30/11/11

3. James Blake. James Blake. Atlas/A&M.



Una cosa colpisce prima delle altre in questo album di debutto di James Blake: la sicurezza. Il non avere paura di riempire il proprio esordio – uno dei più attesi dell'anno, stando all'accoglienza riservata ai tre EP che lo hanno preceduto e al montare delle chiacchiere dopo la firma major – di silenzi, di spazi vuoti che qualunque altro ventiduenne a inizio carriera si sarebbe affrettato a riempire con ogni genere di cosa, probabilmente superflua (esclusi gli xx: se due prove fanno un trend, è un trend che ci piace). In questo, soprattutto, il giovane londinese mantiene il legame con la scena dubstep nella quale si è fatto le ossa, e con le tecniche del dub originario: l'assenza conta come la presenza. Il resto è un'evoluzione brillante e inattesa, solo in minima parte annunciata dall'ultimo dei tre EP di cui sopra, il delicato Klavierwerke, ed esplosa qualche mese fa con la meravigliosa cover di Limit to Your Love di Feist. Qui piazzata esattamente al centro delle undici tracce, non a caso: voce e pianoforte da veterano anni '70, echi, ritmo lento e possente nella sua essenzialità, bassi su frequenze da terremoto.
È la porta d'ingresso in un mondo vulnerabile e puro, in cui sembra di sentire un Antony meno pomposo, un Jamie Lidell calmo o un Bon Iver fattosi nero e soulful, alle prese con un suono minimale e notturno dove galleggiano tasti elettronici e acustici, beat nitidi ed essenziali, voci manipolate e decostruite, effetti e rumori. Una cosa a metà strada fra intuizione e calcolo, ostica sulla carta ma capace di comunicare con l'esterno a un livello emozionale profondo. La prima metà dell'album è in special modo abbagliante: il crepitante r'n'b spettrale di Unluck; il crescendo inesorabile di Wilhelms Scream da lamento soul vecchio stile a fremente ammasso di bassi e droni; quello di I Never Learnt to Share, che comincia solo vocale, cambia pelle in mezzo a suoni sempre più tesi e inquieti e sfocia in uno spiritual alieno, mentre Blake ripete la stessa frase come un mantra; le due parti di Lindesfarne, autotune e pause prima, ritmo micro e melodia folk da pace dei sensi dopo, e altri bassi enormi.
La seconda metà è meno compatta e più riflessiva, ma altrettanto gratificante. Give Me My Month e Why Don't You Call Me sono brevi e dolci ballate per piano e voce, la seconda caratterizzata da un lavoro radicale sulle voci. To Care (Like You) alterna ritmo dubstep/techno al rallentatore e stasi atmosferiche che ne enfatizzano le arie da Stevie Wonder malinconico. I Mind è anche lei in bilico fra serenità e tensione, e fosse in un disco di Burial non ci meraviglieremmo. Measurements chiude in gloria, con solennità gospel e ricordi dell'Arthur Russel più etereo e intimista.
(Rumore n. 229)

Il rischio sarebbe quello di arrivare a cose fatte. Con i tempi del mensile mentre fioccano le pagine dei quotidiani, e le lagnanze di quelli (pochi per fortuna) che era meglio prima. Fortuna che c'è BPM, le due paginette in cui ogni mese il sottoscritto e il maestro Valletta cercano di aprire finestre su ciò che si muove in ambito dance ed elettronico. James Blake lo abbiamo intercettato lì, un annetto fa. Che fosse un fuoriclasse dal futuro radioso e più vasto dei confini di genere è stato evidente fin da subito, ma una evoluzione così rapida e continua era dura da prevedere. Evoluzione che non implica necessariamente un miglioramento: Blake era meglio prima ed è meglio adesso, semplice. Ma il percorso che ha portato al suo eccezionale album omonimo - disco del mese nello scorso numero, pubblicato in digitale a inizio febbraio e subito schizzato nei primi dieci anche in Italia, con uscita fisica programmata per marzo - è davvero qualcosa di inusuale per tempi e qualità.

Un anno e dieci mesi fa, per cominciare, a firma James Blake non esisteva nulla. Un primo 12” (Air & Lack Thereof) è arrivato a giugno 2009, seguito da un remix per Untold. Poi è cominciato un 2010 che il ragazzo di Deptford e i suoi fan non scorderanno facilmente: tre 12” uno più bello dell'altro (The Bells Sketch a marzo, CMYK a giugno, Klavierwerke a ottobre), più un 10” co-firmato con Airhead (Pembroke), un apprezzato remix per gli amici Mount Kimbie, un bootleg di A Milli (quella di Lil Wayne, esatto: è anche ironico) e verso fine anno il botto definitivo. Ovvero, quella cover di Limit to Your Love di Feist che ha impiegato giusto 4'40” per diventare sua e basta. Ridotta all'essenziale, spogliata della strofa, voce e pianoforte appoggiate su bassi mostruosi e silenzi. Biglietto da visita perfetto per l'album di cui sopra, che la contiene insieme a dieci tracce autografe in cui un dubstep più immaginato che reale si mescola a brandelli di soul futurista, e a una cura maniacale di ogni particolare sonoro. Pazzesco, vero? Ed è nato nel 1989, il bastardo.

Raccontaci la tua storia, innanzitutto. Quali sono stati i tuoi primi contatti con la musica?
Ho cominciato a fare musica quando ero molto giovane, alle elementari, verso i nove anni. In famiglia avevamo un piano, un'armonica, una chitarra... io suonavo il piano e cantavo. Mio papà aveva dell'attrezzatura e registrammo anche qualcosa, così, per averla. Ma non ricordo di cosa si trattasse.

La tua è una famiglia musicale, quindi?
Sì, specialmente mio papà. Suona la chitarra e canta, e mi ha insegnato un po' di cose sul registrarsi da soli. Cantavamo tutti insieme, Happy Birthday in macchina andando al mare, cose così.

Lui non lo dice, ma viene in aiuto un suo tweet dell'11 febbraio (“James Litherland È mio padre, non un tipo che è stato prodotto da mio padre”) in risposta a un pezzo di Pitchfork (“La cosa divertente di The Wilhelm Scream di James Blake è che si tratta di un'interpolazione di Where to Turn, del cantante soft-rock britannico James Litherland, che come ha detto lo stesso Blake in un'intervista a Zane Lowe di BBC 1 è stata prodotta da suo padre”). Insomma: suo papà alla fine degli anni '60 era nientemeno che il chitarrista e cantante dei Colosseum, culto minore del jazz/prog britannico. Where to Turn è una mezza merda, sia detto, ma chi già non può farne a meno sappia che sta su 4th Estate, album solista del 2006. Nella citata sessione radiofonica, sempre per stare in tema, Blake ha anche suonato una cover per voce e piano di A Case of You di Joni Mitchell, manna per chi sposa la tesi della antonyzzazione precoce del ragazzo.

Quali sono state le tue prime passioni musicali?
Non ne sono sicuro. La musica per molto tempo è stata qualcosa che ero consapevole di fare, ma non qualcosa per cui mi appassionavo. La amavo, era perfettamente naturale per me, ma non direi che fosse una mia passione. Lo è diventata più tardi.

Compravi dischi?
No. In casa avevo la musica dei miei genitori o prendevo in prestito i cd in biblioteca, e ovviamente internet ha dato una mano. Non avevo soldi da spendere nella musica. Non che non ne avessi in assoluto, ma non consideravo la possibilità di possedere della musica. In casa c'erano molti cd, e io ascoltavo quelli. Non cercavo nuova musica, tutto quello che mi interessava lo sentivo nel mainstream o lo avevo lì, non avevo bisogno di comprarlo.

Che dischi ricordi?
Sam Cooke e molto soul, ma anche Jimi Hendrix, molto rock, del funk. Con il piano provavo ad andare dietro alle canzoni.

Hai anche studiato musica a scuola, prima alle superiori e poi al prestigioso Goldsmiths, Università di Londra.
Alle superiori mi piaceva molto. All'università era ok, ma non pensavo che quello studio mi sarebbe stato molto utile.

Come si passa da tutto questo a te che fai uscire vinili per alcune fra le etichette elettroniche più importanti in circolazione?
È stato un vero switch. La settimana prima suonavo il piano per conto mio, come al solito, e quella dopo... ero andato a una serata a Londra, Forward, e lì avevo scoperto questa musica nuova. Non avevo sentito molta elettronica prima, e di certo non la ascoltavo a casa, ma lì ho drizzato le orecchie. Ho voluto subito farne di mia, e l'unica maniera per farla era comprando un laptop; andavo all'università e avrei avuto bisogno di un laptop comunque. Mio padre mi aveva già mostrato un po' di cose. Ho cominciato a fare del dubstep, volevo... sì, volevo solo fare del dubstep.

Creata nel 2001, Forward (anche nota come FWD>>) è l'atto di nascita pubblico del dubstep, il suo uscire dai negozi di dischi e dalle camere da letto di Londra Sud per farsi movimento. Idem dicasi per il coevo grime e per il più recente funky. Ci sono passati tutti, da Skream a Kode9, da Dizzee Rascal a Wiley. La bass music londinese del futuro diventa presente lì, e sulle frequenze di Rinse FM.

Chi suonava quella sera?
Penso fosse Coki, o Loefah. Era musica così scura, introspettiva, pesante. Mi ha spazzato via. Una delle migliori notti della mia vita, è cominciato tutto lì.

Pochi giorni dopo eri a casa a fare musica sul tuo computer. Hai prodotto molte cose prima di Air and Lack Thereof?
Sì, ma nessuna verrà pubblicata! Era un terreno del tutto nuovo per me, è quello che ho sempre cercato, in qualunque cosa facessi. E le cose nuove sono molto più possibili con l'elettronica.

Ti sei accorto che quello che veniva fuori non era dubstep canonico?
No, pensavo fosse dubstep.

I confini del genere in effetti sono molto ampi...
Lo sono ora, non lo erano nel 2007. Mala, Coki, Skream, Benga: quella gente suonava dubstep, non altro. Allora il dubstep era post-garage, era il nuovo garage, perchè era la cosa che veniva dopo. Aveva tutti gli elementi del garage, ma con il tempo dimezzato. Quando scrivevo non pensavo a una definizione ampia del dubstep, per me era puramente batteria e basso, non c'erano molte opzioni. Le cose sono venute fuori un po' diverse... è così che è nato il post-dubstep: molti volevano fare dubstep ma non sapevano come, non avevano la stessa ispirazione musicale di chi ha creato il dubstep originale. Avendone un'altra, hanno fatto musica diversa, che essendo così pesantemente influenzata dal dubstep è stata chiamata post-dubstep.

Che ne pensi del dubstep attuale?
Come in ogni genere esce molta merda, e molta musica invece eccellente. È un genere che non ha bisogno di dare spiegazioni riguardo la sua rapida evoluzione, possiamo semplicemente apprezzare i vari tipi di musica nei quali si è frantumato. Ma non ci penso molto, ho amici che fanno ottime cose e me le passano, la gente della Hemlock, della Hessle, della R&S. Non ho bisogno di ascoltare valanghe di wobble.

Quali sono i tuoi produttori preferiti al momento?
Blawan e Joy Orbison. Blawan fa garage molto coraggioso, mentre Joy Orbison ha saputo elevarsi al di sopra dell'hype che lo circondava e passare oltre, per produrre le sue cose migliori di sempre.

Quanto è stato importante il dubstep nello sviluppo del tuo linguaggio?
Enormemente. Mi ha insegnato lo spazio, e l'importanza del sound design, dell'essere estremamente meticoloso nei confronti del suono. Perchè un charleston suona come suona, che reazione provoca nella gente il cambiarlo anche solo leggermente. Ogni singolo suono in ogni mia traccia è pensato in questa maniera. Non lo sarebbe se non fossi passato dal dubstep.

La tua etichetta insieme al disco mi ha mandato i testi, e l'ho apprezzato. Non succede quasi mai, soprattutto in generi vicini alla scena elettronica. Immagino siano molto importanti per te...
Sono incredibilmente importanti. Danno un'idea del perchè le canzoni siano venute fuori. Sono piccoli riassunti, in forma quasi di haiku, delle cose che mi sono successe o che mi stavano succedendo durante l'anno e mezzo in cui l'album è stato scritto. Sono stati scritti in momenti molto diversi fra loro, non significano o rappresentano la stessa cosa, ma è vero che stanno bene insieme e si adattano bene alla musica. Alcuni sono incredibilmente tristi e comunicano un fortissimo senso di isolamento, altri invece no, almeno per me.

La cover di Limit to Your Love è bellissima, penso sia uno di quei casi in cui un artista prende una canzone che ama e la fa sua. Come la hai scelta?
Grazie! La prima versione era semplicemente una sperimentazione, che avevo cominciato al pianoforte dopo avere sentito l'originale da un amico. Più avanti ho usato quella registrazione nella produzione dell'album, ed è diventata la traccia che è ora.

Stai lavorando a cose nuove? Vedi già una direzione?
Sto sempre lavorando a materiale nuovo, e spero di non smettere mai. Non so esattamente dove andrò, ma voglio produrre musica senza voci e senza accordi, spinta solo dal ritmo.
(Rumore n. 230)

4. Machinedrum. Room(s). Planet Mu.



Aggiungere l'americano Travis Stewart - già noto come Syndrone e Tstewart, e metà dei Sepalcure - nella stessa categoria dove già alloggiano i compagni di etichetta Falty DL e Boxcutter, quella dei fuoriclasse che stanno definendo il suono del 2011. Un suono non (ancora) riconducibile a formule precise, ma che in Room(s) come in You Stand Uncertain e The Dissolve, tutti pubblicati dalla sempre più inattaccabile Planet Mu, prende forma e stupisce. Stavolta partendo dai 160 bpm circa del footwork di Chicago, e rimescolando le carte con l'intera tavolozza della storia della dance apparentementre a disposizione: house e techno, Londra e tropici, bassi grossi e leggerezza soul, ritmi sincopati fra jungle e garage e placidi synth anni '80, campioni r&b trattati fino al limite, stab a profusione, triplette percussive come se piovesse. La tecnica di un veterano cresciuto a pane e hip hop, e la spontaneità di un esordiente. Un'inebriante ipotesi di pop elettronico mutante, fisico e mentale insieme, tonificante e rilassante. Indispensabile.
(DJ Mag n. 14)

Noi contro di loro



Giornalismo italiano, anno domini 2011: l'articolo sull'assalto all'ambasciata inglese a Teheran lo fa il corrispondente da Londra.
Volendo pensar bene, e non male come al solito: lo fa lui perché "La Stampa" non ha un corrispondente a Teheran.
Ma perché proprio lui e non uno in posizione neutrale, a Torino per esempio?
Ma soprattutto: perché nel 2011 "La Stampa" non ritiene necessario avere un corrispondente a Teheran?

29/11/11

5. Martyn. Ghost People. Brainfeeder.



Si sono cercati e trovati, Martyn e Flying Lotus, e dopo reciproci remix il produttore olandese firma oggi un eccellente album per l'etichetta del visionario californiano. Rispetto al precedente Great Lengths, bello ma freddino, Ghost People beneficia dell'aria vitale e libera di casa Brainfeeder; di quella sperimentazione sporca che in altri titoli del catalogo sfocia nell'eclettismo un po' fine a se stesso, ma che qui invece si combina perfettamente con il talento di Martijn Deykers. Del dubstep degli inizi ne è rimasto poco (ma c'è la voce di Spaceape nell'iniziale Love and Machines), e la techno di sapore dub un tempo preponderante è diventata solo una fra le varie ispirazioni in ballo, in un amalgama imprevedibile che prende anche garage e 2-step londinesi, sintetizzatori svolazzanti anni '80, romanticismo detroitiano e rigore berlinese. Il suono del 2011, insomma, in una interpretazione del tutto personale.
(Rumore n. 237)

6. Low. C'mon. Sub Pop.



“Io non sono altro che cuore”. Sta negli otto minuti di Nothing But Heart il cuore del nono album dei Low. Uno di quegli slow in crescendo ai quali il trio di Duluth ci ha abituato, con i dettagli a fare la differenza: a partire in mezzo al nulla sono solo la voce di Alan Sparhawk e una chitarra elettrica distorta. Il tempo di cantare quattro righe e il titolo diventa l'unico testo, proprio quando entrano in successione una batteria spazzolata, il coro di Mimi Parker e un violino, e la canzone comincia a ingrossarsi fino a dimensioni epiche (spoiler: con un controcanto intorno al sesto minuto che è qualcosa di ultraterreno). Dal freddo al caldo, dal vuoto al pieno, dalla solitudine alla compagnia. All'essenza, al cuore appunto. Quattro anni dopo lo splendido Drums & Guns e i suoi gelidi echi di guerra, C'mon riporta tutto a casa. Una casa dove la forza di andare avanti è generata da chi ci sta vicino, dall'amore che ci unisce e da alcune delle cose più calde e struggenti che i Low abbiano mai fatto: altri gospel delle piccole cose ripetuti a oltranza che risuonano potenti come canti da stadio, “Oh majesty” sul crescendo altrettanto impetuoso di Majesty/Magic, “Il mio amore è gratuito” nella scarna e solenne $20; distillati della loro grandezza come l'iniziale Try to Sleep (con carillon velvettiano aggiunto), Witches (con il banjo di Nels Cline che arriva da chissà dove e si incastra perfettamente) e la maestosa Especially Me, altro capolavoro del disco. Piacciono anche le insolite incursioni fra sogni west coast e country-folk del migliore (You See Everything, Something's Turning Over), ma piace soprattutto il fatto che i Low esistano, e ogni tanto ce lo ricordino.
(Rumore n. 231)

PS - qualche tempo dopo aver scritto questa recensione, salta fuori un video in cui gli stessi Low - su "commissione" di A.V. Club, occhio anche al resto dell'operazione Undercover - rifanno addirittura Africa dei Toto. Merdaccia intoccabile, infatti pare che a tutti scappi pesantemente da ridere, ma anche un ritornello con una spinta epico/melodica non da poco. La sentissimo oggi per la prima volta, magari senza badare troppo al testo, potrebbe essere un capolavoro.

28/11/11

7. PJ Harvey. Let England Shake. Island.



Lo dichiaro: il mio disco preferito di Polly Jean Harvey fino ad ora era Stories from the City, Stories from the Sea. Anzi, quando Rumore ha messo su la classifica dei cinquanta migliori album degli anni '00 ("E quando, nel 2008?" dirà chi nota come noialtri si pubblichi purtroppo la classifica dei migliori album dell'anno a inizio dicembre, chiudendola quindi a inizio novembre) e ha chiesto le nostre graduatorie per compilare quella totale, ebbi l'occasione di metterlo al quarto posto. Anche se a dire il vero il 2000 è in realtà l'ultimo anno degli anni '90. "Un concentrato di energia ed emozione," scrissi, "luminoso pur se di ambientazione notturna come la foto in copertina, che negli assalti blues come nei momenti più intimi (da brividi il duetto con Thom Yorke in This Mess We're In) lascia respirare melodie e sentimenti, invece di avvolgere tutto al proprio interno. 'Il pop secondo PJ Harvey', disse lei. Il tormento che cede di fronte alla bellezza di una donna innamorata." Bene il blues e le viscere, bene l'atmosfera tormentata dei titoli che la hanno resa celebre, ma quando tutto si accomoda senza snaturarsi in forme un po' più pop, meglio ancora.
In questo senso, Let England Shake ricorda quel suo predecessore e fa persino meglio, raggiungendo un equilibrio quasi perfetto fra orecchiabilità e gusto sperimentale, melodie che arrivano immediatamente a destinazione e libertà formale e stilistica, esempi splendenti di PJ a 24 carati (delle dodici canzoni, almeno la metà finisce dritta filata su un' ipotetica antologia: The Glorious Land, The Words That Maketh Murder, On Battleship Hill, In the Dark Places, Written on the Forehead e The Colour of the Earth) e piccoli particolari folli (la citazione di Summertime Blues di Eddie Cochran in The Words That Maketh Murder; il campione di trombetta da adunata militare inserito dentro The Glorious Land; tutto o quasi il classico roots reggae Blood & Fire di Niney The Observer in Written on the Forehead, letteralmente intrecciato in un abbraccio indissolubile con il brano stesso).
E i testi, poi, tasselli di un concept sulla guerra e sull'Inghilterra di ieri, l'altroieri e oggi; Gallipoli, Falklands e Afghanistan come tre facce della stessa medaglia.
Tutto con una leggerezza estrema, poggiata sui toni ariosi della voce e sulle corde dell'autoharp, strumento di partenza per buona parte delle composizioni. Con i ritrovati Mick Harvey e John Parish al suoi fianco, non a caso. E con dodici splendidi video di Seamus Murphy, uno per brano, ad accompagnare.

(Still) Buying Records / 58

17/11/11

8. Azari & III. Azari & III. Loose Lips.




Pari forse solo all'album dei connazionali Art Department in quanto ad attesa come grande uscita dance del 2011, l'album del quartetto canadese non tradisce le aspettative. Vero, i quattro singoli che li hanno proiettati lassù ci sono tutti, e con Manhooker (che in veste strumentale stava già in uno di essi) quasi metà disco è già sbrigata. Ma che singoli: la sensualità house dell'inno Reckless (With Your Love), soprattutto, ma anche le vibrazioni scure di Indigo, la leggerezza electro-soul di Into the Night, la Chicago bollente di Hungry for the Power. Il resto è comunque quasi tutto all'altezza, e prosegue nella definizione di un suono che unisce i puntini fra la New York gay di fine '70, la house acida e deep di metà '80 (appunto), l'electro-pop europeo e il presente. Fra l'ercoleggiare di Lost in Time e l'ipnotismo di Tunnel Vision, la botta cosmica di Infiniti e l'aria sci-fi di Manic, c'è l'imbarazzo della scelta.
(Rumore n. 236)

Vedi alla voce physique du rôle: prima ancora di ascoltare una singola nota, già sappiamo che questo quartetto di Toronto - si dice “Azari and third”, numero romano - ha vinto. Due produttori, Dinamo Azari e Alixander III. E due cantanti, Starving Yet Full e Fritz Helder, dive soul che portano il concetto di clubber gay afroamericano al livello superiore. La musica (il primo album omonimo è ancora fresco di stampa, ed è uno di quei due o tre titoli dance all'anno che dovete comprare anche se di solito ascoltate tutt'altro) conferma. Un suono che si inserisce in pieno nel ritorno alla disco e alla deep house più scarne e sensuali che sta caratterizzando l'annata, ambito dove i quattro occupano grossomodo il posto di anello mancante fra Hercules e Art Department. Calda grana analogica, omaggi a un passato glorioso e sguardo fisso sul presente, devozione alle fondamenta della house e insieme voglia di ridiscuterle: “La house è libertà di espressione. È aperta, è ghetto e classe, ottimo mix. Non ci dispiace quando ci dicono che facciamo grande musica house, ma vogliamo essere percepiti come qualcosa di più.” Anche grazie ai testi: “È importante provare a dire qualcosa, a mettere qualcosa di reale nelle liriche. Ricordo quando ero molto più giovane, e ascoltavo questa musica che parlava dell'essere giovane, gay e nero... il fatto che questa donna o quest'uomo mi stessero dicendo che ero la persona più fiera del pianeta era eccezionale. Grazie, nella vita di tutti i giorni nessuno me lo dice! Mi dicono che sono stupido, casomai, e di stare zitto. Per questo anche testi semplicistici come 'tira su le mani' o 'siete fantastici' in realtà dicono tanto a così tanta gente. Abbiamo bisogno di sentircelo dire, triste ma vero.”
(Rumore n. 237)

16/11/11

9. LUCAS SANTTANA. Sem Nostalgia. Mais Um Discos.



Sempre più sommersi di musica, capita di perdersi cose di valore. Come questo cantante e chitarrista di Bahia, che scopriamo essere giunto con Sem Nostalgia al quarto album, uscito lo scorso anno e pubblicato oggi in Europa dalla londinese Mais Um Discos (marchio che sceglie "artisti brasiliani che fondono stili, ignorano i generi e irritano i puristi"). Confessiamo l'ignoranza, godendoci la bellissima sorpresa. Un Tom Zé del ventunesimo secolo, che nel titolo dichiara massima lontananza dalle tradizioni, ma che invece le reinventa in modo fresco e avventuroso, dissonante e accattivante insieme. Con solo voce, chitarre e suoni d'ambiente rimodellati per via elettronica, alternando portoghese e inglese, toccando cantautorato folk anglosassone e dub, esperimenti strumentali avant e pop futurista. Dodici brani, di cui tre scritti con Arto Lindsay, uno più bello e imprevedibile dell'altro.
(Rumore n. 238)

15/11/11

Ma che Fredo fa


(foto di Andrea Pomini)

Fredo Viola, avete presente?
Probabilmente no, e lasciatemi dire che il fatto è uno dei più grandi misteri della musica pop di questo nuovo millennio. Oppure, una spiegazione perfetta del potere sempre maggiore che - anche in tempi di recessione, dismissioni, acquisizioni - hanno uffici marketing e uffici stampa nella direzione dei media e nella formazione del gusto.
Lo ho già detto in passato e lo ripeto: in termini puramente oggettivi, per bravura e originalità, e per capacità di coinvolgere chi ascolta (e guarda!), è impossibile che Fredo Viola non sia una stella di prima grandezza del panorama internazionale. Uno invitato dappertutto, uno che fa l'ospite nei dischi di Björk e nei concerti di David Byrne, uno al quale i settimanali dei quotidiani dedicano dalle due alle quattro pagine.

Quando in televisione ho visto questa, ho pensato che forse era la volta buona, finalmente.


E invece no, a quanto pare.
In ogni caso, The Turn è il suo primo e unico album.
A mio parere, è uno dei migliori album del millennio sino a qui.
Cercatelo, e cercate anche su YouTube o Vimeo i suoi "cluster video".

La bella notizia è che Fredo è tornato, con due canzoni nuove nuove pubblicate su Bandcamp.
Eccole qua, senza ulteriori commenti.





PS - Questo è quello che scrissi nel 2009 per il catalogo del festival di cortometraggi Corto In Bra, quando Fredo fu protagonista di una memorabile esibizione dal vivo, e trovò anche il tempo di girare, montare e proiettare in due giorni una versione speciale della sua The Sad Song. Il giorno dopo la gente lo fermava per strada, commossa.



FREDO VIOLA, L’ALIENO DI FAMIGLIA
Statunitense di origine italiana, soprano professionista da adolescente e quindi regista laureatosi alla prestigiosa Tisch School dell’Università di New York, Fredo Viola è senza dubbio l’ospite più insolito di questa edizione del festival. Quello più di confine rispetto ai parametri cinematografici riconosciuti. Ma sono confini e parametri labili, messi in discussione ogni giorno dalla creatività umana, ridefiniti costantemente dalle conquiste tecniche e dalle forme del loro utilizzo. Fredo Viola riassume in sé questa confusione, e le possibilità che ne conseguono.
La sua espressione è un insieme difficilmente scindibile di musica, arti visive, cinema e performance. Una sintesi trovata confrontandosi con necessità e limiti, come spesso succede per le idee migliori. Dopo aver lavorato come montatore e designer di animazione Fredo decide di dedicarsi soprattutto alla musica, e da solo realizza canzoni fatte soprattutto di numerose parti vocali sovrapposte. “Man mano che le composizioni diventavano più complesse, ho cominciato a applicarvi alcune mie idee filmiche. Mentre pensavo a come strutturare i pezzi più intricati, visualizzavo la loro struttura come un viaggio cinematografico, o un sogno”. Come proporle dal vivo? Via video, creando un ensemble di tanti Fredo Viola sincronizzati, ripresi in parti diverse della stessa stanza e montati ognuno nel suo pezzo di schermo, ognuno impegnato a cantare la sua parte. Semplice, in fondo, ma ci aveva pensato qualcuno prima? “È il tipo più puro possibile di performance dal vivo, perché anche se non si sta realmente assistendo è senza correzioni, non adulterata. Ed è il massimo che possa fare senza far cantare una famiglia di miei cloni.”
Ma i diversi piani espressivi sono intrecciati a valle, oltre che a monte. Deliziosi acquerelli fra pop e folk, inni religiosi e canzone d’avanguardia, le sue melodie diventano addirittura straordinarie se viste. E vederle diventa il modo privilegiato di fruirne (non a caso, il suo album d’esordio The Turn esce con dvd allegato). A loro volta, i suoi cortometraggi sono molto di più che semplici videoclip delle canzoni. Come la sua musica, uniscono magia antica e soluzioni moderne, tensione romantica e pace, quotidiano e spirituale, con tecnica e gusto superiori. Parlando anche di cinema, tra le righe. Dichiarando la finzione in modo esplicito, come detto, o con piccoli dettagli - un microfono che entra in campo e viene spostato, la chiamata del ciak non tagliata - senza che ciò influisca sulla naturalezza del tutto, anzi esaltandola. E allora cinema può anche essere un video fatto di frammenti da 15 secondi catturati con una piccola macchina fotografica digitale, che su YouTube raccoglie ben 175.000 click in un singolo giorno. Cinema possono essere video realizzati in casa o per la strada, con mezzi semplici e idee chiare, e accessibili al di fuori dei canali tradizionali.
Per questo – ed è prerogativa dei Grandi – Fredo Viola è insieme un alieno piombato in mezzo a noi da chissà dove, e uno di famiglia che conosciamo da sempre. Per questo Fredo Viola ha senso, eccome, nel programma di un festival di cinema vivo e curioso come Corto in Bra.

14/11/11

10. SMART COPS. Per proteggere e servire. Sorry State/La Tempesta.



Gioca a tuttocampo, La Tempesta, e mette il suo marchio anche sul segreto meglio custodito del punk italiano contemporaneo. Un'accolita di ceffi già noti alle questure (With Love, La Piovra, Ban This e Hell, Yes! Records sono alcune delle attività passate o parallele dei quattro) che si fanno chiamare Sbirri Intelligenti, si presentano sul palco in divisa nera - basco, chiodo, pantaloni aderenti con striscia rossa e t-shirt con S e C giganti - e scrivono canzoni tutte a tema come Il cattivo tenente (“La morte non è un limite/Le droghe non sono ostacoli/La merda non la cancellerai mai/Non la cancellerai mai”), La legge del più debole, La soffiata, Meglio insabbiare e Facile bersaglio. La musica? Una miscela incandescente di punk newyorkese (Dead Boys) e californiano (Crime, va da sé, ma anche Weirdos e cose Dangerhouse) misto garage-beat italiano del più selvaggio. Un concept devastante, nei presupposti e nello svolgimento. In meno di venticinque minuti è tutto finito, ma lascia il segno. Come una perquisa ben fatta.
(Rumore n. 229)

Un modo solo per tradurre “smart” non c'è. Il dizionario dice “intelligenti”, “brillanti”, “svegli” e pure “eleganti”. Fate la media, aggiungete “sbirri” davanti e avrete, oltre ad anni di barzellette sui carabinieri riassunte con mirabile sintesi, gli Smart Cops. Quattro gaglioffi con radici nella scena punk italiana dell'ultimo quindicennio (With Love, Ohuzaru, La Piovra, Ban This!, Klasse Kriminale), passati per la classica trafila dei 7” in vinile e dei tour autogestiti in giro per il mondo, prima di debuttare su album con Per proteggere e servire. Niente di così nuovo, non fosse che in ballo c'è un pacchetto completo, una mission che moltiplica il loro suono grezzo e sparato - punk classico da CBGB's tipo Ramones o Dead Boys, roba californiana coeva tipo Crime o Weirdos, la violenza del beat anni '60 più marginale - fino a renderlo il terremoto che è.
Immagine coordinata, la chiamano. Le parole per cominciare, in italiano e in tema: titoli come Il cattivo tenente, La soffiata, Meglio insabbiare, Facile bersaglio, La legge del più debole, Quel dubbioso manganello rosa, Tra le reclute un pessimo soggetto; testi che parlano di infiltrati, auto blu, retate, “muscoli, ferro e minchia”. E le divise: nere dal basco alle scarpe, passando per chiodo, maglietta con logo rosso e braghe aderenti con banda verticale rossa; fra Pantere Nere e banda di motociclisti gay, fra (International) Noise Conspiracy e Mario Placanica. Look che risalta particolarmente, se sei a Gerusalemme e ti fai fotografare davanti a una caserma della polizia israeliana, con la faccia da duro e un bel fez in testa... “Avevamo un concerto a pochi passi da lì. È stato divertente vedere lo sgomento dei poliziotti veri chiusi dentro, di fronte a quattro ragazzi che li scimmiottavano con la loro divisa posticcia”.
Vecchi nemici, nuove tattiche. “Per un gruppo punk la rabbia nei confronti delle forze dell'ordine è sempre stata la base. Band straniere come Black Flag e Doom o italiane come Wretched e Raw Power, ad esempio. A noi piace approfondire l'argomento pensando al poliziotto come a un essere umano, pieno di incertezze e debolezze - l'essere sovrappeso, lo scoprirsi omosessuale, il non riuscire a risolvere i casi - che l'uniforme non accetta nè concepisce. Una doppia sconfitta, lavorativa e morale. Il ritratto di uno sbirro doppiamente martoriato, goffo e dubbioso, spunto per un'autoanalisi che tutti dovrebbero fare, a prescindere dalla divisa che indossano e dal ruolo che ricoprono”.
Reato preferito? “Abuso di potere, per non parlare di resistenza a pubblico ufficiale. Gli Smart Cops predicano bene, ma non razzolano altrettanto. La tendenza è quella di seguire un nostro codice personale, che cozza con quello dettato dalla legge: un po' come nel film Il cattivo tenente”. Senza redenzione, naturalmente.
(Rolling Stone n. 89)

13/11/11

I dischi del 2011

Da domattina la classifica del 2011.
Per ora, la migliore etichetta dell'anno: Planet Mu, per distacco.

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