In questo senso, Let England Shake ricorda quel suo predecessore e fa persino meglio, raggiungendo un equilibrio quasi perfetto fra orecchiabilità e gusto sperimentale, melodie che arrivano immediatamente a destinazione e libertà formale e stilistica, esempi splendenti di PJ a 24 carati (delle dodici canzoni, almeno la metà finisce dritta filata su un' ipotetica antologia: The Glorious Land, The Words That Maketh Murder, On Battleship Hill, In the Dark Places, Written on the Forehead e The Colour of the Earth) e piccoli particolari folli (la citazione di Summertime Blues di Eddie Cochran in The Words That Maketh Murder; il campione di trombetta da adunata militare inserito dentro The Glorious Land; tutto o quasi il classico roots reggae Blood & Fire di Niney The Observer in Written on the Forehead, letteralmente intrecciato in un abbraccio indissolubile con il brano stesso).
E i testi, poi, tasselli di un concept sulla guerra e sull'Inghilterra di ieri, l'altroieri e oggi; Gallipoli, Falklands e Afghanistan come tre facce della stessa medaglia.
Tutto con una leggerezza estrema, poggiata sui toni ariosi della voce e sulle corde dell'autoharp, strumento di partenza per buona parte delle composizioni. Con i ritrovati Mick Harvey e John Parish al suoi fianco, non a caso. E con dodici splendidi video di Seamus Murphy, uno per brano, ad accompagnare.
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