30/12/10

Archivio interviste 2010 / Larry Heard


Capita raramente che, parlando di generi e sottogeneri musicali, ci sia unanimità sul brano che li ha inaugurati. Per quanto riguarda però la deep house, su Can You Feel It di Larry Heard/Mr. Fingers, anno di grazia 1985, l'accordo è pressochè universale. Capita altrettanto raramente che persone tanto importanti per la storia della musica siano così disponibili e gentili, umili fino al rischio di scomparire nel mondo tutto apparenza del clubbing attuale. Di Heard, colosso della house di Chicago che – per come vanno le cose – non ci stupiremmo di vedere arrivare con due guardie del corpo e due stangone per lato, e un rider pieno di richieste assurde, colpisce la purezza. La sicurezza di sé che diventa concentrazione massima sulla propria arte, e minima sul contorno. “L'ultimo servizio fotografico me lo hanno fatto quattro o cinque anni fa”, ci dice. Pacato, minuto, per niente appariscente, sembra un turista qualunque con il berretto da baseball e lo zainetto in spalla. Più che sufficiente per cuffie e raccoglitore dei CD, comunque. L'opportunità di incontrarlo ci è data dal suo dj set al The Beach di Torino per Secret Mood, nuovo appuntamento che ha riportato sotto la Mole il gusto per la house classica, quella che rende chiaro il suo posto nel percorso evolutivo della musica afroamericana. Le domande che vengono in mente sono tante, si accavallano cronologicamente e si perdono nelle suggestioni fornite dalle risposte. Proviamo a mettere ordine. (DJ Mag, aprile 2010)
(continua)

Archivio interviste 2010 / Crystal Castles


C'è una cosa che più di tutte distingue chi ce l'ha fatta e chi non ce l'ha fatta, o ci sta ancora provando: il banchetto di magliette taroccate fuori dal concerto. Non si sa chi sia a decidere quali fare e quali no, se abbia gusti musicali interessanti, se legga Rumore, se qualcuno all'avvicinarsi di dicembre gli abbia mai chiesto la sua top 10. Non si sa se vengano consultate la classifica di iTunes o quella di Billboard, o i dati delle prevendite dei biglietti. Ma fossimo nell'artista taroccato non ci preoccuperemmo, anzi. Se c'è il banchetto, hai svoltato. Anche se le magliette sono brutte come quelle dei Crystal Castles, per le quali il grafico in incognito chino sul suo computer a Sesto San Giovanni o Torre del Greco non ha proprio dato il massimo. Contano i Magazzini Generali di Milano andati esauriti molto in fretta per l'unica data italiana del duo di Toronto. Conta la bolgia dalla quale siamo appena usciti. E conta un passo avanti netto come il secondo album di Ethan Kath e Alice Glass, pregevole matrimonio fra rumore elettronico e palpitazioni techno-pop che si intitola (o meglio, non si intitola) Crystal Castles come il primo. (Rumore, giugno 2010)
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29/12/10

Archivio interviste 2010 / Riva Starr


Non è facile trovare Stefano Miele, di questi tempi: I Was Drunk, tormentone house dal gusto balcanico con ospitata dei francesi Nôze, ha fatto il salto nel mercato pop, e anche qui da noi la si sente e la si balla un po' ovunque; il remix realizzato per Hey Hey di Dennis Ferrer è la prima scelta dei DJ di mezzo mondo, ed era “essential tune of the week” dal guru Pete Tong (BBC Radio) proprio nei giorni della Winter Music Conference di Miami; la Defected, una delle etichette dance più importanti al mondo, gli ha chiesto di mixare la sua compilation annuale dedicata proprio a quell'evento, crocevia del business mondiale per tutto quanto è clubbing. Sta diventando uno dei DJ più richiesti in circolazione, insomma, e anche la lista di chi vuole un remix si fa ogni giorno più lunga, Beth Ditto e Gossip compresi. Se aggiungiamo un album bello e vario come If Life Gives You Lemons, Make Lemonade, debutto della sua terza vita artistica (dopo un album come Madox, tre come Stefano Miele e svariati singoli e remix con entrambe le denominazioni) uscito per la Made To Play di Jesse Rose all'inizio dell'anno, siamo all'apice, per ora, di una carriera ormai decisamente lunga. Apice raggiunto però, come detto, lasciando l'Italia. (Rumore, maggio 2010)
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Archivio interviste 2010 / Caribou


LAST NIGHT A DJ SAVED MY LIFE

Raramente i musicisti sono così precisi, e così sinceri. Presentando Andorra, nel 2007, Dan Snaith fece nomi e cognomi: il suo obbiettivo era stato quello di ricreare l'atmosfera di This Will Be Our Year degli Zombies. Non il pop psichedelico inglese degli anni '60, non gli Zombies in generale e nemmeno il mitico Odessey and Oracle, che quella canzone conteneva. Proprio This Will Be Our Year, capace di farlo piangere a ogni ascolto. Quando risponde al telefono, la curiosità è troppo forte: anche Swim - terzo lavoro a nome Caribou del musicista canadese, dopo l'abbandono dello pseudonimo Manitoba - ha riferimenti così circoscritti? “No, non così tanto. Ma è abbastanza ovvio come stavolta abbia ascoltato molta più dance, gente come James Holden o Theo Parrish ad esempio. Non necessariamente le loro produzioni, anche solo i loro DJ set, o quelli di altri. Ho respirato l'aria dei club e della musica da club.” (Rumore, aprile 2010)
(continua)

28/12/10

Outtakes



AA.VV. Rockin' In The Jungle - 1950's American Jungle Songs (Viper)
AA.VV. Keb Darge And Little Edith's Legendary Rockin' R&B (BBE)

Regina delle compilation di rarità a tema, dopo dischi dedicati alla figura del diavolo, alla prigione, al cibo e al Tennessee nella canzone nordamericana tra gli anni '20 e '50 (ma ce ne sono anche sui gatti e sui cani nel rockabilly, e su un sacco di altre cose che non vi sveliamo), la britannica Viper punta verso la giungla. O meglio, verso l'immagine pittoresca che della giungla, dell'Africa e dei suoi abitanti avevano i musicisti statunitensi, noti come Bo Diddley, Jerry Lee Lewis, Bill Haley e Rufus Thomas, oscuri ma altrettanto essenziali come Cadets (Stranded in the Jungle), Hank Thompson (Rockin' in the Congo) e ovviamente Hank Mizell (Jungle Rock). Uno spettacolo, ma Keb Darge e Little Edith riescono a fare ancora meglio con i loro venti “Ultra Rare Black Rockers from the 50s and Early 60s”, perle afroamericane grezze di rock'n'roll, rhyhtm'n'blues e soul primordiale raccattate chissà dove. Firmate da Carneade veri - Marie Knight e un Johnny “Guitar” Watson giovinetto esclusi – e assolutamente travolgenti.

16/12/10

1. CARIBOU. Swim (City Slang).


Racconta Dan Snaith, titolare della ragione sociale Caribou, di aver realizzato Swim seguendo due diversi flussi creativi, distinti in origine e fusisi insieme strada facendo. Da un lato, il flusso legato alla sua carriera di autore pop dal gusto retro-moderno, fra i Beach Boys, gli Zombies, il kraut rock e il taglia-e-cuci digitale più casalingo (vedasi il pregevole Andorra, uscito nel 2007). Dall'altro, il flusso originato dalla sua più recente attività di DJ, e dalla necessità di produrre autonomamente tracce da suonare nei club. Materiale autografo pensato quindi per le piste da ballo più che per una pubblicazione tradizionale, da testare sul campo sera dopo sera e da aggiustare di conseguenza in un continuo lavoro “in progress”. Al termine di questo percorso, con l'album finalmente a disposizione, c'è poco da aggiungere: la fusione è riuscita perfettamente, e impone in via definitiva Snaith come uno dei musicisti più interessanti ed emozionanti in circolazione. Strumenti ecustici ed elettronici interagiscono in maniera organica, come fossero una cosa sola, e vanno a creare un suono che sa di passato e di futuro insieme, tanto curato quanto fragile e spontaneo. Le nove tracce dell'album hanno sia i ritmi in 4/4, le strutture e il dettaglio sonoro tipici della dance, sia le melodie in bilico fra estasi e malinconia per le quali il canadese con residenza a Londra è noto. La bilancia pende ora più da una parte (l'ipnotica Bowls, con campane tibetane e accordi house, è davvero qualcosa di straordinario) ora più dall'altra (come in Kaili, senza batterie, spinta da strati di sintetizzatori e voci in falsetto), ma sta soprattutto ben salda nel mezzo: le pulsazioni disco-funk sincopate di Odessa - che non sfigurerebbe affatto nel repertorio dei colleghi Hot Chip - e il calore analogico della sognante Sun, splendida accoppiata scelta per aprire il disco, sono una dichiarazione esplicita in tal senso. Così come la conclusiva Jamelia, cantata da Luke LaLonde degli indie-rocker Born Ruffians, riassume al meglio quanto detto con una delicatezza rara, facendo contemporaneamente intuire possibili sviluppi futuri. Ma lungo tutti i 43 minuti di Swim è come se, arrivando da percorsi quasi opposti, Caribou e l'amico Kieran Hebden/Four Tet dell'ultimo There Is Love in You finisssero per ritrovarsi fianco a fianco, convergendo su una dance dal volto umano e dall'umore positivo. Uno dei suoni del momento, senza dubbio.
(Il Giornale Della Musica n. 270)

(bonus 1)
A chiusura di un fantastico 2010, anno durante il quale il mondo si è finalmente accorto della sua grandezza e lui ha fatto di tutto perchè ciò accadesse, Dan Snaith festeggia con un doppio vinile registrato dal vivo a New York, in occasione del festival All Tomorrow's Parties del settembre 2009. Prima di Swim, dunque, con il repertorio dei tre album precedenti equamente rappresentato. Noi festeggiamo con lui, anzi con loro: sul palco erano più o meno in quindici, un'orchestra comprendente Four Tet, Koushik, Luke Lalonde (Born Ruffians), un quintetto di fiati, quattro batteristi e – come giustamente sottolineato fin dalla ragione sociale – una leggenda del jazz più out come Marshall Allen, sassofonista e leader della Arkestra di Sun Ra. Festeggiamo perchè sono 55 minuti di musica davvero magica, alla confluenza di kraut rock, pop anni '60 ed euforici impulsi free, trainati da una Melody Day ridotta all'osso e che incanta.
(Rumore n. 226)

(bonus 2)
(...) ecco arrivare Swim Remixes (City Slang). Raccolta di cose già sentite e novità, e livello medio altissimo: basterebbe Motor City Drum Ensemble da solo con la sua monumentale Leave House, e invece ci sono anche James Holden, Junior Boys, Gold Panda, Fuck Buttons, un doppio DJ Koze, Gavin Russom, Ikonika e Walls fra gli altri. Tutti ad altissimi livelli, evidentemente felici di confrontarsi con cotanto campione, e di andare a comporre un album che scorre ed emoziona con il calore di una riunione di spiriti affini, più che come una semplice raccolta di remix.
(Rumore n. 228)

15/12/10

Perchè Google Maps è la cosa più bella che c'è


Visualizzazione ingrandita della mappa

Il responsabile è lui.

2. MASSIMO VOLUME. Cattive Abitudini (La Tempesta).


Un sogno che diventa ipotesi e quindi realtà. Un percorso partito dalla riunione del 2008 a Torino, e fattosi via via più solido con l'accumularsi di altri concerti, un album dal vivo e la riproposizione integrale del classico Stanze nella loro Bologna, quest'anno. I Massimo Volume – per chi non c'era: noise-rock di matrice sempre più post e testi recitati fra poesia e racconto breve; uno dei gruppi italiani più importanti degli anni '90, e di sempre; l'ultimo o quasi a far genere a sé, e a cambiare vite all'istante facendolo – esistono di nuovo, le prove sono troppe.
La più recente è un album realizzato alla vecchia maniera. Più o meno come lo fu, facendo di necessità virtù da bravi fuorisede, il caro vecchio Stanze di cui sopra, nel 1993: registrazione dal vivo in studio, tutti insieme, su un otto tracce analogico; missaggio su un due tracce a bobine. Niente computer. Lo scenario migliore per apprezzare di nuovo la determinazione feroce dei Massimo Volume d'annata, la coesione di una macchina oliata come e più di allora, e l'eccellenza della nuova formazione, nella quale brilla da quella sera torinese anche Stefano Pilia, giovane asso della scena sperimentale internazionale.
Lo sconto al vertice fra la sua chitarra e quella di Egle Sommacal è uno spettacolo elettrizzante. L'incognita era lì, nella coesistenza dei due talenti e nella fruttuosità del loro incontro. La creatività ritmica di Vittoria Burattini e la scarna potenza del basso di Emidio Clementi le ricordavamo, così come naturalmente ricordavamo – sembra davvero la più superflua delle precisazioni – le parole dello stesso Mimì.
Cominciassimo a citare non finiremmo più e rovineremmo la sorpresa. Ma raramente sono sembrate così organiche, così poco appoggiate sopra la musica. Che dal canto suo non sarà nuovissima in senso assoluto, ma è fresca e vibrante in senso relativo. E non solo: cose solari come La bellezza violata i Massimo Volume non le hanno mai fatte; i cori senza parole che sollevano gli otto minuti ipnotici di Mi piacerebbe ogni tanto averti qui, poi! Fausto è splendida musicalmente, ma testo ed enfasi sono manna per chi non ama quelle che Clementi stesso chiama “clementate”. Compensa Litio, urgente e tormentata, 3'34” brucianti che vanno dritti fra gli inni del gruppo: Stanze vent'anni dopo, in ogni senso. “Leo, è questo che siamo?” senza punto interrogativo. Fuoco per nulla fatuo.
(Rolling Stone n. 84)

3. HOT CHIP. One Life Stand (Parlophone).


14/12/10

4. FOUR TET. There Is Love in You (Domino).


Probabilmente ciò farà di me un sempliciotto, ma qui metto per iscritto un'idea che da tempo vado sostenendo: il tempo in quattro quarti, la cassa dritta, la cassa, dite un po' come volete, è qualcosa che va al di là delle classificazioni di genere, delle mode, di quello che noialtri coscientemente possiamo pensare. È qualcosa che agisce a un livello superiore, o inferiore, non importa, e che chiama in causa un sentire primordiale dell'essere umano. È di tutti, e non di pochi, e per questo è spesso considerata sinonimo di scelta facile, banale, tamarra.
Vero, quando a un certo punto entra la cassa sarà pure banale, ma il più delle volte è anche bellissimo. Come un riflesso automatico, come un tassello che va a posto sempre nello stesso posto, ma rassicurandoci ogni volta come fosse la prima. Il più delle volte è bellissimo anche quando deve entrare per forza ma non entra, figuratevi, ed è come se entrasse lo stesso, e la sua assenza è come la sua presenza, “e non averlo fatto è stato proprio come averlo fatto”.
Ecco, nella carriera di Kieran Hebden a un certo punto è entrata la cassa, e questo punto è il 2010. La sua creatività non è diminuita, la sua cifra sonora non è variata, ha semplicemente (qui sta la chiave: semplicemente) fatto un passo deciso verso di noi. Che ringraziamo.

05/12/10

Donne e buoi dei paesi tuoi

Paese bizzarro, l'Italia del 2010.
Due notizie quasi contemporanee cozzano in modo piuttosto rumoroso.

In provincia di Bergamo, il fatto che il presunto assassino di una ragazza sia marocchino scatena tensioni razziste, con relativi incitamenti alla legge del taglione e al "mandarli tutti a casa sua". E diventa o rischia di diventare un problema di immigrazione, e una notizia politica.

In provincia di Catanzaro, il fatto che l'assassino colto in fragranza di sette uomini - travolti guidando l'auto senza patente e sotto effetto di stupefacenti - sia marocchino non scatena un bel niente. E resta quello che è, ovvero un problema di sicurezza sulle strade, e una notizia di cronaca nera.

Levato di mezzo lo stereotipo geografico del nord leghista e del centro-sud più umano e solidale (Rosarno mi pare fosse in Calabria, e la Roma della caccia al rumeno e un po' a tutti gli altri non è poi molto lontana), resto sempre più convinto che le ragioni profonde di questa evidente sospensione del buon senso siano quelle di cui parlavo qui qualche tempo fa.

03/12/10

5. GONJASUFI. A Sufi and a Killer (Warp).


Ogni mese un disco così, uno solo. Chiediamo troppo? Un disco per il quale l'urgenza comunicativa e le idee conseguenti siano ragione di esistere, e non dettaglio trascurabile, o perso fra quintali di fuffa. Non un disco perfetto, chè A Sufi and a Killer non lo è ed è anche così bello per questo: pare un blocco straboccante di appunti, sporco e disordinato come quello di un viaggiatore solitario. Un tizio californiano che si chiama Sumach Valentine, un eremita con barba e dreadlock che canta lamentandosi come un ibrido di Moondog e Antony, e coproduce – insieme agli altri irregolari Gaslamp Killer, Flying Lotus (meravigliosa Ancestors) e Mainframe – questo vero e proprio viaggio sonoro fra rock acido e dilatato, soul-funk avvolgente, batitti hip hop, flash orientali, ballate folk-pop, blues deviante. L'evoluzione dei quattro minuti di Sheep basterebbe come esempio, se un esempio fosse cosa plausibile.
(Rumore n. 218)

02/12/10

6. JOHN GRANT. Queen of Denmark (Bella Union).


Un disco spiazzante, e anche per questo così bello. Dal nulla o quasi salta fuori l'ex cantante degli Czars accompagnato dai Midlake, con dodici canzoni di grande e dolente bellezza. Un vissuto personale tormentato, un passato che torna tanto nei testi quanto nelle suggestioni molto anni '70 della musica, immagini di strade lunghe e dritte e quartieri periferici, locali mezzi vuoti e marginalità, sogni puri di bambino e fallimenti. Musica impregnata di quella malinconia serena e quasi positiva che ricompare come un filo rosso in alcuni dei migliori dischi di sempre. Il tutto in forma di ballate pianistiche intense e creative (ma non solo, occhio all'Elton John saltellante di Chicken Bones) dalle aperture melodiche fulminanti, capaci di materializzare un passato dai colori vividi e di donare forza per il presente e il futuro. I Midlake girano a meraviglia, perfetti tanto nei dettagli quanto nella costruzione complessiva; il tocco di Grant è quello sicuro e quasi distaccato del maestro.

Will the circle be unbroken


Sembra di fare la solita osservazione banale su quanto in Italia si sia indietro rispetto al resto del mondo, bla bla bla. Ma forse il problema è diffuso, ed è il problema di un mondo in cui il denaro e quello che esso rappresenta girano al contrario di come dovrebbero, assicurando ulteriore benessere a chi già ne ha, e negandolo a chi ne avrebbe bisogno. Ieri mi è stato rimbalzato un finanziamento, una cosa piccola, una trentina di euro al mese per trenta mesi. Ho capito che un finanziamento è un privilegio, non un aiuto.
Sul piatto da parte mia non c'era moltissimo, ma di questi tempi nemmeno una miseria: un contratto part-time nel commercio e, come garanti, la partita IVA e il relativo reddito della mia fidanzata. Non sono bastati, non ho “raggiunto il punteggio necessario”. Perchè? La ditta non mi concede il finanziamento “perchè nè io né il mio garante abbiamo mai fatto finanziamenti in passato”.
Inutile fare notare quanto tutto sia assurdo, quanto il ragionamento crei un loop nel quale sarà ben difficile fare breccia, e come il fatto che io non abbia mai fatto finanziamenti in passato (non è vero, tra l'altro: ne ho fatto uno intorno al 2003, se non ricordo male proprio con la stessa ditta, per una cifra pure superiore; ma “ogni cinque anni gli archivi vengono azzerati”) sia casomai un punto a mio favore, dimostrando come io sia sempre stato in grado di cavarmela da solo. Nulla.
Per questo forse la ditta si chiama come si chiama, perchè traccia dei cerchi. Perfetti.

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