24/07/02

62. Low “Secret Name” 1999. (cd usato, Tugboat, € 10.00).
Scoperti tardivamente dal sottoscritto grazie a “Things We Lost In The Fire” (vedi archivio aprile qui a fianco), i Low mi stupiscono con un altro album incantevole, se possibile ancora più bello del suddetto. Lui comincia e tu dici “Però, gran canzone”. Poi arriva quella dopo e dici “Eh, ma questa è ancora più bella”, e avanti così.
Insomma, le prime cinque tracce una in fila all’altra sono uno spettacolo bello e buono. “Don’t Understand”, che arriva dopo, ha un incedere freddo che un poco spezza la magia fin lì creata, ma anche lei ha un lampo di calore nel finale. E poi si ricomincia con l’ipotetico lato b: è musica che potremmo definire immobile, intima, rassicurante, familiare. Una batteria, un basso, una chitarra, una voce maschile, una femminile. Avevo ascoltato “Secret Name” una volta di sfuggita, il giorno dell’acquisto, prima di riporlo nella dannata scatola dei cd ancora da sentire per bene e raccontare qui sopra (si parla, ahimè, di un paio di mesi di ritardo… ma ne vedrete delle belle…). Oggi l’ho rimesso su e non posso dire di essermi ricordato i pezzi, ma un cambio qui e una parola là mi sono proprio sembrati familiari. Nell’altra recensione avevo usato termini di paragone, stavolta no. Ci basti sapere che è un (gran) disco dei Low.

23/07/02

Biglietto da dieci euro.
Davanti: “FORZA ITALIA / W I PADRONI / COMUNISTI IPOCRITI E FALSI”.
Dietro: “MAROCCHINI MERDE”. E più in basso, con un'altra scrittura: “questi soldi sono di EMINEM”.
Che faccio, lo conservo?

61. David Axelrod “David Axelrod” 2001. (cd nuovo, Mo’Wax, € 10.33).
Ci sono dischi, e sono la maggior parte, ai quali cambieresti quella cosa o quell’altra, anche piccola, anche insignificante. Ce ne sono altri ai quali non cambieresti niente di niente, e “David Axelrod” è uno di questi.
Non necessariamente la suddivisione coincide con quella tra i dischi che non ti piacciono, o ti piacciono con riserva, e quelli che invece adori. È proprio un’altra cosa. Posso adorare un disco e nello stesso tempo pensare che sarebbe venuto meglio cambiando quella determinata cosa, così come il fatto che non cambierei niente non rende automaticamente il disco uno dei miei preferiti.
Questo per dire che “David Axelrod”, pur bellissimo, non diventerà forse uno dei miei dischi preferiti in assoluto, ma è praticamente Perfetto.
Nasce nel 1933 a South Central Los Angeles. È autore, arrangiatore, produttore e musicista pressochè autodidatta, e collabora proficuamente con nomi del calibro di Lou Rawls, Cannonball Adderley ed Electric Prunes. Eclettico, vero? Eclettico, sì, perché David Axelrod è un Compositore, equamente influenzato dal rock e dalla psichedelia come dai suoni black della sua città.
Questo disco omonimo, però, è affare vecchio. Il suo manager trova un acetato vecchio di 30 anni e più, James Lavelle lo ascolta e ne rimane comprensibilmente folgorato, e incalzato da DJ Shadow (fan accanito del Nostro) battezza il grande ritorno con il marchio Mo’Wax. Le ritmiche originali restano, sollevate nude e crude da quello stesso acetato, gli archi e i fiati vengono aggiunti, e due brani vengono realizzati nuovi di zecca. Sono gli unici cantati, l’iniziale “The Little Children” e la finale “Loved Boy”. La prima ha un andamento etereo di archi e contrabbasso, un coro lirico e il rapping improvviso e slegato dal beat (per forza, non c’è!) di Ras Kass, ovvero South Central quaranta anni dopo. Detta così sa di vaccata, ascoltata è prodigiosa. La seconda è uno straziante tributo al figlio prematuramente scomparso, elevata dal vecchio allievo Lou Rawls a livelli da pelle d’oca.
Ma non sottovalutiamo i sette strumentali, la spina dorsale del disco. Semplicemente, è Musica della miglior specie. E non dimostra nessuno dei suoi 34 anni. Fonde il soul e la psichedelia in qualcosa che è anni luce oltre la somma delle sua parti. Crea suggestioni a ripetizione, forte di una creatività e di un gusto straripanti. Un momento siete al volante di una Ford pedinando un sospetto sull’Hollywood Boulevard, il momento dopo siete nella camera da letto della vostra casa di Santa Monica in piacevole compagnia.
Ha ben ragione allora DJ Shadow nelle note dello splendido booklet (e che dire della confezione allora?): questo signore è l’essenza di Los Angeles.

09/07/02

60. X “Beyond And Back. The X Anthology” 1997. (dcd usato, Elektra, € 14.00).
Un altro dei candidati a miglior disco punk di tutti i tempi, guarda il caso, è proprio “Los Angeles” degli X. Tutt’altra atmosfera e tutt’altro ambiente rispetto a Belfast, la California meridionale negli stessi anni. John Doe ed Exene Cervenka scorrazzano innamorati e ubriachi per Hollywood Boulevard, Billy Zoom si impomata il ciuffo e svela amori rock’n’roll, DJ Bonebrake fa la parte del bravo ragazzo taciturno. Produce Ray Manzarek, altro figlio illustre della Città Degli Angeli solo qualche anno prima seduto all’organo dietro a Jim Morrison. E la continuità in effetti può essere non solo nominale, ma in mezzo c’è il punk.
“Beyond And Back”, doppio cd in confezione assai curata, è un’antologia atipica. I pezzi che devono esserci ci sono tutti (certo che “Adult Books” poteva anche starci, però…), ma solo dodici su quarantacinque nella versione che conosciamo: gli altri sono live, mixaggi alternativi e demo, così come il buon numero di inediti presenti. Detta così suona come un mezzo pacco, lo so, ma non lasciamoci ingannare. Tutto scorre alla perfezione, l’opera del seminale quartetto ne esce sintillante come merita ed il disco si fa consigliare senza riserve, al nuovo adepto come al veterano che i dischi, giustamente, li ha tutti.
Memorabile anche il libretto, superbo graficamente ed originale nell’impostazione. alla voce narrante si aggiungono infatti testimonianze dirette di chi –musicista, attore, parente, amico, scenester- in quei giorni pericolosi e romantici c’era. Come spesso capita, Henry Rollins la dice meglio di tutti con il minor numero di parole: “One of the greatest sounds on earth is the sound of John and Exene singing together”.

08/07/02

59. Stiff Little Fingers “Inflammable Material” 1979. (cd nuovo, EMI, € 11.99).
Cosa volete che vi dica di “Inflammable Material”? Lo conosco praticamente a memoria, è uno dei pochi dischi che riescono a darmi i brividi mentre li ascolto ed è seriamente candidato ad essere il mio disco punk di tutti i tempi. Belfast nel 1978 non doveva essere un posticino tranquillo (non lo era neppure nel 1990 quando ci sono stato io, se è per questo, e non penso lo sia neppure oggi, ma allora forse erano altri tempi…), e gli Stiff Little Fingers possono aiutarvi nel mettere a fuoco la situazione. Il punk arriva nella provincia occupata del Regno, appropriandosi di stili altrove già quasi sorpassati, ma rovesciando sul tipico suono Pistols o primi Clash tonnellate di rabbia e malessere, innalzando la tensione a livelli altrove mai raggiunti. “Inflammable Material” è un disco che, letteralmente, BRUCIA. “Wasted Life”, “White Noise” ed “Alternative Ulster” sono le micce, il commovente bridge di quest’ultima ha in sé la fiamma di un album e di una generazione. Ogni disco arrabbiato, da allora, deve misurare radici ed espressione della propria rabbia con “Inflammable Material”. Difficile che ne esca vincitore.
PS – Al cospetto di tale rilevanza, davvero pessimo il lavoro di ristampa della EMI: nessun remastering, nessun testo (cristo, persino la ristampa in vinile di dodici anni fa è rimasterizzata e con i testi!), libretto sconclusionato nell’impostazione e povero nei contenuti (se penso a certe altre ristampe…), grafica non originale aggiunta vergognosa. A parziale risarcimento registriamo il prezzo ridotto, due bonus tracks (l’inedita “78 RPM” e “Suspect Device” nella versione del primo singolo) ed una lunga ed interessante intervista audio con Jake Burns.

06/07/02

58. James Brown “Hell” 1974. (cd nuovo, Polygram, € 9.99).
Nasce strano questo album di metà anni settanta del Godfather Of Soul: un doppio quasi concept sulle miserie della società, con sette brani che sono rifacimenti dal proprio repertorio e solo quattro brani con i suoi magici J.B.’s ad accompagnarlo. Eppure funziona, merda se funziona, e suona pure molto più compatto di quanto si potrebbe pensare.
L’inizio è infatti funk con il bollino oro, quattro bombe in rapida sequenza: “Coldblooded”, la title-track, “My Thang” e “Sayin’ And Doin’ It”. Piglia su e porta a casa. Ma quando parte la traccia numero 5, rifacimento in chiave salsa del superclassico “Please, Please, Please”, il pacchiano è dietro l’angolo. Tanto più se al numero 6 sta una “When The Saints Go Marching In” funkizzata come fosse creatura propria. Eppure, come già detto, superato lo shock iniziale si fanno ascoltare pure loro. Si va avanti, e c’è posto per altro funk stellare (“Stormy Monday”, “I Can’t Stand It 76”, “Don’t Tell A Lie About Me And I Won’t Tell The Truth About You”), lentazzi mozzafiato (“A Man Has To Go Back To The Crossroad Before He Finds Himself”) e soul di classe (“These Foolish Things Remind Me Of You”, “Lost Someone”). Fino al gran finale in pura maniera JB, con i quasi quattordici minuti di “Papa Don’t Take No Mess”.
Da leggenda la copertina, il retro (“He’s too strong, we can’t stop him” dice un mostro, “That’s because he’s the Godfather” risponde un altro) e l’interno, con il Nostro in completo scuro e baffi tra le parole al vetriolo della title-track (“In the streets it’s hell/In the ghetto it’s hell/In the White House it’s hell/It’s hell giving up the best years of your soul/It’s hell when you don’t have a job and you can’t eat” e avanti così).

03/07/02

57. VV.AA. “Soul Of The 20th Century” 2000. (dcd nuovo, Charly, € 11.33).
Due cd, centocinquantasei minuti complessivi di musica, un’etichetta di primordine, un booklet spettacolare di 52 pagine ed un prezzo da liquidazione. Che volete di più? Certo gli specialisti potrebbero trovarla ben poco interessante, ma qualche idea in materia di musica nera il neofita se la potrà fare, eccome. Tra nomi che definire noti è un eufemismo (Little Richard, che dopo i fasti rock’n’roll si reinventa caldo soul singer con la toccante “I Don’t Know What You’ve Got (But It’s Got Me)”, Ike & Tina Turner, James Brown, The Platters, Curtis Mayfield, The Temptations, Marvin Gaye, Bobby Womack & Patti Labelle, Sly & The Family Stone per esempio, apprezzabilmente non tutti presenti con il loro brano più famoso), campioni illustri (The Shirelles, Betty Everett, Gladys Knight & The Pips, Ben E. King, Solomon Burke, Funkadelic, Percy Sledge, Lee Dorsey, Aaron Neville, The Ohio Players, Maceo Parker, Gil Scott-Heron, Joe Tex) e personaggi minori di altrettanto spessore (Inez & Charlie Foxx, Jimmy Hughes, The Dells, Gene Chandler, Fontella Bass, Mel & Tim, Sir Joe Quaterman & Free Soul, Luther Ingram, Loleatta Holloway) ci si muove attraverso le epoche, dentro la storia di un suono meraviglioso e delle varie forme che ha assunto: girl-groups, soul, northern soul, ballads, rhythm’n’blues, funk, disco e chi più ne ha più ne metta.
La scelta è per forza di cose dolorosa e forse dettata anche da questioni di etichette (come non accorgersi della mancanza, cito solo i primi a venirmi in mente, di Aretha Franklin, Otis Redding, Sam Cooke, Wilson Pickett, Isaac Hayes? E Stevie Wonder, Etta James, O’Jays, Sam & Dave, Eddie Floyd, Bill Withers?), e chiunque potrebbe assemblare la sua scaletta ideale pescando da un serbatoio tanto vasto, ma per i motivi espressi più sopra, un neofita dovrebbe averla.

02/07/02

Da molto tempo non integro i discorsi sui dischi, vero cuore di questo weblog, con qualcosa di mio. Forse i troppi impegni, forse la poca voglia di raccontare, forse l’assuefazione ai comportamenti strambi dei clienti del negozio dove lavoro (i lettori di lunga data sanno a cosa mi riferisco, gli altri diano un’occhiata agli archivi), forse l’impossibilità di raccontare a parole momenti di delirante poesia umana.
Le recensioni, invece, vanno avanti più o meno lentamente. Ma siamo sempre indietro rispetto agli acquisti. Ah, come si stava bene a gennaio. Recenti superofferte major, raccolte punti terminate e fiere del disco a pochi metri da casa hanno ingrassato a dismisura la lista d’attesa, che si è vista a sua volta affiancare da non una ma due altre liste d’attesa. Ovvero due altri posti in cui, sotto falso nome, Soul Mate #65 scrive di musica.
In attesa di riuscire a modificare il template qui a fianco, ricapitoliamo come ogni tanto succede: ogni disco che compro finisce qua sopra, con un numero progressivo utile non so bene a cosa. Tra parentesi il formato, se nuovo o usato, l’etichetta e la spesa. Oppure:
“Musica è il mio Cibo per l’Anima. Semplice no?
Scrivo dal cuore della città, non ho cinque minuti liberi e spendo fortune in musica cercando il Sound Verite. Non mi piace quel genere piuttosto di quell’altro. Mi piace ciò che è Vero, e tutto ciò che ne consegue forse non è un caso.
Queste non sono recensioni. Siamo io e i miei dischi. Parlo dei dischi che mi compro, in ordine cronologico, numerati a crescere dall’inizio dell’anno. Voi fatene cosa volete. Se qualche titolo vi incuriosisse e ve lo andaste a cercare, ne sarei felice. Se mi faceste sapere cosa ne pensate, ne sarei altrettanto felice.
Quello che non si conosce è più bello di quello che si conosce.”
(questo non ci sta qui a fianco, ma il suo posto sarebbe lì).
Ah, sì. Un episodio posso raccontarvelo. Non di questo lavoro ma del precedente, quando stavo 8 e poi 4 ore al giorno davanti ad un computer senza sapere bene cosa fare. Il problema sorge quando neanche il capo e finanziatore del tuo posto di lavoro new economy sa molto bene cosa fare.
Lui (indicando il mio monitor): “Cercami un po’ in Internet questa cosa con Yahoo… ce l’hai Yahoo sul tuo computer vero?”

55. Red Monkey “Make The Moment” 1998. (lp nuovo, Troubleman/Slampt, € 6.90).
Percorrere la discografia di un gruppo a ritroso è sempre strano. Seguirne l’evoluzione (o l’involuzione) in ordine cronologico è un discorso, apprezzarne un disco ed andarsi a cercare quelli più vecchi è un altro. C’è il rischio dietro l’angolo.
Con “Make The Moment” è andata più o meno così, e ci sono voluti ripetuti ascolti per metabolizzarlo. Non che le prove più recenti siano facili ed immediate, ma il tempo ha sicuramente dato ai tre di Newcastle un bel po’ di rilassatezza e coscienza dei propri mezzi in più. Questo album d’esordio porta in sé l’essenza del suono e dei contenuti che hanno reso i Red Monkey un piccolissimo culto underground, ma suona grezzo e terribilmente primo disco se come chi scrive ci arrivate dall’ultimo, focalizzato e infallibile “Gunpowder, Treason And Plot” (vedi archivio di marzo).
Le chitarre comunque graffiano, i ritmi procedono nella migliore tradizione post-punk inglese (ma ancora semplici e punkeggianti se paragonati a ciò che verrà) e le parole colpiscono nel segno. Fin troppo facile dire che suona tutto più grezzo ed abbozzato, e la registrazione certo non aiuta, ma resta comunque un disco interessante di un ottimo gruppo. Per la cronaca, uno dei tre è Mr. Bean spiccicato.

56. Red Monkey “Difficult Is Easy” 1999. (lp nuovo, Troubleman/Slampt, € 6.90).
“Culturalmente, c’è la loro abilità nel fare funzionare testi interamente politici in maniera personale, intelligente e controllata; musicalmente, c’è il fatto che hanno tanta attrattiva melodica quanta aggressività ritmica post-punk”.
Non l’ho scritto io, ma sono d’accordo. Mi pare un ottimo modo di sintetizzare la questione Red Monkey. In questo secondo album poi le cose vanno decisamente meglio. Il suono esce più potente e compatto, i ritmi si fanno molto più irregolari, il gruppo comincia ad osare maggiormente. Rallentando e dilatando per esempio, come nelle ottime “My Bed And Ancestory” e “Kissing With Tongues”. Oppure enfatizzando la sua vena funk più tagliente.
Il tutto, come si diceva più in alto, con un sacco di cose interessanti da dire e un eccellente maniera per dirle. Capita sempre più di rado, pensateci. Essenziale, a questo proposito, la fanzine allegata, con testi tradotti in tre lingue e scritti dei tre membri del gruppo. La tentazione è di copiarli tutti, ma ne citerò una frase soltanto: “So one of the things that Red Monkey is for me is a celebration of DIY culture”. Mi associo senza riserva!

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