Una volta era la gente a parlare (o ad aspirare di) come i giornali e come la televisione. Senza arrivare ai corsi di italiano via teleschermo del maestro Manzi in "Non è mai troppo tardi", bastava l'esempio dei giornalisti. Gente che arrivava lì perché sapeva parlare, aveva un vocabolario vasto e lo usava nel modo più appropriato. "Parli come uno della televisione", si diceva.
Oggi, per uno dei tanti ribaltamenti (di senso, di prospettiva, di significato) che hanno investito l'Italia e i suoi meccanismi comunicativi negli ultimi due decenni, sembra succeda il contrario.
In una sorta di telefono senza fili disastroso, sembra siano tv e giornali a parlare come la gente, ad andare appresso a un parlare comune che la gente stessa ha acquisito dai mezzi di comunicazione, per poi plasmarlo a proprio piacimento e attraverso le scorciatoie più a portata di mano. Forse era meglio prima.
Prendete la parola "extracomunitario", ad esempio.
Un tecnicismo, sulla carta. Una roba da legislatori e da pignoli che accomuna senegalesi e statunitensi (en passant: cominciamo a chiamarli così e non americani?), marocchini e svizzeri, australiani e cinesi, russi e nigeriani.
Ma una parola che nei mezzi di comunicazione italiani ha avuto fin dalla sua comparsa un uso limitativo, riservato esclusivamente a una piccola parte di coloro così definibili. "Extracomunitari" non sono tutti i cittadini di paesi non facenti parte dell'Unione Europea (en passant: da un bel po' ormai si chiama così e non più Comunità Europea, forse conviene aggiornarsi. Extraunitari? Extraunionisti?), ma solo quelli che cercano di entrarci, nell'Unione Europea.
I poveri.
Un uso razzista, dunque. Dove il razzismo in gioco non è tanto quello da manuale del bianco verso il nero, quanto quello ben più difficile da estirpare del ricco verso il povero, o del povero verso il più povero ancora.
Una parola che quindi ha avuto da subito un significato acquisito dall'uso: per l'italiano medio, "extracomunitari" sono gli stranieri, anzi un sottoinsieme degli stranieri. Quelli percepiti come più inclini alla delinquenza comune, alla clandestinità (come se la clandestinità fosse una scelta), allo spaccio, allo stupro.
Gli africani. Marocchini, senegalesi, nigeriani.
Non i cinesi, ad esempio, che in Italia sono tantissimi ma che sono benestanti, e probabilmente per questo ci fanno davvero paura. Di fronte a loro l'italiano abbassa la cresta: avete mai sentito definire "extracomunitario" un cinese? Difficile, ma in compenso avrete sicuramente sentito definire "extracomunitario" un rumeno, anche dopo l'ingresso della Romania nell'Unione.
"Extracomunitario" da cavillo burocratico diventa nazionalità, e insulto.
Oggi assistiamo a un ulteriore slittamento semantico. Orribile.
Nell'articoletto di cui sopra, apparso oggi sul sito di Repubblica (e qualche ora dopo aggiornato con le generalità dell'uomo, che di fatto hanno reso "tagliabile" la frase in questione), si legge:
Non si conosce ancora l'identità dell'uomo, che pare essere extracomunitario.
Dopo essere diventato sinonimo di "straniero", anzi solo di qualche esemplare di "straniero" particolarmente sgradito, il termine diventa anche connotazione fisica, descrizione dei tratti somatici di una persona.
Non "pare essere nordafricano", dunque, ma "pare essere extracomunitario".
Li si riconosce a vista, meglio.
(Segnalo anche l'evidente carenza di un approccio simile man mano che gli anni passano, e la società italiana si fa grazie al cielo più varia e meticcia: se il morto fosse stato uno degli ormai numerosissimi italiani figli di nordafricani, seguendo questa logica, avrebbero scritto lo stesso "extracomunitario"?)
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