed un approccio creativo e libero, Some Boys sul lato a è un piccolo capolavoro di post-punk moderno che entra in testa al volo. Signori, Black Eyes. Segnatevi questo nome.

05/03/03

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3. Gil Scott-Heron Pieces Of A Man
(Flying Dutchman/Bmg 1971, cd usato, € 6.00)
The Revolution Will Not Be Televised, tanto per togliersi il pensiero. Già ascoltata un anno prima in versione solo vocale nell’album di esordio del Nostro (Small Talk at 125th and Lenox, disco appunto spoken-word con solo sporadici accompagnamenti percussivi), è chiamata ad aprire anche Pieces Of A Man, sostanzialmente il primo album “musicale” del poeta di Chicago. Basterà ascoltarla una volta sola per capire come sia diventata il manifesto del suo autore e uno dei brani simbolo per la controcultura di ogni dove: linea di basso ipnotica, testo di acuta denuncia declamato con sarcasmo e stile, urgenza.
Non avrà la stessa carica epocale e la stessa peculiarità, ma anche il resto dell’album risulta notevole: siamo dalle parti di un soul-funk piuttosto raffinato dal retrogusto jazz, guidato dal basso e dal pianoforte e perfetto per mettere in mostra le doti non solo recitative ma anche e soprattutto canore di Scott-Heron, sempre combinate con una lucidità politica e sociale rara. Almeno Lady Day And John Coltrane, Home Is Where The Hatred Is e la conclusiva, scura The Prisoner meritano la citazione, ma è il livello medio ad essere alto. L’importanza e la coesione dell’opera fanno il resto.
Stupisce ben poco, quindi, come l’uomo in questione resti tuttora una delle icone più forti della consapevolezza nera, e uno dei più credibili modelli di uomo nuovo afroamericano emersi dalle bollenti stagioni a cavallo tra i ’60 ed i ’70.

03/03/03

dillinger

2. Dillinger CB 200
(Island 1976, cd usato, € 7.00)
Uno che invece mainstream lo è diventato più per caso che per scelte artistiche o produttive è Lester Bullocks a.k.a. Dillinger: la sua Cocaine In My brain l’avrete sentita anche solo nominare almeno una volta, ed è il classico specchietto per le allodole, per farvi un’idea non propriamente esatta del personaggio e del reggae in generale. Come potrebbero d’altronde opinione pubblica da un lato e sballoni assortiti dall’altro non gettarsi a corpo morto su una canzone intitolata così?
Beh, sappiate che in questo album di debutto -registrato a Channel One con i meglio musicisti e prodotto da Jo Jo Hookim- Cocaine In My brain è il pezzo meno bello, pur mostrando però uno stile vocale atipico e facilmente riconoscibile come progenitore del rap a tutti gli effetti. Gli altri nove sono invece esemplari di superbo deejay style su memorabili ritmi dubbati, pescati negli infiniti archivi dei suddetti studi (Might Diamonds soprattutto). Dall’iniziale title-track alla conclusiva Crankface, in cui il più giovane amico Trinity gli si affianca per la prima di una serie di fortunate combinations a venire, attraverso No Chuck It, Plantation Heights e Buckingham Palace, con l’urgenza e lo stile che lo resero uno dei dj più amati dai punk dell’epoca, oltre che ovviamente dai connazionali in patria. Album immancabile in una discografia reggae che voglia dirsi tale.

02/03/03

Comincia marzo e cominciano i dischi comprati nel nuovo anno. Due mesi di ritardo suonano male, ma non temete: con i pochi soldi che girano da queste parti ultimamente dovrei riuscire a mettermi in pari in breve tempo. Olè!

tosh

1. Peter Tosh Bush Doctor
(Rolling Stones 1978/Emi 2002, cd usato, € 7.75)
I lettori fedeli già sapranno della mia innata e in qualche maniera irrazionale diffidenza verso il reggae più mainstream. È difficile da spiegare, e la maggior parte dei dread in ascolto potrà credermi pazzo, ma dopo aver ascoltato Yabby You, Lopez Walker o Trinity è difficile passare (o tornare) a Peter Tosh e per certi versi persino allo stesso Bob Marley.
Forse dipende dai suoni, chissà. Dice bene Manzie Swaby nelle note alla recente ristampa Blood & Fire di due suoi dub album dei ’70: “The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon (…) and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass”.
Forse dipende anche dalla ricerca di un mercato più vasto di quello jamaicano, fondamentalmente impostato sui singoli, o forse dagli stessi artisti scelti per il grande salto, fatto sta che in buona parte delle produzioni mainstream, ahimè, Babilonia ha poco da temere.
Prendiamo questo terzo album solista di Peter Tosh dopo la sua fuoriuscita dai Wailers: prodotto da Tosh stesso e da Robbie Shakespeare sotto la supervisione di Mick Jagger e Keith Richards impazziti per il più militante e rigoroso dei tre, è evidentemente un tentativo di break presso il grande pubblico, in parte anche riuscito. Per carità, Bush Doctor è un gran pezzo, Stand Firm e I’m The Toughest pure, e le sei bonus tracks aggiunte in questa edizione rimasterizzata dello scorso anno (bello anche il booklet) ci permettono di ascoltare versioni estese e inedite, ma lasciatemi dire che la voce di Tosh non è davvero nulla di speciale e che questo Bush Doctor non è tra i primi dischi che consiglierei a chi volesse avvicinarsi al reggae.

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