27/06/02

54. Isaac Hayes “Truck Turner” 1974. (cd nuovo, Stax, € 11.42).
Quando si parla del Mosè Nero, molti conoscono la colonna sonora di “Shaft”, molti meno quella di “Truck Turner”, altro doppio album di tre anni successivo e relativo a un film di cui Hayes è anche protagonista. Strano, perché il solo attacco del tema principale basterebbe a farne una pietra miliare: puro funk del ghetto a base di wah-wah chirurgico, ritmo frenetico, fiati e archi a mille, vocione maschile e controcanto corale femminile. I settantuno minuti abbondanti del disco, quasi interamente strumentali, passano in scioltezza regalando momenti di pura estasi blaxploitation: il trittico “Blue’s Crib”/“Driving In The Sun”/”Breaktrough”, i nove minuti di una “Pursuit Of The Pimpmobile” eloquente già nel titolo, “Hospital Shootout”, “A House Full Of Girls” cantata come lui sa. Assortiscono il tutto brani più d’atmosfera e i consueti lenti strappamutande, e voi già sapete che Ike è autorità in materia. La foto del retrocopertina originale, con lui in piedi torso nudo e fondina, il pappa morto a terra e i grattacieli sullo sfondo parla più di cento weblogs, quindi basta così. Comunque, vale “Shaft”.

25/06/02

53. Herbie Hancock “Fat Albert Rotunda” 1969. (cd nuovo, Warner, €11.42).
Il groove di “Wiggle Waggle” basterebbe da solo, ed è anche per questo che siamo qui. Proprio la sua presenza in apertura di uno dei vari “Pulp Fusion” (se ne parla nell’archivio di maggio qui a lato) ci ha mosso alla ricerca di questo album, che nel negozio stava al primo piano, quello del jazz, ma ci sarebbe da eccepire. Vero, Hancock deve gran parte della sua fama al jazz, ma “Fat Albert Rotunda” suona decisamente più funk. Non stiamo parlando di sporco rare groove, certo, bensì di superbo jazz-funk strumentale di stampo cinematico (ed in effetti il lavoro è ispirato ad una serie televisiva con Bill Cosby), in equilibrio imperfetto tra slow jazzati (pochi) e groove assassini (tanti). Gli arrangiamenti sono ricchissimi, la band gira a mille, i tasti del titolare spadroneggiano. Edizione Warner Bros. Masters economica, oltretutto.

22/06/02

52. Le Consuetudini “Veicoli Al Passo” 2002. (cd nuovo, Map, € 10.00).
Sarò schematico, ok? Otto musicisti torinesi, ora sciolti ma in procinto (pare) di ricominciare non si sa con quale nome.
Le note positive: SabinoDeiBellicosi suona il pianoforte, le tastiere e fa i cori qua e là, innanzitutto. Una musica italiana d’autore raffinata, con Conte, Capossela e Loschi Dezi come riferimenti più evidenti, e gli Avion Travel dietro l’angolo laggù in fondo (per fortuna?). Un gusto non comune negli arrangiamenti, al servizio di doti tecniche notevoli.
Le note negative: il cantato. Non me ne voglia l’interessato, ma il tono solenne e maledetto in-realtà-vorrei-fare-l’attore-di-teatro, a casa mia, è reato grave. Se poi il poveretto si ritrova pure una erre moscia di proporzioni storiche, ed insiste compiaciuto su parole piene di erre, beh, un po’ se la cerca pure. Peccato, perché i testi, a parte qualche caduta di tono e qualche flash sopra le righe (“Bradipi/Siamo bradipi in cerca d’assenzio”…), sono carini e ben assortiti con la musica.
Vista la scarsa reperibilità, un contatto.

21/06/02

50. Bruce Springsteen “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” 1973. (cd CBS, usato, € 2.50).
C’è un qualcosa di struggente, nel Boss dei primi tempi. Bollino rosso della banalità acceso, perdonate chi scrive, ma la tristezza ed il romanticismo della costa del New Jersey, i mille personaggi chiamati per soprannome, la vita dura ma spensierata e comunque possibile, non ancora resa amara e poi tragica dal passare degli anni, fino alla rappresentazione in bianco e nero del fallimento che è “Nebraska”, tragico e meraviglioso.
Ho sempre però snobbato, in un certo senso, questo secondo album del Boss. Arrivato a lui nel 1984 per via di famose canzoni, faticavo a godermi i brani lunghi e ricchi di sfumature di “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”, intrisi di black music stradaiola che solo più tardi avrei cominciato a capire meglio. Qualcosa mi sfuggiva, rendendolo il disco di Springsteen che meno avrei ascoltato da allora ad oggi. E sbagliavo, perché di un gran disco si tratta, a cominciare dalla copertina. Ma non mi dilungo oltre, perché ogni disco di Springsteen dal primo a “Born In The U.S.A.” è a modo suo indispensabile. Con “Darkness On The Edge Of Town” e, appunto, “Nebraska” un po’ più indispensabili degli altri.

51. VV.AA. “I’m A Good Woman – Funk Classics From Sassy Soul Sisters” 2002. (cd Harmless, nuovo, € 16.00).
La serie, dal sottotitolo dovreste esserci arrivati, è di quelle cruciali. Partita in quarta con il primo volume, ha messo la quinta con il secondo (mostruoso!) e giunge adesso al terzo. Che se non raggiunge l’inarrivabile predecessore offre comunque quello che promette, eccome!
L’inizio, Jeannie Dee e Gladys Knight & The Pips, è ruvido come pochi. Poi vengono Barbara Acklin, soul singer in una rara e sensuale escursione funk, una Chaka Khan di fine decennio non ancora completamente disco (ma già membro delle Black Panthers!), una Betty Davis sempre sfrontata come poche, Anna King a rispondere a James Brown con la sua “Mama’s Got A Bag Of Her Own”. E poi Margie Alexander, Pointer Sisters, Marie “Queenie” Lyons, Denise Keeble, Gloria Edwards e Patrice Rushen.
Da brividi la versione live di “Respect” a cura di Marva Whitney, che parte piuttosto fedele a quella di mamma Aretha per trasformarsi in un delirio di assoli (dietro c’è la band di James Brown, amici) ed invocazioni. Ma una spanna su tutte, ancora una volta, sta Mary Jane Hooper: la sua “I’m In A Lovin’ Groove” è pura dinamite funk dall’inconfondibile tocco New Orleans.

13/06/02

49. Gene Krupa and Buddy Rich at JATP “The Drum Battle” 1952. (cd Verve, usato, € 8.00).
Vacilla la mia fama di tuttologo di fronte a poche cose, e il jazz è una di queste. Posso parlarvi con la bava alla bocca delle copertine dei dischi, ma per quanto riguarda la musica brancolo nel buio. Ricordo di avere ascoltato una cassetta di Gene Krupa anni fa in autoradio, e di avere apprezzato la frenesia del suo drumming. Buddy Rich, poi, è uno dei batteristi jazz più celebrati, più ancora di Krupa.
Eppure, questo live a New York si rivela un mezzo pacco. Non tanto per il contenuto in sé, che non è nenahce male, quanto per la scarsa risposta alle aspettative. Tanto per cominciare, i due si sfidano in un pezzo solo, appunto “The Drum Battle”. Tre minuti e mezzo di sole batterie che si fronteggiano e rincorrono, forse più esaltanti pòer i presenti nel 1952 che per noi ora. Il resto è ad opera del solo Gene Krupa Trio, coadiuvato da Ella Fitzgerald nella conclusiva “Perdido”. Che dire? Anche in questi brani il drumming di Krupa sembra non risaltare a sufficienza, e manca quell’adrenalina che così frammentariamente ricordavo. Forse era solo materiale di un altro periodo, o forse sono io che negli anni ho ritoccato il ricordo a mio piacimento.

08/06/02

48. Karate “Cancel/Sing” 2002. (mcd Southern, nuovo, € 6.10).
Molto si è detto del nuovo corso dei Karate. Come se, tra l’altro, di nuovo corso e non di evoluzione costante si trattasse. Oggetto del discutere e vera linea di confine tra fans e detrattori, gli assoli di Geoff slowhand Farina. Certo le lunghe jam dei tre possono annoiare, e fin qui vi seguo, ma se si riduce il tutto ai minimi termini del “una volta erano meglio, adesso sembrano Pino Daniele”, beh, si pecca di superficialità. Non si vede, per esempio, la musica attuale della band come figlia di un flusso, di un’evoluzione naturale e spontanea. Forse che siamo troppo abituati a stili pianificati a tavolino e a gruppi che decidono di essere in un certo modo? Una superficialità spesso e volentieri accompagnata dal vezzo molto hipster di non seguire più un gruppo oltre il secondo album e passare oltre. Si salvano giusto i Fugazi, ma non ne sarei nemmeno troppo sicuro.
La voce e i testi di Farina, l’entusiasmo e l’aver creato un suono unico ed immediatamente riconoscibile rendono i Karate uno dei gruppi cardine degli anni ’90, e garantiscono credito illimitato almeno per un altro decennio. Ma non ce n’è bisogno. Questo nuovo ep li vede sfogarsi in due lunghissimi brani: “Cancel”, poco più di undici minuti, potrebbe essere un brano di “Unsolved” ulteriormente dilatato, basato su un classico andamento Goddard/McCarthy e integrato da una coda strumentale in crescendo e quindi in dissolvendo. “Sing”, poco meno di quindici minuti, pare invece più sperimentale e meno legata alla forma-canzone, ma riserva più di una sorpresa, ed ha una progressione di accordi perfetta.
Sembrerà impossibile, ma i due pezzi non annoiano per nulla, e anzi rispetto ai rari momenti in cui l’ultimo album sembrava tirare un po’ troppo la corda si fanno ascoltare con persino più facilità. Grandi.

07/06/02

47. VV.AA. “Tighten Up – Trojan Reggae Classics 1968-1974” 2002. (dcd Trojan, nuovo, € 22.65).
Caviamoci subito il dente: la Trojan è senza dubbio una delle etichette storiche per il reggae, ed in particolare per la sua diffusione in Inghilterra e nel vecchio continente. Il materiale a sua disposizione è di primissima scelta, ma la gestione che di tale materiale è stata fatta in sede di ristampa mi lascia perplesso, per usare un eufemismo. I tanto celebrati box tematici, per esempio. L’apparenza esaustiva e definitiva dei box si scontra con tracklist purtroppo limitate al solo catalogo dell’etichetta. E fin qui si può anche chiudere un occhio, ma quando apri un “Trojan Roots Box Set”, ad esempio, e lo trovi semivuoto, con tre cd in custodia di cartoncino e poche note assolutamente insufficienti che appena sfiorano l’argomento trattato dal cofanetto… beh… la delusione è grossa. Non tanto per un discorso economico (i box non sono carissimi, e la musica è eccellente), quanto per un discorso di opportunità sprecate: quale migliore occasione di un cofanetto di un’etichetta storica del genere per radunare foto d’epoca, note biografiche e un paio di esperti a contestualizzare il tutto? Sarò ripetitivo, ma dopo aver visto una qualunque uscita Blood And Fire o Pressure Sounds gli standard si alzano, e si diventa esigenti.
La recente acquisizione da parte della Sanctuary ha dato nuova vita al celebre marchio, anche sotto questo punto di vista. Le ultime uscite sembrano infatti assai più curate dal punto di vista grafico e contenutistico, e questo doppio cd non fa eccezione. Ma se la confezione risulta deliziosa, altrettanto non si può dire delle note. Timbra il cartellino nella sua prefazione il cineasta punk Don Letts, delude fino a diventare irritante Dave Hendley nelle note vere e proprie.
“Tighten Up” è il titolo di una serie di compilation uscite tra il 1968 ed il 1974 con cui la Trojan raccoglieva periodicamente i suoi singoli più famosi per il mercato britannico. Questo doppio mette insieme il meglio di quelle raccolte, dunque il meglio del meglio e giù di lì, dunque Storia Del Reggae distillata in 52 canzoni, e il signor Hendley che fa? Per quasi tre quarti del suo discorso ci racconta della nascita del movimento skinhead e la sua fame di musica jamaicana, ci fa rivivere la gioventù sua e dei suoi amici di Charlton ai tempi del primissimo reggae post-rocksteady, ci magnifica con dovizia di particolari il primo ed il secondo volume di “Tighten Up”. Tutto molto interessante e sentito. Quando però arriva il 1970 ed esce il terzo volume l’epoca dello skinhead reggae sta già volgendo al termine, i ritmi rallentano e fa capolino qualche accenno politico/rasta, gli skinheads originali stanno diventando casuals, suedeheads, smoothies o hooligans e gli amici di Charlton si fanno crescere i capelli. E che fa il buon Dave? Semplicemente liquida in poche righe i volumi dal 3 all’8 della serie!!! Incredibile!!! Saranno forse stati meno influenti per la sua storia personale, ma sono inclusi nella raccolta o no? È pagato o no per scrivere le note della raccolta? Pazzesco.
Per quanto riguarda la musica, in ogni caso, assolutamente nessuna lamentela: qui c’è l’enciclopedia del reggae ai suoi albori. Da Derrick Morgan agli Uniques, dai Pioneers agli Upsetters, dai Maytals a sua maestà Ken Boothe, da Niney a Delroy Wilson, dagli Ethiopians a Clancy Eccles, dai Wailers era Lee Perry a U Roy, da Bob Andy ad I Roy, dagli Heptones al monumentale Johnny Clarke di “None Shall Escape The Judgement”. Se solo il secondo cd non saltasse su “Emergency Call” di Judy Mowatt…

05/06/02

46. VV.AA. “The Rustler Presents: Because You’re Funky” 2002. (cd nuovo, Lo, € 20.10).
Ricordate la raccolta “Super Funk” di cui ho parlato qualche tempo fa? Bene. Qui, almeno per quanto riguarda la (inesistente) notorietà dei nomi coinvolti, siamo in territori limitrofi. Ventiquattro brani tratti da 45 giri che definire rari è un eufemismo. Chi ha mai sentito nominare Les Cooper And His Soul Rockers o The Black On White Affair alzi la mano. Laddove la grandiosa “Super Funk” presentava però soul-funk abbastanza canonico fedele ai vari stili dell’epoca, questa raccolta stupisce invece per l’originalità e la varietà del materiale, oltre che per la carica animalesca di saxofonisti indemoniati e batteristi anfetaminici. Indisponibili dati certi, l’ordine dei pezzi pare cronologico: si comincia in fumosi club sleazy a cavallo tra i ’50 e i ’60, con surf, lounge e certo garage/errrebì dietro l’angolo, e si finisce nei ghetti dei ’70, che a questo punto dovreste già conoscere almeno un po’. Ogni pezzo è una chicca, ogni pezzo ha in sé un qualcosa di irresistibile, un passaggio, una rullata, un assolo. Cristo, ci avessero lasciato in eredità anche soltanto “Fi-Yi Dance” (come altamente probabile) e il suo andamento ammiccante su base di chitarra acustica, non meriterebbero forse i Soulful Two di essere quantomento sentiti nominare dai più? Davvero, siamo in presenza di genio allo stato puro.
Seconda piazza per un’inezia a Curly Davis & The Uniques: la loro “Black Cobra Part One” è impiantata su di un un riff chitarristico memorabile, ha un break illuminante e non sfigurerebbe giusto un po’ imborghesita su un qualunque “Mo’ Plen”.
E il crossover Booker T/Steppenwolf in commovente finto live di Danny Freeman And The Soul Superiors allora? E il proto-dub da spogliarello di Jerry And The Medicine Men? E il groove assassino di “Funkity” dei Four Of Clubs? E il finale di disco sempre più spaziale/pischedelico con Seven From Eleven, Creations Unlimited e Burning Star?
Lo so che lo dico quasi sempre, ma stavolta credetemi, ne vale la pena. Se controllate, è forse il disco che ho pagato di più fino ad ora, e non rimpiango nemmeno un centesimo. Piacerà a chi ama il funk, ma anche e forse soprattutto a garage-rockers di varia natura, complice il ricorso in molti brani alle classiche dodici battute, e a loungers in cerca di suggestioni cinematiche.

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