141. The Most Secret Method/The Dusters - split - 1997. (10” nuovo, Superbad, € 10.00).
Dei Most Secret Method vi ho appena raccontato. Uno dei segreti, di nuovo l’ironia di un nome, meglio custoditi di tutta la scena di Washington DC. Su questo split mettono tre brani di un anno precedenti al primo album, che già preannunciano l’imminente grandezza. Nervosi ma più diretti di gran parte dei concittadini, soprattutto nelle parti vocali, i tre ci mancano un sacco. Qualcuno sa di eventuali nuovi progetti?
I Dusters invece hanno cominciato a piacermi sul serio negli ultimi tempi. Il loro primo album, ascoltato peraltro di fretta, non mi aveva detto granchè. L’ultimo “Rock Creek” invece è già un’altra cosa. Qui attaccano molto powerpop e si innervosiscono strada facendo, mantenendo comunque una vena melodica più accentuata.
La grafica di Ryan Nelson, molto Pettibone, è come per ogni altro disco dei Most Secret Method splendida.
31/12/02
137. Her Space Holiday “Home Is Where You Hang Yourself” 2000. (cd usato, Tiger Style/Wichita, € 9.00).
Non ho ancora ben capito in che gruppo dei nostri suonasse Marc Bianchi, se nei Mohinder o negli Indian Summer. Diciamo che degli Indian Summer non si è mai capito un cazzo, in realtà, ma che hanno rappresentato l’essenza dell’emo dei primi ’90 che così tanto e intensamente ci ha fatto sognare. Bei tempi, decisamente.
Fatto sta che ora Marc Bianchi fa musica da solo, e questo è il suo primo vero album, uscito nel 2000 per Tiger Style come doppio (un cd di remix con vari nomi dell’etichetta) e stampato due anni dopo in Europa da Wichita come singolo, con copertina diversa e un brano in più. Ed è proprio la musica di un solitario, di una camera da letto, quella che esce dallo stereo.
Ritmi tenui, chitarra elettrica suonata, voce sussurrata, elettronica discreta. Come dei Velvet del terzo album, o meglio ancora dei Galaxie 500, spogliati ed appoggiati su beats piccoli (non sempre, sentite “Snakecharmer”, lentissima ma con un frenetico ritmo drum’n’bass in lontananza). Tutto molto affascinante ed umano, ma tutto anche a rischio monotonia, data la materia e la lunghezza media dei pezzi. Presi singolarmente ne spiccano diversi (“The Doctor And The DJ”, “Sleeping Pills”, “Can You Blame Me?”, “Sugar Water”) ma ho l’impressione che per incominciare ad entrare in questo disco ci vogliano molti ascolti, molti. Pur se frammentari, mi erano sembrati più immediati i due volumi di singoli e outtakes “The Astronauts Are Sleeping”. Forse al meglio deve ancora arrivare, ma le premesse ci sono.
138. Creedence Clearwater Revival “Willy And The Poor Boys” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 13.38).
Il 2002, per me, è in quanto a riscoperte definitivamente l’anno dei Creedence Clearwater Revival. Infoiato oltre ogni dire da “Bayou Country”, “Green River” e “Cosmo’s Factory” esco di casa per soddisfare la mia scimmia di John Fogerty e mi accaparro l’ultimo degli indispensabili firmati da lui e dai suoi tre soci, ovvero “Willy And The Poor Boys” (per la cronaca, TERZO album edito dal gruppo nel solo 1969!).
“Fortunate Son” è il singolo con la S maiuscola. Uno dei brani più celebri del quartetto, un’invettiva feroce contro tanti hippies rivoluzionari figli di papà avvezzi a dettar legge all’epoca, contro i quali l’etica working class di Fogerty si scagliava senza mezzi termini. La sua voce è odio puro distillato attraverso il sarcasmo, in due minuti e venti fondamentali, spesso dimenticati quando si parla di Vietnam e controcultura americana.
Il resto del disco, però, si discosta abbastanza dai tipici toni scuri perfezionati nei due album precedenti, come anticipato dalla copertina: la band sorridente a un angolo di strada, armata di armonica a bocca, chitarra acustica, washboard e basso a tinozza. Quattro bambini neri guardano attenti. C’è un’aria di svago, rilassatezza, ritorno alle tradizioni: “Cotton Fields” e “The Midnight Special” sono due classici di Leadbelly, colosso del folkblues dalla vita avventurosa. “Don’t Look Now” e “It Came Out Of The Sky” sono due rock’n’roll rurali, “Poor Boy Shuffle” potrebbe essere stata suonata con gli strumenti della copertina, e sfuma nel rhythm’n’blues a 24 carati di “Feelin’ Blue”.
Con la conclusiva “Effigy”, un po’ “Hey Joe”, torna a calare l’oscurità. Che altro aggiungere ancora?
139. Various Artists With The Upsetters “Version Like Rain” 1989 (lp usato, Trojan, € 8.00).
La copertina è orribile, e nemmeno riconducibile alla vecchia scuola delle ristampe reggae (della quale comunque la Trojan non ha mai fatto parte): pare un disco della 4AD, e dubito che avrebbe potuto mai catturare la mia attenzione se quel pomeriggio non avessi deciso di dare un’occhiata al vinile reggae usato, dove di solito non guardo praticamente mai. Di reggae serio, su vinile o cd, se ne trova davvero poco in questo negozio. Comunque sia, Upsetters è scritto piccolo ma si vede, e “Version Like Rain” è un titolo che non passa inosservato. Giro l’oggetto e mi convinco che si tratta di un titolo targato Lee Perry di quelli da prendere: cura la raccolta nientemeno che Steve Barrow (futuro creatore della Blood & Fire e coautore della “Rouch Guide To Reggae”), i nomi coinvolti sono fidati (Junior Byles, U-Roy, Augustus Pablo, Susan Cadogan, Niney), e se non li conoscono arrivano comunque le date in mio soccorso (la raccolta è del 1989, ma le registrazioni risalgono al periodo 1972-1976). Mio. Prendo e pago, mentre di fianco a me due ggiovani con berrette red, green & gold guardano “Legend” di Bob Marley come se non l’avessero mai visto e nemmeno immaginano cosa sto portando via con me.
Torno a casa, apro la suddetta guida e mi batto un hi-five da solo: l’album non solo è citato, ma è recensito con parole grosse, perché raccoglie tre dei meglio ritmi Upsetter dell’epoca e li sviluppa in più versioni.
La sezione musical shower comprende la pimpante “Want A Wine” di Leo Graham, la sua versione dj a cura di U-Roy e quella strumentale a cura della band di casa Perry. Fever Storm è proprio dedicata al classico blues “Fever”, qui interpretato due volte da Junior Byles e (meravigliosamente) da Susan Cadogan. Augustus Pablo la rilegge melodica in resta, King Medious ne prende il ritmo per “This World” e gli Upsetters, di nuovo, chiudono con una “Influenza Version”.
Babylon deluge occupa l’intero lato B, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, visto che il ritmo prescelto è quello della mostruosa “Beat Down Babylon” ancora di Junior Byles (per inciso, uno dei vertici della carriera di Byles e di “Scratch” stesso). Apre l’originale, seguono Junior in coppia con il dj Jah T per “Informer Man” e relativa version. Riprende Perry in combination letale con Niney The Observer e Maxie (Romeo!) per una “Babylon’s Burning” tanto scarna quanto potente, anch’essa subito sottoposta all’apocalittico trattamento Upsetters. “Freedom Fighter” è l’eccellente contributo di Bunny & Ricky (chi sono?), prima della relativa versione e del finale lasciato alla vecchia e misconosciuta gloria ska Shenley Duffus con “Bet You Don’t Know”.
Uno degli affari dell’anno. Molto probabilmente grazie al grafico (che proprio ora in conclusione scopro essere lo studio Intro, ovvero il team responsabile della magnificenza Blood & Fire! Ok, la copertina resta orribile, ma denota la grande e sacrosanta volontà dei tipi di sperimentare e di scavalcare le barriere di genere, con soluzioni grafiche che, nel 1989, si discostavano nettamente dall’iconografia reggae classica).
140.The Most Secret Method “Our Success” 2002. (cd nuovo, Superbad, € 13.00).
Suonano ironici, a maggior ragione oggi, nome e titolo in questione. “Get Lovely” (Slowdime, 1998), tuttora il miglior disco Dischord non uscito su Dischord, è il tesoro che è solo per i quattro gatti che lo possiedono. E come troppo spesso accade nella Capitale -una sorta di contrappasso versione DC? Sarete grandi, ma durerete troppo poco?- anche per i fratelli Nelson e Johanna Claesen arriva troppo presto il momento degli addii. Succede, e quasi mai è il caso di farne un dramma. A Washington soprattutto, gli scioglimenti hanno da sempre significato nascita più che morte.
I conti vanno però saldati, ed ecco quindi “Our Success”. Catturato tra il 1998 ed il 2001 da fonici di lusso come Juan Carrera, Chad Clark, Ian MacKaye e Don Zientara e racchiuso in una slendida veste grafica, non è il suo inarrivabile predecessore, è più frammentario e a tratti solo abbozzato. Ma è opera di una band degna di sedere accanto ai più illustri fautori del DC Sound, capace di esaltarne i segreti e lo spirito. In attesa di sviluppi, a noi fare in modo che questo metodo, pur superato, diventi se non altro un po’ meno segreto.
Non ho ancora ben capito in che gruppo dei nostri suonasse Marc Bianchi, se nei Mohinder o negli Indian Summer. Diciamo che degli Indian Summer non si è mai capito un cazzo, in realtà, ma che hanno rappresentato l’essenza dell’emo dei primi ’90 che così tanto e intensamente ci ha fatto sognare. Bei tempi, decisamente.
Fatto sta che ora Marc Bianchi fa musica da solo, e questo è il suo primo vero album, uscito nel 2000 per Tiger Style come doppio (un cd di remix con vari nomi dell’etichetta) e stampato due anni dopo in Europa da Wichita come singolo, con copertina diversa e un brano in più. Ed è proprio la musica di un solitario, di una camera da letto, quella che esce dallo stereo.
Ritmi tenui, chitarra elettrica suonata, voce sussurrata, elettronica discreta. Come dei Velvet del terzo album, o meglio ancora dei Galaxie 500, spogliati ed appoggiati su beats piccoli (non sempre, sentite “Snakecharmer”, lentissima ma con un frenetico ritmo drum’n’bass in lontananza). Tutto molto affascinante ed umano, ma tutto anche a rischio monotonia, data la materia e la lunghezza media dei pezzi. Presi singolarmente ne spiccano diversi (“The Doctor And The DJ”, “Sleeping Pills”, “Can You Blame Me?”, “Sugar Water”) ma ho l’impressione che per incominciare ad entrare in questo disco ci vogliano molti ascolti, molti. Pur se frammentari, mi erano sembrati più immediati i due volumi di singoli e outtakes “The Astronauts Are Sleeping”. Forse al meglio deve ancora arrivare, ma le premesse ci sono.
138. Creedence Clearwater Revival “Willy And The Poor Boys” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 13.38).
Il 2002, per me, è in quanto a riscoperte definitivamente l’anno dei Creedence Clearwater Revival. Infoiato oltre ogni dire da “Bayou Country”, “Green River” e “Cosmo’s Factory” esco di casa per soddisfare la mia scimmia di John Fogerty e mi accaparro l’ultimo degli indispensabili firmati da lui e dai suoi tre soci, ovvero “Willy And The Poor Boys” (per la cronaca, TERZO album edito dal gruppo nel solo 1969!).
“Fortunate Son” è il singolo con la S maiuscola. Uno dei brani più celebri del quartetto, un’invettiva feroce contro tanti hippies rivoluzionari figli di papà avvezzi a dettar legge all’epoca, contro i quali l’etica working class di Fogerty si scagliava senza mezzi termini. La sua voce è odio puro distillato attraverso il sarcasmo, in due minuti e venti fondamentali, spesso dimenticati quando si parla di Vietnam e controcultura americana.
Il resto del disco, però, si discosta abbastanza dai tipici toni scuri perfezionati nei due album precedenti, come anticipato dalla copertina: la band sorridente a un angolo di strada, armata di armonica a bocca, chitarra acustica, washboard e basso a tinozza. Quattro bambini neri guardano attenti. C’è un’aria di svago, rilassatezza, ritorno alle tradizioni: “Cotton Fields” e “The Midnight Special” sono due classici di Leadbelly, colosso del folkblues dalla vita avventurosa. “Don’t Look Now” e “It Came Out Of The Sky” sono due rock’n’roll rurali, “Poor Boy Shuffle” potrebbe essere stata suonata con gli strumenti della copertina, e sfuma nel rhythm’n’blues a 24 carati di “Feelin’ Blue”.
Con la conclusiva “Effigy”, un po’ “Hey Joe”, torna a calare l’oscurità. Che altro aggiungere ancora?
139. Various Artists With The Upsetters “Version Like Rain” 1989 (lp usato, Trojan, € 8.00).
La copertina è orribile, e nemmeno riconducibile alla vecchia scuola delle ristampe reggae (della quale comunque la Trojan non ha mai fatto parte): pare un disco della 4AD, e dubito che avrebbe potuto mai catturare la mia attenzione se quel pomeriggio non avessi deciso di dare un’occhiata al vinile reggae usato, dove di solito non guardo praticamente mai. Di reggae serio, su vinile o cd, se ne trova davvero poco in questo negozio. Comunque sia, Upsetters è scritto piccolo ma si vede, e “Version Like Rain” è un titolo che non passa inosservato. Giro l’oggetto e mi convinco che si tratta di un titolo targato Lee Perry di quelli da prendere: cura la raccolta nientemeno che Steve Barrow (futuro creatore della Blood & Fire e coautore della “Rouch Guide To Reggae”), i nomi coinvolti sono fidati (Junior Byles, U-Roy, Augustus Pablo, Susan Cadogan, Niney), e se non li conoscono arrivano comunque le date in mio soccorso (la raccolta è del 1989, ma le registrazioni risalgono al periodo 1972-1976). Mio. Prendo e pago, mentre di fianco a me due ggiovani con berrette red, green & gold guardano “Legend” di Bob Marley come se non l’avessero mai visto e nemmeno immaginano cosa sto portando via con me.
Torno a casa, apro la suddetta guida e mi batto un hi-five da solo: l’album non solo è citato, ma è recensito con parole grosse, perché raccoglie tre dei meglio ritmi Upsetter dell’epoca e li sviluppa in più versioni.
La sezione musical shower comprende la pimpante “Want A Wine” di Leo Graham, la sua versione dj a cura di U-Roy e quella strumentale a cura della band di casa Perry. Fever Storm è proprio dedicata al classico blues “Fever”, qui interpretato due volte da Junior Byles e (meravigliosamente) da Susan Cadogan. Augustus Pablo la rilegge melodica in resta, King Medious ne prende il ritmo per “This World” e gli Upsetters, di nuovo, chiudono con una “Influenza Version”.
Babylon deluge occupa l’intero lato B, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, visto che il ritmo prescelto è quello della mostruosa “Beat Down Babylon” ancora di Junior Byles (per inciso, uno dei vertici della carriera di Byles e di “Scratch” stesso). Apre l’originale, seguono Junior in coppia con il dj Jah T per “Informer Man” e relativa version. Riprende Perry in combination letale con Niney The Observer e Maxie (Romeo!) per una “Babylon’s Burning” tanto scarna quanto potente, anch’essa subito sottoposta all’apocalittico trattamento Upsetters. “Freedom Fighter” è l’eccellente contributo di Bunny & Ricky (chi sono?), prima della relativa versione e del finale lasciato alla vecchia e misconosciuta gloria ska Shenley Duffus con “Bet You Don’t Know”.
Uno degli affari dell’anno. Molto probabilmente grazie al grafico (che proprio ora in conclusione scopro essere lo studio Intro, ovvero il team responsabile della magnificenza Blood & Fire! Ok, la copertina resta orribile, ma denota la grande e sacrosanta volontà dei tipi di sperimentare e di scavalcare le barriere di genere, con soluzioni grafiche che, nel 1989, si discostavano nettamente dall’iconografia reggae classica).
140.The Most Secret Method “Our Success” 2002. (cd nuovo, Superbad, € 13.00).
Suonano ironici, a maggior ragione oggi, nome e titolo in questione. “Get Lovely” (Slowdime, 1998), tuttora il miglior disco Dischord non uscito su Dischord, è il tesoro che è solo per i quattro gatti che lo possiedono. E come troppo spesso accade nella Capitale -una sorta di contrappasso versione DC? Sarete grandi, ma durerete troppo poco?- anche per i fratelli Nelson e Johanna Claesen arriva troppo presto il momento degli addii. Succede, e quasi mai è il caso di farne un dramma. A Washington soprattutto, gli scioglimenti hanno da sempre significato nascita più che morte.
I conti vanno però saldati, ed ecco quindi “Our Success”. Catturato tra il 1998 ed il 2001 da fonici di lusso come Juan Carrera, Chad Clark, Ian MacKaye e Don Zientara e racchiuso in una slendida veste grafica, non è il suo inarrivabile predecessore, è più frammentario e a tratti solo abbozzato. Ma è opera di una band degna di sedere accanto ai più illustri fautori del DC Sound, capace di esaltarne i segreti e lo spirito. In attesa di sviluppi, a noi fare in modo che questo metodo, pur superato, diventi se non altro un po’ meno segreto.
30/12/02
135. The Who “My Generation - Deluxe Edition” 2002. (dcd nuovo, MCA, € 23.79).
Maximum R&B!!! Sono gli Who degli inizi, giovanissimi e rumorosissimi. Hanno visi che fanno tenerezza, suonano con il fuoco dentro e l’abbandono di chi non guarda in faccia nessuno. Le cover ne svelano gli ascolti assolutamente black (il James Brown di “Please, Please, Please”, “I Don’t Mind” e “Shout And Shimmy”, la Motown di “Motoring” e “(Love Is Like A Heat Wave)”, il Bo Diddley di “I’m A Man”, “Leaving Here” e “Daddy Rolling Stone”), mentre i brani originali sono già peculiari. I singoli fanno parte della stroria del rock, di quella cerchia di brani di default per l’appassionato: il balbettio della title-track, l’attacco di “The Kids Are Alright”, la struttura quadrata di “I Can’t Explain”, le armonie vocali di di “Circles”, i feedback di “Anyway, Anyhow, Anywhere”. Ma che sorpresa il resto! “La-La-La Lies”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e “Instant Party Mixture” sono notevoli, e “The Good’s Gone” è grande!
Detto della musica, però, tocca dire anche della “Deluxe Edition” che finalmente rende gloria a un album che per problemi legali era sempre stato escluso dalle ristampe. Ci sono i brani originali e ce ne sono altri diciassette, addirittura.
Davvero spettacolosa la veste grafica, con foto d’epoca a bizzeffe e note precisissime (ma dedicate più ai fatti che ai commenti… non avrebbe guastato un mini-saggio sull’importanza e la specificità degli Who in quel periodo). Meno esaustiva -tanto più trattandosi della prima vera ristampa del disco dopo decenni, presentata come definitiva e con ben due cd a disposizione- risulta invece la scaletta. Viene in nostro aiuto il recensore di All Music Guide per mettere le cose al loro posto. Io sottoscrivo, e ribadisco che escludere l’originale di “Anyway, Anyhow, Anywhere” sbagliandone il titolo e perdere la chitarra nel break di “My Generation” sono pecche non da poco ed evitabili. Che non devono però farvi desistere dall’acquisto, sia chiaro.
136. Heatmiser - s/t - 1993. (7” usato, Cavity Search, € 3.00).
L’amico Paul visita l’Italia per l’ennesima volta al seguito del solito gruppo strafigo che se lo accaparra come tour manager. Ci sono periodi in cui vedo più spesso lui di amici che vivono a pochi kilometri di distanza. Si parla di questo e di quello (principalmente di reggae e di retroscena indie/postpunk) e se si è fortunati ha nuove foto. Oppure dischi da vendere.
Nell’indifferenza generale degli under-25, ovvero la quasi totalità dei presenti, scorgo un singolo degli Heatmiser che ha tutta l’aria di essere il primo singolo degli Heatmiser, e tra urla scomposte me lo compro. Perché alla chitarra c’è Elliott Smith, anni prima che diventasse l’Elliott Smith che tutti conosciamo e (spero per voi) amiamo. Che poi si tratti sostanzialmente di tre pezzi di grunge-pop inutile poco conta. Gli Heatmiser daranno il meglio a fine corsa, con l’ottimo “Mic City Sons” (Caroline, 1996) e con l’affacciarsi del magico Elliott dalle parti del microfono. Sam Coomes formerà i Quasi, Tony Lash diventerà un produttore (Dandy Warhols, Death Cab For Cutie), Neil Gust formerà i No. 2 (un album su Chainsaw, chi ce l’ha?) e Elliott… beh Elliott…
Maximum R&B!!! Sono gli Who degli inizi, giovanissimi e rumorosissimi. Hanno visi che fanno tenerezza, suonano con il fuoco dentro e l’abbandono di chi non guarda in faccia nessuno. Le cover ne svelano gli ascolti assolutamente black (il James Brown di “Please, Please, Please”, “I Don’t Mind” e “Shout And Shimmy”, la Motown di “Motoring” e “(Love Is Like A Heat Wave)”, il Bo Diddley di “I’m A Man”, “Leaving Here” e “Daddy Rolling Stone”), mentre i brani originali sono già peculiari. I singoli fanno parte della stroria del rock, di quella cerchia di brani di default per l’appassionato: il balbettio della title-track, l’attacco di “The Kids Are Alright”, la struttura quadrata di “I Can’t Explain”, le armonie vocali di di “Circles”, i feedback di “Anyway, Anyhow, Anywhere”. Ma che sorpresa il resto! “La-La-La Lies”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e “Instant Party Mixture” sono notevoli, e “The Good’s Gone” è grande!
Detto della musica, però, tocca dire anche della “Deluxe Edition” che finalmente rende gloria a un album che per problemi legali era sempre stato escluso dalle ristampe. Ci sono i brani originali e ce ne sono altri diciassette, addirittura.
Davvero spettacolosa la veste grafica, con foto d’epoca a bizzeffe e note precisissime (ma dedicate più ai fatti che ai commenti… non avrebbe guastato un mini-saggio sull’importanza e la specificità degli Who in quel periodo). Meno esaustiva -tanto più trattandosi della prima vera ristampa del disco dopo decenni, presentata come definitiva e con ben due cd a disposizione- risulta invece la scaletta. Viene in nostro aiuto il recensore di All Music Guide per mettere le cose al loro posto. Io sottoscrivo, e ribadisco che escludere l’originale di “Anyway, Anyhow, Anywhere” sbagliandone il titolo e perdere la chitarra nel break di “My Generation” sono pecche non da poco ed evitabili. Che non devono però farvi desistere dall’acquisto, sia chiaro.
136. Heatmiser - s/t - 1993. (7” usato, Cavity Search, € 3.00).
L’amico Paul visita l’Italia per l’ennesima volta al seguito del solito gruppo strafigo che se lo accaparra come tour manager. Ci sono periodi in cui vedo più spesso lui di amici che vivono a pochi kilometri di distanza. Si parla di questo e di quello (principalmente di reggae e di retroscena indie/postpunk) e se si è fortunati ha nuove foto. Oppure dischi da vendere.
Nell’indifferenza generale degli under-25, ovvero la quasi totalità dei presenti, scorgo un singolo degli Heatmiser che ha tutta l’aria di essere il primo singolo degli Heatmiser, e tra urla scomposte me lo compro. Perché alla chitarra c’è Elliott Smith, anni prima che diventasse l’Elliott Smith che tutti conosciamo e (spero per voi) amiamo. Che poi si tratti sostanzialmente di tre pezzi di grunge-pop inutile poco conta. Gli Heatmiser daranno il meglio a fine corsa, con l’ottimo “Mic City Sons” (Caroline, 1996) e con l’affacciarsi del magico Elliott dalle parti del microfono. Sam Coomes formerà i Quasi, Tony Lash diventerà un produttore (Dandy Warhols, Death Cab For Cutie), Neil Gust formerà i No. 2 (un album su Chainsaw, chi ce l’ha?) e Elliott… beh Elliott…
28/12/02
132. Gang Of Four “Entertainment!” 1980. (cd nuovo, EMI, € 11.90).
Settembre 2002, meglio tardi che mai. Quante volte ho visto questo nome citato per descrivere la musica di gruppi a me cari? Perché non l’ho cercato prima? Di cosa avevo paura? C’è forse in me un timore innato di dovermi trovare ad ascoltare roba spessa?
Fatto sta che alla fine “Entertainment!” me lo sono comprato, e pure in edizione ampliata (tre brani in più) e a medio prezzo. Ed effettivamente è quella bomba di cui tutti hanno sempre detto. Il primo ascolto, soprattutto, è un susseguirsi di espresisoni di stupore e gioia. Un accavallarsi di brividi e nomi di gruppi odierni.
Gang Of Four scelse un nome pesante, ritmi danzabili, chitarre taglienti, testi impegnati con sarcasmo ed acume. Un suono che effettivamente farà scuola a 360° nei decenni a venire, in maniera a tratti clamorosa. In due parole: l’aggressività del punk ibridata con i ritmi neri del dub e del funk, spezzettati e ricuciti in maniera originalissima. Direte “Già sentito”. Certo, perché l’hanno fatto loro prima.
“Entertainment!” è un manifesto della musica ribelle di ogni tempo, nella forma e nella sostanza. È difficile e divertente, inquietante ed eccitante, e posso solo cercare di immaginare l’impatto destabilizzante che ebbe al tempo della sua uscita.
Lo avrebbe ancora oggi, figuratevi.
133. Bugo “Casalingo” 2002. (mcd nuovo, Universal, € 6.46).
“Casalingo” a questo punto dovreste conoscerla. È il singolo dell’anno o giù di lì.
Il remix firmato A034 la distrugge a dovere giocando con saturazioni noise e accelerazioni drum’n’bass impazzite. Ma il dischetto lo dovete comprare per altre due ragioni, entrambe non incluse su “Dal Lofai Al Cisei”, entrambe capaci di fermare i respiri quando il Bugo le suona dal vivo: “Una Pentola Al Fuoco Che Attende La Pioggia” è un ipotetico ed entusiasmante crossover Dylan/Guccini, con la struttura tipica della ballata folk ed un’armonica a punteggiare. “Ti Ho Vista” è cantautorato lo-fi rarefatto di oggi, notevole.
134. Ash “1977” 1996. (cd usato, Infectious, € 6.00).
Stare dietro ai fenomeni che settimanalmente la stampa inglese ci propina come salvatori del rock, del pop o delle nostre vite è compito arduo e fondamentalmente ingrato. Il sottoscritto c’è riuscito soltanto -come molti altri, immagino- durante e subito dopo più o meno brevi soggiorni in Gran Bretagna. Se sei lì, leggi e compri subito quello che trovi. E per le prime due settimane in Italia sei un gallo.
A me è l’ultima volta è successo con gli Ash (manco da un bel po’, vero?), dopo l’exploit congiunto Charlatans/Manic Street Preachers dei quali ancora conservo gelosamente i primi 12”. Proprio in quella primavera del 1996, durante due settimane come au pair in una famiglia del Cambridgeshire (due settimane? Sì, due settimane soltanto. Ha a che fare con la persona priva di senso dell’umorismo di cui si diceva tempo fa parlando dei Walkabouts), scoprii l’allora trio nordirlandese e accattai tutto il possibile nelle mie sporadiche puntate verso la vicina città di Peterborough. Di loro si parlava come giovani, drogati e sensazionali. Appurate come vere le prime due, ebbi da subito dei dubbi sulla terza definizione, ma il cd singolo di “Goldfinger” non era male, e la cover di “Get Ready” di Smokey Robinson era ben riuscita. Il pezzo che però mi conquistò stava su una cassettina allegata a “Sounds” o roba del genere (cassettina che tra l’altro vorrei ritrovare…), e si chiamava “Kung Fu”. Era pop-punk del migliore, e lo è tuttora.
Molta strada hanno fatto gli Ash da questo album d’esordio. Intanto, sono ancora qua, e non capita a tutti. Hanno il loro video su MTV, vivono da rockstar di secondo piano senza infamia né lode, fanno un disco ogni tanto e va bene così.
Manca la freschezza ancora rintracciabile su “1977”, ma già allora pericolosamente incline a farsi patinare e a rendere il punk-pop e le ballate grungiste dei tre di Belfast più “finto” di quanto avremmo voluto. Perché il songwriting, tranne qualche riempitivo (ma come ha fatto “Angel Interceptor” a diventare un singolo?) funziona: “Kung Fu” su tutte, ma anche “Girl From Mars”, “Goldfinger” e “Oh Yeah”.
Settembre 2002, meglio tardi che mai. Quante volte ho visto questo nome citato per descrivere la musica di gruppi a me cari? Perché non l’ho cercato prima? Di cosa avevo paura? C’è forse in me un timore innato di dovermi trovare ad ascoltare roba spessa?
Fatto sta che alla fine “Entertainment!” me lo sono comprato, e pure in edizione ampliata (tre brani in più) e a medio prezzo. Ed effettivamente è quella bomba di cui tutti hanno sempre detto. Il primo ascolto, soprattutto, è un susseguirsi di espresisoni di stupore e gioia. Un accavallarsi di brividi e nomi di gruppi odierni.
Gang Of Four scelse un nome pesante, ritmi danzabili, chitarre taglienti, testi impegnati con sarcasmo ed acume. Un suono che effettivamente farà scuola a 360° nei decenni a venire, in maniera a tratti clamorosa. In due parole: l’aggressività del punk ibridata con i ritmi neri del dub e del funk, spezzettati e ricuciti in maniera originalissima. Direte “Già sentito”. Certo, perché l’hanno fatto loro prima.
“Entertainment!” è un manifesto della musica ribelle di ogni tempo, nella forma e nella sostanza. È difficile e divertente, inquietante ed eccitante, e posso solo cercare di immaginare l’impatto destabilizzante che ebbe al tempo della sua uscita.
Lo avrebbe ancora oggi, figuratevi.
133. Bugo “Casalingo” 2002. (mcd nuovo, Universal, € 6.46).
“Casalingo” a questo punto dovreste conoscerla. È il singolo dell’anno o giù di lì.
Il remix firmato A034 la distrugge a dovere giocando con saturazioni noise e accelerazioni drum’n’bass impazzite. Ma il dischetto lo dovete comprare per altre due ragioni, entrambe non incluse su “Dal Lofai Al Cisei”, entrambe capaci di fermare i respiri quando il Bugo le suona dal vivo: “Una Pentola Al Fuoco Che Attende La Pioggia” è un ipotetico ed entusiasmante crossover Dylan/Guccini, con la struttura tipica della ballata folk ed un’armonica a punteggiare. “Ti Ho Vista” è cantautorato lo-fi rarefatto di oggi, notevole.
134. Ash “1977” 1996. (cd usato, Infectious, € 6.00).
Stare dietro ai fenomeni che settimanalmente la stampa inglese ci propina come salvatori del rock, del pop o delle nostre vite è compito arduo e fondamentalmente ingrato. Il sottoscritto c’è riuscito soltanto -come molti altri, immagino- durante e subito dopo più o meno brevi soggiorni in Gran Bretagna. Se sei lì, leggi e compri subito quello che trovi. E per le prime due settimane in Italia sei un gallo.
A me è l’ultima volta è successo con gli Ash (manco da un bel po’, vero?), dopo l’exploit congiunto Charlatans/Manic Street Preachers dei quali ancora conservo gelosamente i primi 12”. Proprio in quella primavera del 1996, durante due settimane come au pair in una famiglia del Cambridgeshire (due settimane? Sì, due settimane soltanto. Ha a che fare con la persona priva di senso dell’umorismo di cui si diceva tempo fa parlando dei Walkabouts), scoprii l’allora trio nordirlandese e accattai tutto il possibile nelle mie sporadiche puntate verso la vicina città di Peterborough. Di loro si parlava come giovani, drogati e sensazionali. Appurate come vere le prime due, ebbi da subito dei dubbi sulla terza definizione, ma il cd singolo di “Goldfinger” non era male, e la cover di “Get Ready” di Smokey Robinson era ben riuscita. Il pezzo che però mi conquistò stava su una cassettina allegata a “Sounds” o roba del genere (cassettina che tra l’altro vorrei ritrovare…), e si chiamava “Kung Fu”. Era pop-punk del migliore, e lo è tuttora.
Molta strada hanno fatto gli Ash da questo album d’esordio. Intanto, sono ancora qua, e non capita a tutti. Hanno il loro video su MTV, vivono da rockstar di secondo piano senza infamia né lode, fanno un disco ogni tanto e va bene così.
Manca la freschezza ancora rintracciabile su “1977”, ma già allora pericolosamente incline a farsi patinare e a rendere il punk-pop e le ballate grungiste dei tre di Belfast più “finto” di quanto avremmo voluto. Perché il songwriting, tranne qualche riempitivo (ma come ha fatto “Angel Interceptor” a diventare un singolo?) funziona: “Kung Fu” su tutte, ma anche “Girl From Mars”, “Goldfinger” e “Oh Yeah”.
131. Isaac Hayes “The Isaac Hayes Movement” 1970. (cd usato, Stax, € 5.00).
Avviso ai naviganti: questo non è l’Ike delle colonne sonore blaxploitation, del private dick John Shaft e dei wah-wah dappertutto. L’Isaac Hayes solista vero e proprio è un raffinato e sensuale crooner, che senza preoccupazioni commerciali (soltanto quattro pezzi molto lunghi qui, idem nel capolavoro gemello “Hot Buttered Soul”) getta le basi per molta della musica nera (e non solo) a venire.
Due i brani portanti: la toccante versione di “I Stand Accused” di Jerry Butler, undici minuti e trentasette di soul blues ora recitato e ora sostenuto da cori femminili, e la conclusiva splendida “Something”, la più celebre ballata firmata da George Harrison per i Beatles, dilatata a undici minuti e quarantacinque. In mezzo, le forme più pop di “One Big Unhappy Family” e del classico Bacharach “I Just Don’t Know What To Do With Myself”. Vocione da brividi, arrangiamenti perfetti.
Avviso ai naviganti: questo non è l’Ike delle colonne sonore blaxploitation, del private dick John Shaft e dei wah-wah dappertutto. L’Isaac Hayes solista vero e proprio è un raffinato e sensuale crooner, che senza preoccupazioni commerciali (soltanto quattro pezzi molto lunghi qui, idem nel capolavoro gemello “Hot Buttered Soul”) getta le basi per molta della musica nera (e non solo) a venire.
Due i brani portanti: la toccante versione di “I Stand Accused” di Jerry Butler, undici minuti e trentasette di soul blues ora recitato e ora sostenuto da cori femminili, e la conclusiva splendida “Something”, la più celebre ballata firmata da George Harrison per i Beatles, dilatata a undici minuti e quarantacinque. In mezzo, le forme più pop di “One Big Unhappy Family” e del classico Bacharach “I Just Don’t Know What To Do With Myself”. Vocione da brividi, arrangiamenti perfetti.
27/12/02
130. The Temptations “Cloud Nine”/”Puzzle People” 1969/1969. (cd usato, Tamla Motown, € 6.00).
Già magnificati a dovere qualche mese fa (vedi archivio di settembre) per una esaustiva ed economicissima raccolta ed un intero album originale, ecco di nuovo i Temptations con quello che della loro produzione funk è forse l’album simbolo. “Cloud Nine” è puro godimento, con armonie vocali appunto da settimo cielo e il duo compositivo Whitfield/Strong a vergare gemme assolute quali la title-track o “Runaway Child, Running Wild”. La cover di “I Heard It Through The Grapevine” non è all’altezza di quella memorabile dei Creedence, ma è sempre un piacere da ascoltare.
Più sottovalutato, ma impostato sullo stesso canovaccio (funk potente alternato a soul), il seguente “Puzzle People”. Sono forse “I Can’t Get Next To You”, “Don’t Let The Joneses Get You Down” e i sei minuti di “Message From A Black Man” da meno? E i sette di “Slave” allora? Ecco da dove viene la memorabile versione che ne realizzò Derrick Harriott in Jamaica, cristo, uno dei miei pezzi preferiti! Pensavo fosse farina del sacco di Harriott -che peraltro la sottopone ad un trattamento dub-dance tribale da antologia- e invece risale ai Temptations… avrei potuto immaginarlo.
Due grandi album insomma. Su un solo cd, edito nel 1986, purtroppo privo di note se non quelle essenziali.
Già magnificati a dovere qualche mese fa (vedi archivio di settembre) per una esaustiva ed economicissima raccolta ed un intero album originale, ecco di nuovo i Temptations con quello che della loro produzione funk è forse l’album simbolo. “Cloud Nine” è puro godimento, con armonie vocali appunto da settimo cielo e il duo compositivo Whitfield/Strong a vergare gemme assolute quali la title-track o “Runaway Child, Running Wild”. La cover di “I Heard It Through The Grapevine” non è all’altezza di quella memorabile dei Creedence, ma è sempre un piacere da ascoltare.
Più sottovalutato, ma impostato sullo stesso canovaccio (funk potente alternato a soul), il seguente “Puzzle People”. Sono forse “I Can’t Get Next To You”, “Don’t Let The Joneses Get You Down” e i sei minuti di “Message From A Black Man” da meno? E i sette di “Slave” allora? Ecco da dove viene la memorabile versione che ne realizzò Derrick Harriott in Jamaica, cristo, uno dei miei pezzi preferiti! Pensavo fosse farina del sacco di Harriott -che peraltro la sottopone ad un trattamento dub-dance tribale da antologia- e invece risale ai Temptations… avrei potuto immaginarlo.
Due grandi album insomma. Su un solo cd, edito nel 1986, purtroppo privo di note se non quelle essenziali.
129. Damien Jurado “Four Songs” 2002. (12” nuovo, Burnt Toast Vinyl, € 8.00).
Per me, fondamentalista cristiano o meno, Damien Jurado sarà sempre la firma sotto il meraviglioso “Rehearsals For Departure” (Sub Pop, 1999): canzoni come “Letters And Drawings”, “Ohio”, “Tornado”, “Love The Same” e “Honey Baby” fanno ormai parte del mio corredo genetico, ed il solo nominarle provoca in me un certo struggimento. Già è bello leggere una recensione del disco e di un concerto del suo autore, uscire con la ferma determinazione di comprarlo usato ed effettivamente trovarlo usato. Se poi il disco è bello pure lui, allora è il massimo. Se poi lo si ascolta in cuffia seduti su un Greyhound che ci riporta a casa (scusate la banalità, ma davvero così è successo), allora è davvero un cerchio che si chiude. Ecco, se quello di quella mattina sull’autobus che da Richmond andava a Baltimore fosse stato l’unico mio ascolto di “Rehearsals For Departure”, mi ricorderei tutte le canzoni ugualmente. E se anche quell’album fosse la sua unica testimonianza, Damien Jurado starebbe ugualmente ai primi posti tra i miei cantautori del cuore.
Registrate nelle stesse sessions dell’ultimo “I Break Chaits”, queste “Four Songs” vedono la luce in curiosa veste vinilica. Da un lato la musica. Dall’altro, incise sul vinile, una illustrazione di Jeremy Dybash ed una storia breve di Adam Voith.
La musica, dicevamo. “Spitting Teeth” e “How I Broke My Legs” (allegria!) sono tutte e due interamente acustiche, la voce così particolare e fragile di Damien in primissimo piano. “The Killer” aumenta il ritmo ed aggiunge una band alla tipica melodia alla Jurado, quindi malinconica e forte. “Flowers In the Yard” chiude nuovamente soffusa, fino al solco incantato finale.
Non fondamentale, ma se amate Damien dovete sbattervi per cercarlo.
Per me, fondamentalista cristiano o meno, Damien Jurado sarà sempre la firma sotto il meraviglioso “Rehearsals For Departure” (Sub Pop, 1999): canzoni come “Letters And Drawings”, “Ohio”, “Tornado”, “Love The Same” e “Honey Baby” fanno ormai parte del mio corredo genetico, ed il solo nominarle provoca in me un certo struggimento. Già è bello leggere una recensione del disco e di un concerto del suo autore, uscire con la ferma determinazione di comprarlo usato ed effettivamente trovarlo usato. Se poi il disco è bello pure lui, allora è il massimo. Se poi lo si ascolta in cuffia seduti su un Greyhound che ci riporta a casa (scusate la banalità, ma davvero così è successo), allora è davvero un cerchio che si chiude. Ecco, se quello di quella mattina sull’autobus che da Richmond andava a Baltimore fosse stato l’unico mio ascolto di “Rehearsals For Departure”, mi ricorderei tutte le canzoni ugualmente. E se anche quell’album fosse la sua unica testimonianza, Damien Jurado starebbe ugualmente ai primi posti tra i miei cantautori del cuore.
Registrate nelle stesse sessions dell’ultimo “I Break Chaits”, queste “Four Songs” vedono la luce in curiosa veste vinilica. Da un lato la musica. Dall’altro, incise sul vinile, una illustrazione di Jeremy Dybash ed una storia breve di Adam Voith.
La musica, dicevamo. “Spitting Teeth” e “How I Broke My Legs” (allegria!) sono tutte e due interamente acustiche, la voce così particolare e fragile di Damien in primissimo piano. “The Killer” aumenta il ritmo ed aggiunge una band alla tipica melodia alla Jurado, quindi malinconica e forte. “Flowers In the Yard” chiude nuovamente soffusa, fino al solco incantato finale.
Non fondamentale, ma se amate Damien dovete sbattervi per cercarlo.
128. Charles Wright And The Watts 103rd Street Rhythm Band “Express Yourself: The Best Of” 1993. (cd usato, Warner, € 10.00).
”Come band che seppe trovare un terreno comune tra Otis Redding e James Brown -e forse bisognerebbe aggiungere anche Sly And The Family Stone- Wright e soci sono stati una delle più importanti ed influenti band del loro tempo”.
Basterebbe l’incipit delle note di retro copertina, confermato non appena il disco parte: il soul dei ’60 cede gradualmente il passo al funk duro dei ’70 nel suono di questi otto losangeleni, che della loro terra riportarono fedelmente la languida vibrazione festaiola in una manciata di album usciti a cavallo dei due decenni.
Il brano che intitola la raccolta fu ripreso dagli NWA pari pari, le seguenti “Till You Get Enough” e “The Joker (On A Trip Thru The Jungle)” puzzano di Meters e di New Orleans, così come la minimale e incalzante “Do Your Thing” e la torrida e visionaria “Ninety Day Cycle People”. E via di seguito.
Ma non fa fatica ad emergere un’anima soul-pop degna della grande scuola Stax, ed una confidenza sorprendente nei musicisti impegnati. Gran parte dei pezzi nasce infatti da lunghe jam sessions di studio, o da altrettanto lunghe versioni live di brani già compiuti. Il feeling è quello inimitabile di un periodo fertilissimo e di una comunità, egualmente a suo agio con temi pacifisti di stampo hippie e consapevolezza nera (l’area di Watts, per chi non lo sapesse, fu teatro nel 1965 di violenti scontri causati dall’intervento brutale di alcuni poliziotti in un quartiere afroamericano), ma anche party interminabili e sensualità a go-go.
La raccolta è definitiva, comprende tre inediti e un booklet esauriente ed è consigliatissima.
”Come band che seppe trovare un terreno comune tra Otis Redding e James Brown -e forse bisognerebbe aggiungere anche Sly And The Family Stone- Wright e soci sono stati una delle più importanti ed influenti band del loro tempo”.
Basterebbe l’incipit delle note di retro copertina, confermato non appena il disco parte: il soul dei ’60 cede gradualmente il passo al funk duro dei ’70 nel suono di questi otto losangeleni, che della loro terra riportarono fedelmente la languida vibrazione festaiola in una manciata di album usciti a cavallo dei due decenni.
Il brano che intitola la raccolta fu ripreso dagli NWA pari pari, le seguenti “Till You Get Enough” e “The Joker (On A Trip Thru The Jungle)” puzzano di Meters e di New Orleans, così come la minimale e incalzante “Do Your Thing” e la torrida e visionaria “Ninety Day Cycle People”. E via di seguito.
Ma non fa fatica ad emergere un’anima soul-pop degna della grande scuola Stax, ed una confidenza sorprendente nei musicisti impegnati. Gran parte dei pezzi nasce infatti da lunghe jam sessions di studio, o da altrettanto lunghe versioni live di brani già compiuti. Il feeling è quello inimitabile di un periodo fertilissimo e di una comunità, egualmente a suo agio con temi pacifisti di stampo hippie e consapevolezza nera (l’area di Watts, per chi non lo sapesse, fu teatro nel 1965 di violenti scontri causati dall’intervento brutale di alcuni poliziotti in un quartiere afroamericano), ma anche party interminabili e sensualità a go-go.
La raccolta è definitiva, comprende tre inediti e un booklet esauriente ed è consigliatissima.
23/12/02
20/12/02
127. Jacob Miller “With The Inner Circle Band & Augustus Pablo” 1992. (cd usato, Lagoon, € 10.00).
Eccola qua: l’esempio principe della ristampa reggae come non va fatta (l’hanno fatta dei francesi, sarà un caso?). La copertina è bella, bisogna ammetterlo. Jacob ha un trippone che sembra me, ma la copertina è bella. Già dal retro, però, le cose cambiano. Squallido e senza nessun progetto grafico. Nel 1992 per la Lagoon contava la musica, certo (e il loro catalgo parla chiaro). Conta ancora oggi ed è grande musica. Ma prima sembra venire l’improvvisazione: proprio perché la musica conta così tanto, diamole il giusto risalto e mettiamola in condizione di rendere al massimo. O no?
Le note interne sono scandalose per approssimazione e fretta. E forse pure inesatte: potrei sbagliarmi, ma Jacob Miller e gli Inner Circle su Trojan all’inizio dei ’70 con violini e steel guitars a fare cover Motown proprio non mi risultano. Tanto più se subito dopo mi dici che i brani della presente raccolta sono tratti da quel periodo, ma di violini, steel guitars e cover Motown non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono però grandi interpretazioni di classici di Bob Marley, Junior Byles, Dennis Brown e Johnny Clarke, ci sono successi dello stesso Miller e dub del sommo Pablo (sotto l’egida del quale jacob ha detto le sue cose migliori nell’album “Who Say Jah No Dread”).
Per chi non conoscesse il personaggio, sappiate che a metà settanta rivaleggiava con Bob Marley in quanto a popolarità sull’isola, e che la sua voce è un marchio di fabbrica. Come recita il titolo di un altro suo grande album, Killer Miller!
Eccola qua: l’esempio principe della ristampa reggae come non va fatta (l’hanno fatta dei francesi, sarà un caso?). La copertina è bella, bisogna ammetterlo. Jacob ha un trippone che sembra me, ma la copertina è bella. Già dal retro, però, le cose cambiano. Squallido e senza nessun progetto grafico. Nel 1992 per la Lagoon contava la musica, certo (e il loro catalgo parla chiaro). Conta ancora oggi ed è grande musica. Ma prima sembra venire l’improvvisazione: proprio perché la musica conta così tanto, diamole il giusto risalto e mettiamola in condizione di rendere al massimo. O no?
Le note interne sono scandalose per approssimazione e fretta. E forse pure inesatte: potrei sbagliarmi, ma Jacob Miller e gli Inner Circle su Trojan all’inizio dei ’70 con violini e steel guitars a fare cover Motown proprio non mi risultano. Tanto più se subito dopo mi dici che i brani della presente raccolta sono tratti da quel periodo, ma di violini, steel guitars e cover Motown non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono però grandi interpretazioni di classici di Bob Marley, Junior Byles, Dennis Brown e Johnny Clarke, ci sono successi dello stesso Miller e dub del sommo Pablo (sotto l’egida del quale jacob ha detto le sue cose migliori nell’album “Who Say Jah No Dread”).
Per chi non conoscesse il personaggio, sappiate che a metà settanta rivaleggiava con Bob Marley in quanto a popolarità sull’isola, e che la sua voce è un marchio di fabbrica. Come recita il titolo di un altro suo grande album, Killer Miller!
Non esattamente la colonna sonora ideale per una rissa tra pusher a colpi di bottiglie rotte proprio qua sotto la mia finestra, nè dal punto di vista della musica nè da quello del titolo. L'opposto della purezza che questo disco emana.
126. David Axelrod “Song Of Innocence” 1968. (cd usato, EMI, € 9.00).
Dopo essermi esaltato per il suo omonimo ritorno sulle scene dell’anno scorso (vedi archivio di luglio), patrocinato da DJ Shadow, scovo uno degli album che del losangeleno dai capelli bianchi hanno contribuito a creare la leggenda. E a ragione, direi.
Ispirato al lavoro del poeta William Blake, “Song Of Innocence” è il primo album a lui intestato dopo gli exploit come produttore e arrangiatore (Cannonball Adderley, Lou Rawls, Electric Prunes). Solo ventisette minuti e poco più, ma perché la scarsa durata deve essere un limite per un disco così bello? Prendete l’iniziale “Urizen”, che si sviluppa su una classica orchestrazione solare e perfetta tipicamente Axelrod e nel bel mezzo tira fuori un groove potentissimo degno del migliore Herbie Hancock e poi ritorna al tema iniziale tra strati di archi cinematicissimi. E il resto continua su questo tenore. Che uomo.
126. David Axelrod “Song Of Innocence” 1968. (cd usato, EMI, € 9.00).
Dopo essermi esaltato per il suo omonimo ritorno sulle scene dell’anno scorso (vedi archivio di luglio), patrocinato da DJ Shadow, scovo uno degli album che del losangeleno dai capelli bianchi hanno contribuito a creare la leggenda. E a ragione, direi.
Ispirato al lavoro del poeta William Blake, “Song Of Innocence” è il primo album a lui intestato dopo gli exploit come produttore e arrangiatore (Cannonball Adderley, Lou Rawls, Electric Prunes). Solo ventisette minuti e poco più, ma perché la scarsa durata deve essere un limite per un disco così bello? Prendete l’iniziale “Urizen”, che si sviluppa su una classica orchestrazione solare e perfetta tipicamente Axelrod e nel bel mezzo tira fuori un groove potentissimo degno del migliore Herbie Hancock e poi ritorna al tema iniziale tra strati di archi cinematicissimi. E il resto continua su questo tenore. Che uomo.
17/12/02
123. Wire “154” 1979. (cd nuovo, Emi/Harvest, €11.83).
Attenzione attenzione, eresia in arrivo: a me questo terzo album dei Wire non è mica piaciuto. Dirò di più: stavo per toglierlo dal lettore prima della fine (e effettivamene lo ho fatto, ma perché dovevo uscire). “Pink Flag” mi è piaciuto, “Chairs Missing” pure, ma questo proprio no. Facciamo così, lo riascolto con più calma e ne riparliamo nel 2003, ok?
124. Detroit Cobras “Life, Love And Leaving“ 2001. (cd nuovo, Sympathy For The Record Industry, € 20.00).
Vi sono piaciuti (come logica vorrebbe se non siete dei cadaveri) Come Ons, Now Time Delegation e Bellrays? Bene, i Detroit Cobras completeranno il vostro poker. Suonano solo cover, ma non sono una cover-band. Banalità? Ascoltateli, e vi pentirete di averlo pensato anche solo per un istante. I Detroit Cobras sono grandi.
Suonano standard più o meno popolari di rhytm’n’blues, soul e rock’n’roll rivisti con una carica ed una sincerità commoventi. Rachel Nagy canta divinamente ed umanamente, mentre dietro di lei il resto di Cobra girano a mille tra slow vibranti ed assalti di energia pura. Non serve dire altro, se non ancora grazie Blatter.
125. Panthers “Are You Down??” 2002. (lp nuovo, Troubleman Unlimited, € 11.00).
Potrebbe essere un capolavoro che illumina la via verso il futuro, come potrebbe avere ragione Pitchfork. Ci ho provato, e temo di dover propendere per la seconda ipotesi. Forse un concerto dei Panthers potrebbe essere la rivoluzione fatta party. Il disco no. Nulla da aggiungere. Ah, sì: è in vendita.
Attenzione attenzione, eresia in arrivo: a me questo terzo album dei Wire non è mica piaciuto. Dirò di più: stavo per toglierlo dal lettore prima della fine (e effettivamene lo ho fatto, ma perché dovevo uscire). “Pink Flag” mi è piaciuto, “Chairs Missing” pure, ma questo proprio no. Facciamo così, lo riascolto con più calma e ne riparliamo nel 2003, ok?
124. Detroit Cobras “Life, Love And Leaving“ 2001. (cd nuovo, Sympathy For The Record Industry, € 20.00).
Vi sono piaciuti (come logica vorrebbe se non siete dei cadaveri) Come Ons, Now Time Delegation e Bellrays? Bene, i Detroit Cobras completeranno il vostro poker. Suonano solo cover, ma non sono una cover-band. Banalità? Ascoltateli, e vi pentirete di averlo pensato anche solo per un istante. I Detroit Cobras sono grandi.
Suonano standard più o meno popolari di rhytm’n’blues, soul e rock’n’roll rivisti con una carica ed una sincerità commoventi. Rachel Nagy canta divinamente ed umanamente, mentre dietro di lei il resto di Cobra girano a mille tra slow vibranti ed assalti di energia pura. Non serve dire altro, se non ancora grazie Blatter.
125. Panthers “Are You Down??” 2002. (lp nuovo, Troubleman Unlimited, € 11.00).
Potrebbe essere un capolavoro che illumina la via verso il futuro, come potrebbe avere ragione Pitchfork. Ci ho provato, e temo di dover propendere per la seconda ipotesi. Forse un concerto dei Panthers potrebbe essere la rivoluzione fatta party. Il disco no. Nulla da aggiungere. Ah, sì: è in vendita.
15/12/02
122. The Walkabouts “Rag & Bone/Cataract” 1989. (cd nuovo, Glitterhouse, €14.93).
Immaginatevi l’epoca: Sub Pop sfonda in tutto il mondo grazie a quello che verrà chiamato grunge e a gruppi di capelloni indemoniati come Nirvana, Mudhoney, Tad. Ma nel catalogo della più celebre etichetta di seattle spunta un quintetto che a molti sembra fuori posto: sembrano quasi dei fricchettoni. Non degli hippies, proprio dei fricchettoni moderni di ambientazione campagnola, uno con i dreadlocks, una con il vestitone largo, potrebbero essere clienti del negozio dove lavoro, gente ammirevole che si fa il pane in casa, che compra il riso integrale in sacchi da 25 kili. Gente pacifica e serena, altro che Mark Arm.
Con gli sturmenti in mano, incantano. Immaginate il folk-rock dei Fairport Convention trasfigurato da un approccio rock indipendente, quasi punk, con strumenti elettrici ed acustici che creano insieme atmosfere assolutamente ammalianti ed evocative, alimentate da un’inquietudine sotterranea e guidate dalle voci ormai caposcuola di Carla Torgerson e Chris Eckman.
“Cataract”, secondo album, è il loro debutto su Sub Pop, ed è un colpo al cuore. Erano anni che non lo riascoltavo, e cristo se me le sono cantate tutte. Una più bella dell’altra. “Rag & Bone” è il mini lp che seguì di pochi mesi, sei pezzi altrettanto belli.
Entrambi stanno su questo cd. Sono i primi Walkabouts, quelli che regaleranno altri gioielli con i seguenti “Scavenger”, “New West Motel” e “Setting The Woods On Fire”, prima di pacificarsi e cercare nuove strade. Sono un gruppo eccezionale al massimo della loro forma.
Non vi basta? Sappiate che ai Walkabouts di questi dischi, e in particolare ad un loro ipotetico ascolto in auto guidando con i finestrini aperti nelle notti estive della pedemontana, chi scrive ha persino dedicato un paio di righe in una di quelle… ehm… poesie… che a una certa età tutti scrivono per un motivo o per l’altro. Nel mio caso, per una persona poi rivelatasi pressochè priva di senso dell’umorismo. Ditemi voi se c’è di peggio. Comprate questo disco.
Immaginatevi l’epoca: Sub Pop sfonda in tutto il mondo grazie a quello che verrà chiamato grunge e a gruppi di capelloni indemoniati come Nirvana, Mudhoney, Tad. Ma nel catalogo della più celebre etichetta di seattle spunta un quintetto che a molti sembra fuori posto: sembrano quasi dei fricchettoni. Non degli hippies, proprio dei fricchettoni moderni di ambientazione campagnola, uno con i dreadlocks, una con il vestitone largo, potrebbero essere clienti del negozio dove lavoro, gente ammirevole che si fa il pane in casa, che compra il riso integrale in sacchi da 25 kili. Gente pacifica e serena, altro che Mark Arm.
Con gli sturmenti in mano, incantano. Immaginate il folk-rock dei Fairport Convention trasfigurato da un approccio rock indipendente, quasi punk, con strumenti elettrici ed acustici che creano insieme atmosfere assolutamente ammalianti ed evocative, alimentate da un’inquietudine sotterranea e guidate dalle voci ormai caposcuola di Carla Torgerson e Chris Eckman.
“Cataract”, secondo album, è il loro debutto su Sub Pop, ed è un colpo al cuore. Erano anni che non lo riascoltavo, e cristo se me le sono cantate tutte. Una più bella dell’altra. “Rag & Bone” è il mini lp che seguì di pochi mesi, sei pezzi altrettanto belli.
Entrambi stanno su questo cd. Sono i primi Walkabouts, quelli che regaleranno altri gioielli con i seguenti “Scavenger”, “New West Motel” e “Setting The Woods On Fire”, prima di pacificarsi e cercare nuove strade. Sono un gruppo eccezionale al massimo della loro forma.
Non vi basta? Sappiate che ai Walkabouts di questi dischi, e in particolare ad un loro ipotetico ascolto in auto guidando con i finestrini aperti nelle notti estive della pedemontana, chi scrive ha persino dedicato un paio di righe in una di quelle… ehm… poesie… che a una certa età tutti scrivono per un motivo o per l’altro. Nel mio caso, per una persona poi rivelatasi pressochè priva di senso dell’umorismo. Ditemi voi se c’è di peggio. Comprate questo disco.
121. Stiff Little Fingers “Nobody’s Heroes” 1980. (cd nuovo, EMI, € 10.78).
Venire dopo “Inflammable Material” (vedi archivio di luglio) è compito ingrato. Ma gli Stiff Little Fingers riescono a cavarsela con un album che del suo illustrissimo predecessore può essere considerato la versione più abbordabile e matura.
Mancano infatti l’effetto sorpresa, la rabbia che straborda da ogni solco, la spontaneità incoercibile e sgraziata di “Inflammable Material”, e non è certo cosa da poco. Ma non tutto il male viene per nuocere: il suono è infatti più pieno e focalizzato, e la penna dei quattro ha ancora in serbo un bel po’ di classici solo leggermente più melodici dei precedenti. “At The Edge” è il loro singolo più famoso (roba da classifica e “Top Of The Pops”), ma tutto il primo lato viaggia che è un piacere, e sotto certi aspetti pone le basi per il pop-punk da venire: “Gotta Getaway”, “Wait And See”, “Fly The Flag” e la title-track sono inni che anche dal vivo trascinano le folle.
Comincia all’insegna dei ritmi jamaicani il lato b, con la strumentale “Bloody Dub” (versione appunto dub di una b-side) e l’altra celebre cover dei quattro di Belfast. Dopo Bob Marley e “Johnny Was” sul primo album, ecco i contemporanei Specials e “Doesn’t Make It Alright”. Meraviglia. “I Don’t Like You” e “No Change” (scritta e cantata dal chitarrista Henry Cluney) aggiungono poco, “Tin Soldiers” chiude epica.
Anche in questa ristampa, un po’ di inediti: “Bloody Sunday” innanzitutto, la b-side di cui sopra. “Straw Dogs”, il primo singolo consegnato per onorare il nuovo contratto major, roba pensata invendibile e invece finita al numero 44 delle classifiche. “You Can’t Say Crap On The Radio”, polemica come il titolo lascia intendere. Infine, la seconda parte dell’intervista a Jake Burns cominciata nella ristampa di “Inflammable Material”.
Venire dopo “Inflammable Material” (vedi archivio di luglio) è compito ingrato. Ma gli Stiff Little Fingers riescono a cavarsela con un album che del suo illustrissimo predecessore può essere considerato la versione più abbordabile e matura.
Mancano infatti l’effetto sorpresa, la rabbia che straborda da ogni solco, la spontaneità incoercibile e sgraziata di “Inflammable Material”, e non è certo cosa da poco. Ma non tutto il male viene per nuocere: il suono è infatti più pieno e focalizzato, e la penna dei quattro ha ancora in serbo un bel po’ di classici solo leggermente più melodici dei precedenti. “At The Edge” è il loro singolo più famoso (roba da classifica e “Top Of The Pops”), ma tutto il primo lato viaggia che è un piacere, e sotto certi aspetti pone le basi per il pop-punk da venire: “Gotta Getaway”, “Wait And See”, “Fly The Flag” e la title-track sono inni che anche dal vivo trascinano le folle.
Comincia all’insegna dei ritmi jamaicani il lato b, con la strumentale “Bloody Dub” (versione appunto dub di una b-side) e l’altra celebre cover dei quattro di Belfast. Dopo Bob Marley e “Johnny Was” sul primo album, ecco i contemporanei Specials e “Doesn’t Make It Alright”. Meraviglia. “I Don’t Like You” e “No Change” (scritta e cantata dal chitarrista Henry Cluney) aggiungono poco, “Tin Soldiers” chiude epica.
Anche in questa ristampa, un po’ di inediti: “Bloody Sunday” innanzitutto, la b-side di cui sopra. “Straw Dogs”, il primo singolo consegnato per onorare il nuovo contratto major, roba pensata invendibile e invece finita al numero 44 delle classifiche. “You Can’t Say Crap On The Radio”, polemica come il titolo lascia intendere. Infine, la seconda parte dell’intervista a Jake Burns cominciata nella ristampa di “Inflammable Material”.
120. VV.AA. “Voodoo Soul – Deep & Dirty New Orleans Funk” 2001. (cd nuovo, Union Square, 8.73).
Ha un suono unico, la musica prodotta a New Orleans. Un’unicità che ha radici nella particolare storia della città, nella sua multietnicità e più direttamente nelle parate funebri che nelle sue vie si svolgevano e (immagino) si svolgono. Un’unicità esplicita negli schemi percussivi dei batteristi: non sono un batterista e non ve lo saprei spiegare in nessun modo, ma è così.
Raccolta fondamentale per la conoscenza della materia è sicuramente “New Orleans Funk” della Soul Jazz (c’è anche un seguito, “Saturday Night Fish Fry”. Chi lo avesse è pregato di mettersi in contatto con il sottoscritto): confezione curatissima e musica sopraffina a cura di Meters, fratelli Neville vari, Allen Toussaint, Dr. John, Eddie Bo, Robert Parker, Lee Dorsey e via così.
Questa compilation economica della già lodata Union Square non ha, per evidenti motivi di budget, la lussuosa presentazione tipica della Soul Jazz, e anche le note sono per forza di cose un po’ stringate, ma è molto ben fatta ugualmente. E la musica, quella sta ai livelli di sempre.
Aprono i Meters, vera band di casa, maestri indiscussi del funk più scarnificato ed originale, influenza tuttora riscontrabile qua e là e alle radici persino dell’evoluzione del reggae/dub. La loro “Cissy Strut” è storia, e basta. “Here Comes The Metermen” e “Ease Back” sono meno celebri, ma il sound è sempre quello.
Per “Everything I Do Gohn Be Funky” di Lee Dorsey basterebbe il titolo, o quella citazione/tributo dei Beastie Boys in un loro testo. Poggia su un groove di chitarra acustica ed è memorabile. Robert Parker scrive una delle sue pagine più funk con “Get Ta Steppin’”, mentre Allen Toussaint presta il suo tipico stile pianistico a “Louie” e Eddie Bo dal canto suo chiude con “We’re Doing It (Thang)” all’insegna del sudore.
Ma al solito, anche i meno noti dicono la loro: “Fairchild” di Willie West è puro Meters-sound ridotto all’osso e interpretato con splendida verve soul; Skip Easterling offre una lettura personale del classico “I’m Your Hoochie Coochie Man”; “Brother Man, Sister Ann” di Clemon Smith, “Sissy Walk” di Sonny Jones e “Soul Junction” dei Backyard Heavies sono puro rare groove da manuale del funk.
Altrettanto al solito, le signorine dicono la loro altrettanto chiaramente: Betty Harris in “Ride Your Pony” e la scatenata Inez Cheatham spalleggiata da Eddie Bo in “A Lover & A Friend” valgono da sole l’acquisto. Ora, trovatemi l’album di Mary Jane Hooper, per dio!
Ha un suono unico, la musica prodotta a New Orleans. Un’unicità che ha radici nella particolare storia della città, nella sua multietnicità e più direttamente nelle parate funebri che nelle sue vie si svolgevano e (immagino) si svolgono. Un’unicità esplicita negli schemi percussivi dei batteristi: non sono un batterista e non ve lo saprei spiegare in nessun modo, ma è così.
Raccolta fondamentale per la conoscenza della materia è sicuramente “New Orleans Funk” della Soul Jazz (c’è anche un seguito, “Saturday Night Fish Fry”. Chi lo avesse è pregato di mettersi in contatto con il sottoscritto): confezione curatissima e musica sopraffina a cura di Meters, fratelli Neville vari, Allen Toussaint, Dr. John, Eddie Bo, Robert Parker, Lee Dorsey e via così.
Questa compilation economica della già lodata Union Square non ha, per evidenti motivi di budget, la lussuosa presentazione tipica della Soul Jazz, e anche le note sono per forza di cose un po’ stringate, ma è molto ben fatta ugualmente. E la musica, quella sta ai livelli di sempre.
Aprono i Meters, vera band di casa, maestri indiscussi del funk più scarnificato ed originale, influenza tuttora riscontrabile qua e là e alle radici persino dell’evoluzione del reggae/dub. La loro “Cissy Strut” è storia, e basta. “Here Comes The Metermen” e “Ease Back” sono meno celebri, ma il sound è sempre quello.
Per “Everything I Do Gohn Be Funky” di Lee Dorsey basterebbe il titolo, o quella citazione/tributo dei Beastie Boys in un loro testo. Poggia su un groove di chitarra acustica ed è memorabile. Robert Parker scrive una delle sue pagine più funk con “Get Ta Steppin’”, mentre Allen Toussaint presta il suo tipico stile pianistico a “Louie” e Eddie Bo dal canto suo chiude con “We’re Doing It (Thang)” all’insegna del sudore.
Ma al solito, anche i meno noti dicono la loro: “Fairchild” di Willie West è puro Meters-sound ridotto all’osso e interpretato con splendida verve soul; Skip Easterling offre una lettura personale del classico “I’m Your Hoochie Coochie Man”; “Brother Man, Sister Ann” di Clemon Smith, “Sissy Walk” di Sonny Jones e “Soul Junction” dei Backyard Heavies sono puro rare groove da manuale del funk.
Altrettanto al solito, le signorine dicono la loro altrettanto chiaramente: Betty Harris in “Ride Your Pony” e la scatenata Inez Cheatham spalleggiata da Eddie Bo in “A Lover & A Friend” valgono da sole l’acquisto. Ora, trovatemi l’album di Mary Jane Hooper, per dio!
04/12/02
119. Creedence Clearwater Revival “Cosmo’s Factory” 1970. (cd nuovo, Fantasy, € 8.73).
La copertina più brutta della storia del rock, dischi brutti esclusi. Accetto altre nominations, ma sappiate che è dura: date un’occhiata qua, anche se piccola rende l’idea. Ma c’è un pezzo, in questo disco, che lo rende da solo memorabile, perché il pezzo in sé è memorabile. La madre di tutte le cover.
Se “I Heard It Through The Grapevine” era un capolavoro nelle mani di Marvin Gaye, in quelle di John Fogerty è pura dinamite. Stirata fino a durare undici minuti, attraversata da folate chitarristiche ma sempre capace di tornare all’andamento controllato della strofa e del suo immortale riff, mentre la sezione ritmica continua imperterrita a scandire il tempo. Da brividi.
Se poi aggiungete i sette minuti in apertura di “Ramble Tamble” con quel break centrale semplicemente geniale, il classico voodoo “Run Through The Jungle”, l’ulteriore omaggio alla leggenda del rock’n’roll (“Before You Accuse Me” di Bo Diddley e “My Baby Left Me” di Arthur Crudup), le ballata a sei stelle “Who’ll Stop The Rain” e “Long As I Can See The Light” e “Travelin’ Band” tanto per gradire, beh, capirete di essere di fronte all’ennesimo exploit di una band capace di pubblicare in due anni quattro capolavori e un quinto album non all’altezza ma comunque valido. In due anni!!!
C’è qualcosa di rassicurante, nonostante le tematiche spesso scure, nei Creedence Clearwater Revival. Qualcosa che mi ha definitivamente rapito.
La copertina più brutta della storia del rock, dischi brutti esclusi. Accetto altre nominations, ma sappiate che è dura: date un’occhiata qua, anche se piccola rende l’idea. Ma c’è un pezzo, in questo disco, che lo rende da solo memorabile, perché il pezzo in sé è memorabile. La madre di tutte le cover.
Se “I Heard It Through The Grapevine” era un capolavoro nelle mani di Marvin Gaye, in quelle di John Fogerty è pura dinamite. Stirata fino a durare undici minuti, attraversata da folate chitarristiche ma sempre capace di tornare all’andamento controllato della strofa e del suo immortale riff, mentre la sezione ritmica continua imperterrita a scandire il tempo. Da brividi.
Se poi aggiungete i sette minuti in apertura di “Ramble Tamble” con quel break centrale semplicemente geniale, il classico voodoo “Run Through The Jungle”, l’ulteriore omaggio alla leggenda del rock’n’roll (“Before You Accuse Me” di Bo Diddley e “My Baby Left Me” di Arthur Crudup), le ballata a sei stelle “Who’ll Stop The Rain” e “Long As I Can See The Light” e “Travelin’ Band” tanto per gradire, beh, capirete di essere di fronte all’ennesimo exploit di una band capace di pubblicare in due anni quattro capolavori e un quinto album non all’altezza ma comunque valido. In due anni!!!
C’è qualcosa di rassicurante, nonostante le tematiche spesso scure, nei Creedence Clearwater Revival. Qualcosa che mi ha definitivamente rapito.
117. Delroy Wilson “Cool Operator” 1996. (cd nuovo, Music Club, € 8.73).
Citato insieme ad altri suoi pari in quel memorabile tributo che è “White Man In Hammersmith Palais” dei Clash, il cool operator Delroy Wilson è uno di quelli che hanno raccolto meno di quello che meritavano, prima di morire prematuramente nel 1995, a soli 46 anni, per alcolismo.
Bambino prodigio dello ska e del rocksteady sotto l’ala protettiva di Coxsone Dodd e della sua Studio One, fa comunella in tempi di reggae con Bunny Lee e sforna pietre miliari del calibro di “Better Must Come”, suo brano più celebre adottato come inno per la campagna elettorale del 1971 dal PNP di Michael Manley.
Da entrambi i periodi arrivano le chicche che rendono questa antologia a medio prezzo un ottimo punto di partenza: “Dancing Mood”, “Riding For A Fall”, “Trying To Conquer Me”, “Rain From The Skies” dal primo; “I’m Still Waiting”, “Here Comes The Heartaches”, la citata “Better Must Come e, appunto, “Cool Operator” dal secondo. Chiudono il conto un po’ di pezzi successivi, per una voce tra le più espressive e versatili nate dall’isola delle meraviglie, e forse una tra le meno jamaicane del lotto: potreste scambiarlo per un contemporaneo cantante soul americano, insomma.
118. Love “Forever Changes” 1967. (cd nuovo, Elektra, € 8.73).
Uno dei venti (dieci?) album fondamentali della storia del rock. Magnificamente bello, clamorosamente attuale. Fantastico. Questa volta davvero non devo dirvi altro. Uscite ORA e andate a comprarlo.
(Postilla: questa edizione rimasterizzata ed ampliata, con outtakes e libretto monumentale e a sacrosantissimo medio prezzo, sostituisce nella mia collezione quella semplice, finita quindi in vendita. Beh, venderla mi è costato. Cazzo se mi è costato. Quasi non volevo. Anzi, a ripensarci ho fatto una cazzata. Che male faranno mai due copie di “Forever Changes”? Ma soprattutto, perché due settimane dopo era ancora lì? Accetto solo una risposta: tutti hanno già questa edizione.)
Citato insieme ad altri suoi pari in quel memorabile tributo che è “White Man In Hammersmith Palais” dei Clash, il cool operator Delroy Wilson è uno di quelli che hanno raccolto meno di quello che meritavano, prima di morire prematuramente nel 1995, a soli 46 anni, per alcolismo.
Bambino prodigio dello ska e del rocksteady sotto l’ala protettiva di Coxsone Dodd e della sua Studio One, fa comunella in tempi di reggae con Bunny Lee e sforna pietre miliari del calibro di “Better Must Come”, suo brano più celebre adottato come inno per la campagna elettorale del 1971 dal PNP di Michael Manley.
Da entrambi i periodi arrivano le chicche che rendono questa antologia a medio prezzo un ottimo punto di partenza: “Dancing Mood”, “Riding For A Fall”, “Trying To Conquer Me”, “Rain From The Skies” dal primo; “I’m Still Waiting”, “Here Comes The Heartaches”, la citata “Better Must Come e, appunto, “Cool Operator” dal secondo. Chiudono il conto un po’ di pezzi successivi, per una voce tra le più espressive e versatili nate dall’isola delle meraviglie, e forse una tra le meno jamaicane del lotto: potreste scambiarlo per un contemporaneo cantante soul americano, insomma.
118. Love “Forever Changes” 1967. (cd nuovo, Elektra, € 8.73).
Uno dei venti (dieci?) album fondamentali della storia del rock. Magnificamente bello, clamorosamente attuale. Fantastico. Questa volta davvero non devo dirvi altro. Uscite ORA e andate a comprarlo.
(Postilla: questa edizione rimasterizzata ed ampliata, con outtakes e libretto monumentale e a sacrosantissimo medio prezzo, sostituisce nella mia collezione quella semplice, finita quindi in vendita. Beh, venderla mi è costato. Cazzo se mi è costato. Quasi non volevo. Anzi, a ripensarci ho fatto una cazzata. Che male faranno mai due copie di “Forever Changes”? Ma soprattutto, perché due settimane dopo era ancora lì? Accetto solo una risposta: tutti hanno già questa edizione.)
03/12/02
115. Joy Division “Substance” 1988. (cd usato, Factory, € 6.00).
Se cercate commossi ricordi di Ian Curtis non li troverete qui. Non ho vissuto i Joy Division da contemporaneo, non sono mai stato uno di quelli che solo qui in Italia si chiamavano dark e in tutto il resto del mondo goth. Vi dirò di più: leggendo la sua biografia (“Così Vicino, Così Lontano”, scritta da sua moglie Deborah, edizione Giunti) il tipo mi è stato discretamente sulle palle, e mi sono chiesto in che stato dovesse essere la gioventù di fine ’70 per farne un idolo di tali proporzioni. Cristo, basta veramente un suicidio?
Ho sempre ascoltato però con piacere i Joy Division, apprezzandone soprattuto il memorabile “Unknown Pleasures” e la sua carica punkeggiante. Ricordo di aver trovato piuttosto pesante “Closer”, che giace intonso nel mio scaffale da una decina di anni, ma probabilmente oggi, se solo avessi il tempo di riascoltarlo, potrebbe piacermi un sacco.
Questo “Substance”, sottotitolato anche “1977-1980”, è una compilation di singoli e b-sides per la maggior parte mai apparsi su album. Parte dagli scarni esordi dell’ep “An Ideal For Living” ed arriva alla celebratissima “Love Will Tear us Apart”, passando per “Transmission”, “Incubation”, “Dead Souls”, “Atmosphere”, “Komakino” e non solo. Singoli che hanno segnato un’epoca e quelle seguenti, densi di intuizioni attualissime. Alla fin fine la cosa che mi entusiasma di meno è la voce di Curtis, e se la aggiungiamo al mal di testa feroce che mi attanaglia da questo pomeriggio, all’anestesia del dentista che se ne sta andando e al freddo, signori è ora di cambiare disco.
116. Hot Snakes “Suicide Invoice” 2002. (cd nuovo, Swami, € 20.14).
Non commettiamo l’errore di considerarlo un semplice progetto parallelo. Lo è di nome, non di fatto. O se anche lo è stato, Suicide Invoice metterà John Reis di fronte alle proprie responsabilità.
Lider maximo dei Rocket From The Crypt, formava con il ritrovato Rick Froberg l’asse chitarre-voci dei seminali Drive Like Jehu, mentre il batterista Jason Kourkounis stava con Delta 72 e Mule. Ma potete scordarvene, perché questo è il miglior gruppo in cui tutti loro hanno suonato.
L’epifania è datata 2000, quando “Automatic Midnight” esplose nei nostri stereo totalmente inaspettato, puro istinto e futuro incerto. Suicide Invoice replica oggi con immutata energia e un concentrato di rock chitarristico a 24 carati: punk-rock, wave grezza, i Sonic Youth più garage, i Drive Like Jehu più diretti. Melodie melanconiche e voce strafottente, ritornelli come ganci da macellaio, attitudine a pacchi da dodici. È San Diego al massimo splendore, altro che progetto parallelo!
Se cercate commossi ricordi di Ian Curtis non li troverete qui. Non ho vissuto i Joy Division da contemporaneo, non sono mai stato uno di quelli che solo qui in Italia si chiamavano dark e in tutto il resto del mondo goth. Vi dirò di più: leggendo la sua biografia (“Così Vicino, Così Lontano”, scritta da sua moglie Deborah, edizione Giunti) il tipo mi è stato discretamente sulle palle, e mi sono chiesto in che stato dovesse essere la gioventù di fine ’70 per farne un idolo di tali proporzioni. Cristo, basta veramente un suicidio?
Ho sempre ascoltato però con piacere i Joy Division, apprezzandone soprattuto il memorabile “Unknown Pleasures” e la sua carica punkeggiante. Ricordo di aver trovato piuttosto pesante “Closer”, che giace intonso nel mio scaffale da una decina di anni, ma probabilmente oggi, se solo avessi il tempo di riascoltarlo, potrebbe piacermi un sacco.
Questo “Substance”, sottotitolato anche “1977-1980”, è una compilation di singoli e b-sides per la maggior parte mai apparsi su album. Parte dagli scarni esordi dell’ep “An Ideal For Living” ed arriva alla celebratissima “Love Will Tear us Apart”, passando per “Transmission”, “Incubation”, “Dead Souls”, “Atmosphere”, “Komakino” e non solo. Singoli che hanno segnato un’epoca e quelle seguenti, densi di intuizioni attualissime. Alla fin fine la cosa che mi entusiasma di meno è la voce di Curtis, e se la aggiungiamo al mal di testa feroce che mi attanaglia da questo pomeriggio, all’anestesia del dentista che se ne sta andando e al freddo, signori è ora di cambiare disco.
116. Hot Snakes “Suicide Invoice” 2002. (cd nuovo, Swami, € 20.14).
Non commettiamo l’errore di considerarlo un semplice progetto parallelo. Lo è di nome, non di fatto. O se anche lo è stato, Suicide Invoice metterà John Reis di fronte alle proprie responsabilità.
Lider maximo dei Rocket From The Crypt, formava con il ritrovato Rick Froberg l’asse chitarre-voci dei seminali Drive Like Jehu, mentre il batterista Jason Kourkounis stava con Delta 72 e Mule. Ma potete scordarvene, perché questo è il miglior gruppo in cui tutti loro hanno suonato.
L’epifania è datata 2000, quando “Automatic Midnight” esplose nei nostri stereo totalmente inaspettato, puro istinto e futuro incerto. Suicide Invoice replica oggi con immutata energia e un concentrato di rock chitarristico a 24 carati: punk-rock, wave grezza, i Sonic Youth più garage, i Drive Like Jehu più diretti. Melodie melanconiche e voce strafottente, ritornelli come ganci da macellaio, attitudine a pacchi da dodici. È San Diego al massimo splendore, altro che progetto parallelo!
25/11/02
114. Nico “Chelsea Girl” 1966. (cd usato, Polygram, € 10.00).
Questa, signori, è una mezza delusione. Mezza, perché in realtà un po’ avrei dovuto aspettarmelo. Adoro i Velvet Underground come ogni altro e più, ma non ho mai considerato Nico tutta questa benedizione scesa in terra. Che fosse un corpo estraneo al gruppo, una mossa del pigmalione Warhol, è evidente. Che non fosse la più grande cantante mai apparsa sulla faccia della terra, idem. Che non fosse nemmeno questa bellezza abbacinante, di nuovo idem (se il gusto non è un’opinione e le coppie non si formano per puro caso, il fatto che abbia avuto un figlio da Alain Delon dovrebbe dirla lunga).
Nei pezzi del disco con la banana dove canta, però, il gioco funzionava. Il suo impresentabile accento tedesco e la sua espressività monocorde si sposavano bene con l’inquietudine della banda Reed/Cale/Morrison/Tucker, sia nelle ballate tenui sia nelle litanie noise. E i pezzi, alla fin fine, erano solo tre. Senza i Velvet e quello che rappresentavano, restano l’impresentabile accento tedesco e l’espressività monocorde. Per questo esordio da solista scrivono per lei -e bene- autori come Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e un giovane Jackson Browne, si rileggono brani di Bob Dylan e Tim Hardin, le basi sono fatte di chitarre perlopiù acustiche e archi, ma quello che detto così suona affascinante spesso purtroppo non lo è. E gli otto minuti di “It Was A Pleasure Then”, sorta di nenia velvettiana con viola, più che rivoluzionari sembrano soltanto interminabili.
Ma come ho detto, non sono mai stato il primo fan della chanteuse tedesca. Se voi invece lo siete, “Chelsea Girl” vi piacerà assai.
Questa, signori, è una mezza delusione. Mezza, perché in realtà un po’ avrei dovuto aspettarmelo. Adoro i Velvet Underground come ogni altro e più, ma non ho mai considerato Nico tutta questa benedizione scesa in terra. Che fosse un corpo estraneo al gruppo, una mossa del pigmalione Warhol, è evidente. Che non fosse la più grande cantante mai apparsa sulla faccia della terra, idem. Che non fosse nemmeno questa bellezza abbacinante, di nuovo idem (se il gusto non è un’opinione e le coppie non si formano per puro caso, il fatto che abbia avuto un figlio da Alain Delon dovrebbe dirla lunga).
Nei pezzi del disco con la banana dove canta, però, il gioco funzionava. Il suo impresentabile accento tedesco e la sua espressività monocorde si sposavano bene con l’inquietudine della banda Reed/Cale/Morrison/Tucker, sia nelle ballate tenui sia nelle litanie noise. E i pezzi, alla fin fine, erano solo tre. Senza i Velvet e quello che rappresentavano, restano l’impresentabile accento tedesco e l’espressività monocorde. Per questo esordio da solista scrivono per lei -e bene- autori come Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e un giovane Jackson Browne, si rileggono brani di Bob Dylan e Tim Hardin, le basi sono fatte di chitarre perlopiù acustiche e archi, ma quello che detto così suona affascinante spesso purtroppo non lo è. E gli otto minuti di “It Was A Pleasure Then”, sorta di nenia velvettiana con viola, più che rivoluzionari sembrano soltanto interminabili.
Ma come ho detto, non sono mai stato il primo fan della chanteuse tedesca. Se voi invece lo siete, “Chelsea Girl” vi piacerà assai.
113. Black Uhuru “Sinsemilla” 1980. (cd usato, Island, € 10.00).
La rullata di batteria che da il là al disco non promette nulla di buono. Un amante dei suoni roots ’70 come me mal sopporta i suoni elettronici della prima ora, non me ne vogliano i califfi Sly & Robbie che qui suonano e producono il tutto. Ma i timori si dimostreranno infondati, ed il ritmo marziale di “Happiness” ne è la prova.
“Sinsemilla” inaugura una nuova stagione del reggae, che si affaccia al nuovo decennio con un nuovo suono urbano, ma egualmente militante e roots. L’incalzante “World Is Africa” vince definitivamente ogni resistenza, e da lì alla fine si gioca in discesa. Michael Rose, assistito a dovere dalle backing vocals di Derrick Simpson e dell’afroamericana Puma Jones, è una voce solista di quelle superiori. I brani si sciolgono spesso e volentieri in code dub che ne acuiscono il carattere serio e incompromissorio, le linee di basso sono maestose, la title-track è come prevedibile un inno. There is fire!
La rullata di batteria che da il là al disco non promette nulla di buono. Un amante dei suoni roots ’70 come me mal sopporta i suoni elettronici della prima ora, non me ne vogliano i califfi Sly & Robbie che qui suonano e producono il tutto. Ma i timori si dimostreranno infondati, ed il ritmo marziale di “Happiness” ne è la prova.
“Sinsemilla” inaugura una nuova stagione del reggae, che si affaccia al nuovo decennio con un nuovo suono urbano, ma egualmente militante e roots. L’incalzante “World Is Africa” vince definitivamente ogni resistenza, e da lì alla fine si gioca in discesa. Michael Rose, assistito a dovere dalle backing vocals di Derrick Simpson e dell’afroamericana Puma Jones, è una voce solista di quelle superiori. I brani si sciolgono spesso e volentieri in code dub che ne acuiscono il carattere serio e incompromissorio, le linee di basso sono maestose, la title-track è come prevedibile un inno. There is fire!
24/11/02
112. The Bellrays “Meet The Bellrays” 2002. (cd nuovo, Telstar/Poptones, € 13.00).
Per cosa è famosa, musicalmente parlando, la città di Detroit? Per l’hard-rock rivoluzionario di fine ‘60/inizio ’70 e per il soul. Ecco a voi i Bellrays, californiani di nascita ma detroitiani con lo spirito! Felicemente incensati dal fido Maurizio “Blatter” sulle colonne di una nota testata mensile come magica visione di Tina Turner con gli Stooges al posto di Ike e la sua band, i detroitiani Bellrays confermano quanto di mostruosamente eccitante promettevano, con impercettibile riserva.
I pezzi d’impronta più soul, come prevedibile, sono qualcosa di mostruoso: lei (Lisa Kekaula, anche voce nei Now Time Delegation) fa meraviglie, e i tre perdentoni dietro di lei contribuiscono a rendere “Fire On The Moon”, “Zero PM”, “Hole In The World”, “Killer Man”, “Blue Cirque“ e -va da sé- “Testify” dei classici (e occhio alla ghost track…). Di fronte a tanta grazia, finiscono per esaltare un pelino meno i brani dove a prevalere è invece l’impatto hard-rock-blues, ma stiamo comunque parlando di materiale rovente, fratelli e sorelle. Dove una voce nera che più nera non si può si scatena su un rock’n’soul al calor bianco (e se posso permettermi, più MC5 che Stooges). Ed è una riserva come detto impercettibile, che non deve scoraggiarvi per nulla al mondo nel cercare questo gruppo. Io intanto continuo a sognare un concerto con Bellrays, Detroit Cobras, Now Time Delegation e Come Ons insieme.
Per cosa è famosa, musicalmente parlando, la città di Detroit? Per l’hard-rock rivoluzionario di fine ‘60/inizio ’70 e per il soul. Ecco a voi i Bellrays, californiani di nascita ma detroitiani con lo spirito! Felicemente incensati dal fido Maurizio “Blatter” sulle colonne di una nota testata mensile come magica visione di Tina Turner con gli Stooges al posto di Ike e la sua band, i detroitiani Bellrays confermano quanto di mostruosamente eccitante promettevano, con impercettibile riserva.
I pezzi d’impronta più soul, come prevedibile, sono qualcosa di mostruoso: lei (Lisa Kekaula, anche voce nei Now Time Delegation) fa meraviglie, e i tre perdentoni dietro di lei contribuiscono a rendere “Fire On The Moon”, “Zero PM”, “Hole In The World”, “Killer Man”, “Blue Cirque“ e -va da sé- “Testify” dei classici (e occhio alla ghost track…). Di fronte a tanta grazia, finiscono per esaltare un pelino meno i brani dove a prevalere è invece l’impatto hard-rock-blues, ma stiamo comunque parlando di materiale rovente, fratelli e sorelle. Dove una voce nera che più nera non si può si scatena su un rock’n’soul al calor bianco (e se posso permettermi, più MC5 che Stooges). Ed è una riserva come detto impercettibile, che non deve scoraggiarvi per nulla al mondo nel cercare questo gruppo. Io intanto continuo a sognare un concerto con Bellrays, Detroit Cobras, Now Time Delegation e Come Ons insieme.
111. Dennis Brown “Some Like It Hot” 1992. (cd nuovo, Heartbeat, € 9.95).
Una maledizione perseguita una musica meravigliosa.
La maledizione delle ristampe reggae precedenti l’avvento (che non a caso ha raccolto successo a destra e a manca) di Blood & Fire e Pressure Sounds, capaci di restituire la dignità che merita ad un genere e ad un pozzo di materiale troppo a lungo trattato come fenomeno da cartolina o, al massimo, buono per fricchettoni di provincia col pallino della legalizzazione.
Materiale da sei stelle su cinque nascosto e mortificato in confezioni approssimative, dove il cantante è sempre fotografato ai giorni nostri, venti anni e venti chili in più e lo sguardo socchiuso di un pacifico cinquantenne in luogo del ventenne fiero e militante che fu. Nessuna indicazione temporale, grafica degna dei cartelli del “Processo Di Biscardi”, note interne inesistenti o approssimative.
Prendete questa raccolta del Crown Prince Of Reggae, non il peggio disponibile in tal senso (tornate fra un po’ per un certo cd di Jacob Miller…), ma comunque eloquente. Insomma, bisognerebbe essere addentro alle faccende giamaicane (se non lo siete e vorreste esserlo, permettetemi di consigliarvi la monumentale “Rough Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton, reperibile in edizione italiana più o meno in qualunque libreria) per capire che se il produttore dei diciotti pezzi è Niney The Observer, al mixer siedono King Tubby e Errol Thompson, le basi sono suonate dal Soul Syndicate e i titoli dicono ”Westbound Train”, “Tenement Yard”, “Africa”, “Cassandra”, “Truth And Rights”, “Ride On/Wild Goose Chase” (con Big Youth per un toasting che ha fatto storia) e via così… beh, siamo al cospetto di un mammasantissima del reggae, all’apice della sua forma e con le migliori canzoni a disposizione. Puro suono giamaicano del ghetto alla metà dei ’70, signore e signori, e duro come pochi. Io la dritta ve l’ho data.
Una maledizione perseguita una musica meravigliosa.
La maledizione delle ristampe reggae precedenti l’avvento (che non a caso ha raccolto successo a destra e a manca) di Blood & Fire e Pressure Sounds, capaci di restituire la dignità che merita ad un genere e ad un pozzo di materiale troppo a lungo trattato come fenomeno da cartolina o, al massimo, buono per fricchettoni di provincia col pallino della legalizzazione.
Materiale da sei stelle su cinque nascosto e mortificato in confezioni approssimative, dove il cantante è sempre fotografato ai giorni nostri, venti anni e venti chili in più e lo sguardo socchiuso di un pacifico cinquantenne in luogo del ventenne fiero e militante che fu. Nessuna indicazione temporale, grafica degna dei cartelli del “Processo Di Biscardi”, note interne inesistenti o approssimative.
Prendete questa raccolta del Crown Prince Of Reggae, non il peggio disponibile in tal senso (tornate fra un po’ per un certo cd di Jacob Miller…), ma comunque eloquente. Insomma, bisognerebbe essere addentro alle faccende giamaicane (se non lo siete e vorreste esserlo, permettetemi di consigliarvi la monumentale “Rough Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton, reperibile in edizione italiana più o meno in qualunque libreria) per capire che se il produttore dei diciotti pezzi è Niney The Observer, al mixer siedono King Tubby e Errol Thompson, le basi sono suonate dal Soul Syndicate e i titoli dicono ”Westbound Train”, “Tenement Yard”, “Africa”, “Cassandra”, “Truth And Rights”, “Ride On/Wild Goose Chase” (con Big Youth per un toasting che ha fatto storia) e via così… beh, siamo al cospetto di un mammasantissima del reggae, all’apice della sua forma e con le migliori canzoni a disposizione. Puro suono giamaicano del ghetto alla metà dei ’70, signore e signori, e duro come pochi. Io la dritta ve l’ho data.
23/11/02
110. VV.AA. “Breaks Sessions” 2002. (dcd nuovo, Union Square, € 9.95).
Non c’è che dire, dalle raccolte economiche arrivano buone notizie tanto quanto dalle etichette più rinomate. Questo nuovo capitolo della serie Sessions poi, unisce ad un contenuto se possibile più stellare del solito una sempre migliore realizzazione, con booklet puntuale e prezioso e grafica degna.
Ma cos’è un break? Diminutivo di breakbeat, il termine indica quella sezione di un brano funk in cui il batterista è lasciato solo (o al massimo con un percussionista o un bassista) a suonare la propria parte. Campionato e messo in loop, i break è la base per qualcosa di completamente nuovo.
L’hip-hop originario e non solo, in pratica. Gente come Wu-Tang Clan, EPMD, De La Soul, Public Enemy, A Tribe Called Quest, Gang Starr e Jungle Brothers ha attinto dai brani contenuti in questo doppio per crearne di propri. Ora, a noi i punti di partenza.
Aprono il primo cd e chiudono il secondo dei geni capaci di chiamare la propria band 24 Carat Black, giustamente incuranti del kitsch, privi di inibizioni e orgogliosi. Trattasi di due estratti dal loro rarissimo concept del 1973 “Ghetto: Misfortune’s Wealth” (amici della Stax: ristampa!), chiaramente magici.
In mezzo, altre ventotto chicche spartite su due cd. Gomito a gomito, culo a culo, i grandi del genere e gli eroi minori sul primo dei due: Isaac Hayes (dodici minuti di “Joy”) e O’Donel Levy, Rufus Thomas (da antologia le due parti della sua, appunto, “The Breakdown”) e i S.O.U.L. (e di questo nome che diciamo?), i Meters (“Same Old Thing” è puro groove scarnificato e cori) e Lowell Fulsom (l’originale “Tramp” poi ripresa da Otis in duetto con Carla Thomas), Bobby Womack e i meravigliosi Skull Snaps, o i Dramatics di “Get Up And Get Down”. Ma non solo.
Sul secondo invece largo -tranne qualche eccezione- ai nomi meno conosciuti dalle folle: ecco i Last Poets (la jazzata e non rappata “Tribute To Obabi”) e Reuben Wilson (una cover in chiave latina di “Inner City Blues” di Marvin Gaye), Linda Clifford e Bob James (la campionatissima “Nautilus”), i Blackbyrds e Ramon Morris, Bohannon e i Five Starsteps (precursori dei Jackson Five?).
Insomma, una pacchia. Al prezzo di un cd solo.
Non c’è che dire, dalle raccolte economiche arrivano buone notizie tanto quanto dalle etichette più rinomate. Questo nuovo capitolo della serie Sessions poi, unisce ad un contenuto se possibile più stellare del solito una sempre migliore realizzazione, con booklet puntuale e prezioso e grafica degna.
Ma cos’è un break? Diminutivo di breakbeat, il termine indica quella sezione di un brano funk in cui il batterista è lasciato solo (o al massimo con un percussionista o un bassista) a suonare la propria parte. Campionato e messo in loop, i break è la base per qualcosa di completamente nuovo.
L’hip-hop originario e non solo, in pratica. Gente come Wu-Tang Clan, EPMD, De La Soul, Public Enemy, A Tribe Called Quest, Gang Starr e Jungle Brothers ha attinto dai brani contenuti in questo doppio per crearne di propri. Ora, a noi i punti di partenza.
Aprono il primo cd e chiudono il secondo dei geni capaci di chiamare la propria band 24 Carat Black, giustamente incuranti del kitsch, privi di inibizioni e orgogliosi. Trattasi di due estratti dal loro rarissimo concept del 1973 “Ghetto: Misfortune’s Wealth” (amici della Stax: ristampa!), chiaramente magici.
In mezzo, altre ventotto chicche spartite su due cd. Gomito a gomito, culo a culo, i grandi del genere e gli eroi minori sul primo dei due: Isaac Hayes (dodici minuti di “Joy”) e O’Donel Levy, Rufus Thomas (da antologia le due parti della sua, appunto, “The Breakdown”) e i S.O.U.L. (e di questo nome che diciamo?), i Meters (“Same Old Thing” è puro groove scarnificato e cori) e Lowell Fulsom (l’originale “Tramp” poi ripresa da Otis in duetto con Carla Thomas), Bobby Womack e i meravigliosi Skull Snaps, o i Dramatics di “Get Up And Get Down”. Ma non solo.
Sul secondo invece largo -tranne qualche eccezione- ai nomi meno conosciuti dalle folle: ecco i Last Poets (la jazzata e non rappata “Tribute To Obabi”) e Reuben Wilson (una cover in chiave latina di “Inner City Blues” di Marvin Gaye), Linda Clifford e Bob James (la campionatissima “Nautilus”), i Blackbyrds e Ramon Morris, Bohannon e i Five Starsteps (precursori dei Jackson Five?).
Insomma, una pacchia. Al prezzo di un cd solo.
22/11/02
109. Nick Cave “Here Comes The Sun” 2002. (cds nuovo, V2, € 5.05).
Nick Cave alle prese con due brani dei Beatles. Ammetto la mia ignoranza colpevole nel non conoscere “Here Comes The Sun”, che mi dicono sia uno dei pezzi più belli di George Harrison e degli Scarafaggi stessi, ma io il dischetto in questione l’ho preso per l’altro pezzo. Troppo allettante l’idea di sentire Nick Cave rifare “Let It Be”, capirete. A pensarci bene, sembra una scelta fin troppo banale. Forse ve la state già immaginando come ho fatto io, chissà. Beh, non è proprio così (Nick svaria qui e là rispetto all’originale, soprattutto nella metrica di inizio strofa), ma quasi. Non è la cover memorabile che sarebbe potuta saltare fuori qualche anno fa, ma è da sentire lo stesso.
Nick Cave alle prese con due brani dei Beatles. Ammetto la mia ignoranza colpevole nel non conoscere “Here Comes The Sun”, che mi dicono sia uno dei pezzi più belli di George Harrison e degli Scarafaggi stessi, ma io il dischetto in questione l’ho preso per l’altro pezzo. Troppo allettante l’idea di sentire Nick Cave rifare “Let It Be”, capirete. A pensarci bene, sembra una scelta fin troppo banale. Forse ve la state già immaginando come ho fatto io, chissà. Beh, non è proprio così (Nick svaria qui e là rispetto all’originale, soprattutto nella metrica di inizio strofa), ma quasi. Non è la cover memorabile che sarebbe potuta saltare fuori qualche anno fa, ma è da sentire lo stesso.
21/11/02
108. The Promise Ring “Stop Playing Guitar” 2002. (7” nuovo, Anti, € 3.00).
Lato a (bello) tratto dall’ultimo album, lato b inedito. Quando mi avvicino al banchetto dopo la data milanese dei quattro e esamino l’oggetto in questione, noto gli autori di “You Only Tell Me You Love Me When You're Drunk”: Tennant/Lowe. Il resto dei presenti è troppo giovane per capire, ma voi forse no: Pet Shop Boys, insomma. Il pezzo non è un supersingolo dei due, e non mi pare di averlo mai sentito prima, ma questa versione solo chitarra acustica, rumorini e voce lontana non è niente male davvero.
Piuttosto: ma si sono sciolti davvero i Promise Ring?
Lato a (bello) tratto dall’ultimo album, lato b inedito. Quando mi avvicino al banchetto dopo la data milanese dei quattro e esamino l’oggetto in questione, noto gli autori di “You Only Tell Me You Love Me When You're Drunk”: Tennant/Lowe. Il resto dei presenti è troppo giovane per capire, ma voi forse no: Pet Shop Boys, insomma. Il pezzo non è un supersingolo dei due, e non mi pare di averlo mai sentito prima, ma questa versione solo chitarra acustica, rumorini e voce lontana non è niente male davvero.
Piuttosto: ma si sono sciolti davvero i Promise Ring?
20/11/02
106. The Cramps “Songs The Lord Taught Us” 1980. (cd usato, Zonophone/EMI, € 2.50).
107. The Cramps “Psychedelic Jungle” 1981. (cd usato, Zonophone/EMI, € 2.50).
Capitoli numero 13 e 14 rispettivamente della sottosezione “Upgrades” di questo elenco. Di che si tratta? Semplice: dell’acquisto in cd di dischi che già avevo. Nella fattispecie, nove su cassette polverose, due su vinile (“Catch A Fire” e la discografia degli Ignition), uno su cassetta polverosa E vinile (ma è “Inflammable Material”, quindi zitti tutti).
Certo magari uno quel giorno lì non ha voglia di ascoltare e comprare i Cramps, ma capitano sotto gli occhi e costano poco (non così poco come leggete, ma qualche cd sbolognato al fido negoziante ha fatto la sua parte) i primi due leggendari album, e per il compratore della mia razza diventa imprescindibile l’acquisto.
Arrivato dopo una manciata di singoli memorabili -raccolti in antologie fondamentali quali “Gravest Hits” o meglio ancora “Off The Bone”- “Songs The Lord Taught Us” è il primo album completo di un’accolita a cui ben pochi all’epoca avrebbero permesso di tenere in mano una chitarra collegata ad un amplificatore spento. Lo stile è primitivo e grezzo a dir poco: classici rock’n’roll/rockabilly/blues vengono reinterpretati (e futuri classici vengono scritti di sana pianta dalla coppia Lux Interior/Poison Ivy) in maniera brutale e scarna, irriverente ad un primo sguardo ma assolutamente amorevole e rispettosa scavando a fondo. Perché se il suono cambia, facendosi tetro e poco rassicurante, non altrettanto fa lo spirito. Sono le canzoni che il signore ha insegnato loro, e leggerlo sotto le facce di quattro figli depravati dell’Ohio industriale che spiccano in copertina è uno shock. “I Was A Teenage Werewolf”, “Sunglasses After Dark”, “TV Set” e “The Mad Daddy” sono solo alcuni esempi, e la cover di “Strychnine” dei Sonics suona terribilmente realistica (leggi: questi qua se la berranno sul serio, la stricnina!).
“Psychedelic Jungle”, l’anno seguente, ingentilisce di un nonnulla l’approccio ed i suoni, accentuando l’aspetto horror e, appunto, psichedelico della faccenda e trattando materiale di un altro nonnulla inferiore a quello dell’esordio. Meno immediato e derivativo forse, più cattivo, spietato e personale. Vedi sopra per “Goo Goo Muck”, “Rockin’ Bones”, “Primitive” e “Green Door”.
Nessun brano aggiunto in questa ristampa del 1998, mentre cinque tracce in più rimpolpano “Songs The Lord Taught Us”: una inedita “Twist And Shout” (non quella, ma un originale da paura) e quattro mix alternativi. La falsa partenza di “I Was A Teenage Werewolf” è tutta da ascoltare.
107. The Cramps “Psychedelic Jungle” 1981. (cd usato, Zonophone/EMI, € 2.50).
Capitoli numero 13 e 14 rispettivamente della sottosezione “Upgrades” di questo elenco. Di che si tratta? Semplice: dell’acquisto in cd di dischi che già avevo. Nella fattispecie, nove su cassette polverose, due su vinile (“Catch A Fire” e la discografia degli Ignition), uno su cassetta polverosa E vinile (ma è “Inflammable Material”, quindi zitti tutti).
Certo magari uno quel giorno lì non ha voglia di ascoltare e comprare i Cramps, ma capitano sotto gli occhi e costano poco (non così poco come leggete, ma qualche cd sbolognato al fido negoziante ha fatto la sua parte) i primi due leggendari album, e per il compratore della mia razza diventa imprescindibile l’acquisto.
Arrivato dopo una manciata di singoli memorabili -raccolti in antologie fondamentali quali “Gravest Hits” o meglio ancora “Off The Bone”- “Songs The Lord Taught Us” è il primo album completo di un’accolita a cui ben pochi all’epoca avrebbero permesso di tenere in mano una chitarra collegata ad un amplificatore spento. Lo stile è primitivo e grezzo a dir poco: classici rock’n’roll/rockabilly/blues vengono reinterpretati (e futuri classici vengono scritti di sana pianta dalla coppia Lux Interior/Poison Ivy) in maniera brutale e scarna, irriverente ad un primo sguardo ma assolutamente amorevole e rispettosa scavando a fondo. Perché se il suono cambia, facendosi tetro e poco rassicurante, non altrettanto fa lo spirito. Sono le canzoni che il signore ha insegnato loro, e leggerlo sotto le facce di quattro figli depravati dell’Ohio industriale che spiccano in copertina è uno shock. “I Was A Teenage Werewolf”, “Sunglasses After Dark”, “TV Set” e “The Mad Daddy” sono solo alcuni esempi, e la cover di “Strychnine” dei Sonics suona terribilmente realistica (leggi: questi qua se la berranno sul serio, la stricnina!).
“Psychedelic Jungle”, l’anno seguente, ingentilisce di un nonnulla l’approccio ed i suoni, accentuando l’aspetto horror e, appunto, psichedelico della faccenda e trattando materiale di un altro nonnulla inferiore a quello dell’esordio. Meno immediato e derivativo forse, più cattivo, spietato e personale. Vedi sopra per “Goo Goo Muck”, “Rockin’ Bones”, “Primitive” e “Green Door”.
Nessun brano aggiunto in questa ristampa del 1998, mentre cinque tracce in più rimpolpano “Songs The Lord Taught Us”: una inedita “Twist And Shout” (non quella, ma un originale da paura) e quattro mix alternativi. La falsa partenza di “I Was A Teenage Werewolf” è tutta da ascoltare.
105. Edwin Starr “The Essential Collection” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Lui è l’uomo che ha reso famosa “War”, avete presente? What is it good for? Absolutely nothing! Figura costantemente presente nel panorama Motown, ma di secondo piano rispetto ai pezzi da novanta, ha saputo ritagliarsi uno spazio tutto suo con grinta e classe, toccando northern soul, funk e financo dance.
Al solito ben confezionata e forse solo leggermente parca di note, questa raccolta della Spectrum/Universal comincia nel 1965 e finisce nel 1979, ma il grosso ed il meglio stanno a cavallo tra i due decenni. La citata “War” -ovvio- e la sua gemella “Stop The War Now” illuminano il periodo più politicizzato e funk, così come “Funky Music Sho Nuff Turns Me On”, “Ain’t It Hell Up In Harlem” e “Who Is The Leader Of The People” sono devastanti funk-rock e basta. “You’ve Got My Soul On Fire” tiene alto il ritmo in veste più soul, “24 Hours (To Find My Baby)” in veste più northern soul. E via così.
Lui è l’uomo che ha reso famosa “War”, avete presente? What is it good for? Absolutely nothing! Figura costantemente presente nel panorama Motown, ma di secondo piano rispetto ai pezzi da novanta, ha saputo ritagliarsi uno spazio tutto suo con grinta e classe, toccando northern soul, funk e financo dance.
Al solito ben confezionata e forse solo leggermente parca di note, questa raccolta della Spectrum/Universal comincia nel 1965 e finisce nel 1979, ma il grosso ed il meglio stanno a cavallo tra i due decenni. La citata “War” -ovvio- e la sua gemella “Stop The War Now” illuminano il periodo più politicizzato e funk, così come “Funky Music Sho Nuff Turns Me On”, “Ain’t It Hell Up In Harlem” e “Who Is The Leader Of The People” sono devastanti funk-rock e basta. “You’ve Got My Soul On Fire” tiene alto il ritmo in veste più soul, “24 Hours (To Find My Baby)” in veste più northern soul. E via così.
18/11/02
Certo tornare a suonare dal vivo dopo quasi un anno (tranne una fugace one-night-stand come rincalzo) non è male, soprattutto se il primo concerto non sembra quello di un gruppo al primo concerto e il secondo può sembrare quello di un gruppo al secondo concerto ma va bene lo stesso.
Se però devo essere così coglione da perdere la mia maglietta Team Dresch un concerto sì e uno no, meglio saperlo in anticipo.
104. The Walker Brothers “The Walker Brothers Collection” 2002. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Tra gli ultimi frutti del saccheggio Spectrum a 5 euro, e una delle poche eccezioni alla regola black-only, mi aggiudico questa raccolta di Scott Walker e dei sue due finti fratelli. Tanto ho letto ultimamente (cioè all’epoca dell’acquisto, cioè troppi mesi fa) di questo genio misconosciuto del pop, e l’occasione è allettante per fare la conoscenza di questo autore. Il problema (se di problema si può parlare) è che ben poco saprò del talento compositivo di Scott Walker se compro una raccolta di sole cover, come soltanto ora (cioè all’epoca della recensione) arrivo a capire.
Della sola (re)interpretazione posso quindi parlare, e parlerò: un impossibile ibrido di Frank Sinatra e Nick Cave alle prese con un pop orchestrale ed elegante, datato 1965-1969, sconfinante nel soul (“People Get Ready”, “Stand By Me”, “Land Of 1000 Dances”) e nella canzone d’autore (Brel, Weill, Dylan), con risultati ottimi.
Se però devo essere così coglione da perdere la mia maglietta Team Dresch un concerto sì e uno no, meglio saperlo in anticipo.
104. The Walker Brothers “The Walker Brothers Collection” 2002. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Tra gli ultimi frutti del saccheggio Spectrum a 5 euro, e una delle poche eccezioni alla regola black-only, mi aggiudico questa raccolta di Scott Walker e dei sue due finti fratelli. Tanto ho letto ultimamente (cioè all’epoca dell’acquisto, cioè troppi mesi fa) di questo genio misconosciuto del pop, e l’occasione è allettante per fare la conoscenza di questo autore. Il problema (se di problema si può parlare) è che ben poco saprò del talento compositivo di Scott Walker se compro una raccolta di sole cover, come soltanto ora (cioè all’epoca della recensione) arrivo a capire.
Della sola (re)interpretazione posso quindi parlare, e parlerò: un impossibile ibrido di Frank Sinatra e Nick Cave alle prese con un pop orchestrale ed elegante, datato 1965-1969, sconfinante nel soul (“People Get Ready”, “Stand By Me”, “Land Of 1000 Dances”) e nella canzone d’autore (Brel, Weill, Dylan), con risultati ottimi.
103. The Rolling Stones “Aftermath” 1966. (cd nuovo, Abkco/London, € 12.50).
Ma è “Aftermath” il disco della svolta. Primo album interamente scritto dalla band, che in un colpo solo recupera il terreno “perso” con le cover mentre i Beatles già esploravano. Certo la versione inglese (che infatti il Musso saggiamente possiede in vinile) guadagna rispetto a questa americana brani come “What To Do”, “Take It Or Leave It”, “Out Of Time” e soprattutto “Mother’s Little Helper”, ma perde “Paint It Black”. E chi l’ha sentita almeno una volta sa cosa voglia dire.
Proprio lei se ne sta in apertura, seguita da un tris altrettanto micidiale: “Stupid Girl”, “Lady Jane” e “Under My Thumb”. Forse pecco nel dare per scontato che i soli titoli di questi capolavori siano sufficienti, ma credetemi è così. E sono solo quattro esempi dell’evoluzione straordinaria di cui “Aftermath” è testimone. Il suono del quintetto si fa più ricercato, ma non perde un oncia di sfrontatezza ed aggressività: “Doncha Bother Me” è uno stomp punteggiato dalla chitarra slide, e con “Flight 505” ed “It’s Not Easy” anticipa quasi l’apoteosi blues che verrà in “Exile On Main Street”.
“Think”, “I Am Waiting” e “High And Dry” sterzano verso il pop, ma con l’inconfondibile tocco Stones. Gli undici minuti finali di “Going Home”, ottimo blues nel suo svolgimento normale, diventano forse un po’ troppi strada facendo, con Jagger a gigioneggiare da maledetto secondo clichè rock che oggi fanno più che altro sorridere. Ma trattasi pur sempre di uno dei pilastri della storia del rock.
Ma è “Aftermath” il disco della svolta. Primo album interamente scritto dalla band, che in un colpo solo recupera il terreno “perso” con le cover mentre i Beatles già esploravano. Certo la versione inglese (che infatti il Musso saggiamente possiede in vinile) guadagna rispetto a questa americana brani come “What To Do”, “Take It Or Leave It”, “Out Of Time” e soprattutto “Mother’s Little Helper”, ma perde “Paint It Black”. E chi l’ha sentita almeno una volta sa cosa voglia dire.
Proprio lei se ne sta in apertura, seguita da un tris altrettanto micidiale: “Stupid Girl”, “Lady Jane” e “Under My Thumb”. Forse pecco nel dare per scontato che i soli titoli di questi capolavori siano sufficienti, ma credetemi è così. E sono solo quattro esempi dell’evoluzione straordinaria di cui “Aftermath” è testimone. Il suono del quintetto si fa più ricercato, ma non perde un oncia di sfrontatezza ed aggressività: “Doncha Bother Me” è uno stomp punteggiato dalla chitarra slide, e con “Flight 505” ed “It’s Not Easy” anticipa quasi l’apoteosi blues che verrà in “Exile On Main Street”.
“Think”, “I Am Waiting” e “High And Dry” sterzano verso il pop, ma con l’inconfondibile tocco Stones. Gli undici minuti finali di “Going Home”, ottimo blues nel suo svolgimento normale, diventano forse un po’ troppi strada facendo, con Jagger a gigioneggiare da maledetto secondo clichè rock che oggi fanno più che altro sorridere. Ma trattasi pur sempre di uno dei pilastri della storia del rock.
10/11/02
102. The Rolling Stones “December’s Children (And Everybody’s)” 1966. (cd nuovo, Abkco/London, € 12.50).
I primi segni di vera crescita dei Rolling Stones arrivano piuttosto con l’accoppiata di metà/fine 1965: “Out Of Our Heads” (che alla famosa fiera del disco non ho comprato, avendolo già da tempo in vinile) e “December’s Children (And Everybody’s)”, entrambi fantastici.
Il secondo dei due ha una copertina in bianco e nero meravigliosa e comincia in puro stile garage-punk, con una “She Said Yeah” (di Larry Williams) che non sfigurerebbe su “Nuggets”. Uno sgangherato assalto di novanta secondi, con fuzz in resta, voce sguaiata ed assolo assassino. Uno dei vertici della prima parte di carriera della band.
Il resto del lato A prosegue con altre cover (ancora Chuck Berry in un’ottima “Talkin’ About You”, soul di classe in “You Better Move On”, blues canonico in “Look What You’ve Done”), ma sono gli originali -cinque in tutto- a rivelare progressioni soprendenti in direzione folk-rock o più in generale pop: “The Singer Not The Song”, “Gotta Get Away”, “Blue Turns To Grey”, futuri superclassici quali “As Tears Go By” e “I’m Free”. L’apertura di lato B, in ogni caso, è ancora all’insegna del punk: “Get Off Of My Cloud”, e ho detto tutto. In fondo a ciascun lato, torride versioni dal vivo di “Route 66” e “I’m Moving On”.
I primi segni di vera crescita dei Rolling Stones arrivano piuttosto con l’accoppiata di metà/fine 1965: “Out Of Our Heads” (che alla famosa fiera del disco non ho comprato, avendolo già da tempo in vinile) e “December’s Children (And Everybody’s)”, entrambi fantastici.
Il secondo dei due ha una copertina in bianco e nero meravigliosa e comincia in puro stile garage-punk, con una “She Said Yeah” (di Larry Williams) che non sfigurerebbe su “Nuggets”. Uno sgangherato assalto di novanta secondi, con fuzz in resta, voce sguaiata ed assolo assassino. Uno dei vertici della prima parte di carriera della band.
Il resto del lato A prosegue con altre cover (ancora Chuck Berry in un’ottima “Talkin’ About You”, soul di classe in “You Better Move On”, blues canonico in “Look What You’ve Done”), ma sono gli originali -cinque in tutto- a rivelare progressioni soprendenti in direzione folk-rock o più in generale pop: “The Singer Not The Song”, “Gotta Get Away”, “Blue Turns To Grey”, futuri superclassici quali “As Tears Go By” e “I’m Free”. L’apertura di lato B, in ogni caso, è ancora all’insegna del punk: “Get Off Of My Cloud”, e ho detto tutto. In fondo a ciascun lato, torride versioni dal vivo di “Route 66” e “I’m Moving On”.
30/10/02
99. The Rolling Stones “The Rolling Stones” 1964. (cd nuovo, Abkco/London, € 12.50).
100. The Rolling Stones “12 x 5” 1964. (cd nuovo, Abkco/London, € 12.50).
101. The Rolling Stones “The Rolling Stones, Now!” 1965. (cd nuovo, Abkco/London, € 9.90).
Ma il recupero nel vero senso della parola, ve ne sarete accorti, è questo qua (che spezzo in due post per comodità). Gli Stones di metà anni ’60, dagli esordi così ossequiosi delle radici alla prima vera prova di personalità, e che prova!
Chiariamo subito una cosa: non stiamo parlando dei cadaveri semoventi in giro adesso, nè del Mick Jagger in calzamaglia e costole, né dei Rolling Stones della lingua. Stiamo parlando di caschetti o capelli arruffati, completi stretti, devozione per la musica nera americana, Brian Jones alla chitarra, facce da ragazzini e stile come se piovesse.
Più un discorso complessivo di stile ed energia, appunto, che non di singoli album. Contavano i singoli, le hit, e non è un caso che il migliore album dei primi Stones sia una raccolta di singoli (“Big Hits (High Tide And Green Grass)” del 1966). Perché anche gli album veri e propri più che nascere dallo stesso momento creativo erano più che altro assemblaggi più o meno estemporanei di cover (molte) ed originali (pochi), con tracklist inspiegabilmente diverse per il mercato americano e quello inglese.
Da qualche parte a casa dei miei genitori c’è un vecchio numero del “Buscadero” con una doppia copertina, e da una parte c’è una foto degli Stones dei primi anni ’60 che rappresenta al meglio lo stile di cui si parlava. Dentro, un mega articolo con discografia che all’epoca mi sconvolse, io che appunto pensavo al gruppo come a quelli della lingua, di Jagger in calzamaglia e costole, della cover spompa di “Harlem Shuffle”. Boom!
Quasi contemporaneamente, e non ricordo, scopro che il tizio dell’ultimo piano è un ragazzo degli anni sessanta (o forse settanta) e che ha un cofanetto di una decina di vinili dedicato proprio a quel periodo dei Rolling Stones. Non una raccolta, proprio gli album originali inglesi uno per uno. Senza vergogna, lo chiedo in prestito e in un giorno lo registro tutto, e sono le stesse cassette che fino a ieri ascoltavo.
Qualche tempo dopo, compro il mio primo vinile: una copia usata di “Rock’n’Rolling Stones”, raccolta già allora piuttosto rara e da allora mai vista su cd, incentrata appunto sulle cover più rock’n’roll del periodo con qualche originale a completarla.
Una quindicina di anni dopo, questa benedetta fiera del disco e prezzi abbordabili mi riportano gli Stones che più amo.
Non ho quell’articolo sottomano, e non ricordo se la discografia di riferimento per gli album di quegli anni sia considerata dagli esperti quella americana o quella inglese (la prima assemblava gli album con singoli e non, in Inghilterra invece ciò che usciva su singolo quasi sempre non veniva incluso negli album: nel primo caso saliva la qualità media ma calava la coesione, nel secondo viceversa). Ma sottotitolato “England’s Newest hit Makers”, l’album omonimo dovrebbe venire da oltreoceano ed essere fuori di dubbio il primo. Infarcito per la quasi totalità di cover che spaziano dal blues puro al rock’n’roll al rhythm’n’blues (Buddy Holly e “Not Fade Away”, Chuck Berry e “Carol”, Rufus Thomas e “Walking The Dog”, Willie Dixon e “I Just Want To Make Love To You”, il classico dei classici “Route 66” per dirne qualcuna), mostra la personalità degli autori, se non nella creatività, sicuramente nell’approccio fresco e sensuale: ne è esemplare il suddetto brano di Dixon, frenetico come pochi. E poi c’è “Tell Me”, una ballata che è anche la prima vera grande canzone scritta da Jagger e Richards ed è un fottuto classico.
Le basi su cui poggia “12 x 5” -secondo album americano- sono grossomodo le stesse, ma la proporzione tra cover e originali è invertita e oltre. Forse prematuramente: il disco è certamente il più debole del lotto, suona un po’ raccogliticcio e non rende giustizia ad un gruppo ai tempi ancora in crescita.
Tra le cover, gradino più alto del podio per “Time Is On My Side”, seguita dal Bobby Womack giovane di “It’s All Over Now”, dal Chuck Berry di “Around And Around” e dal contemporaneo Wilson Pickett di “If You Need Me”.
Tra i brani a firma Jagger/Richards (o Nanker/Phelge, loro pseudonimi) nessun picco, ma la misconosciuta “Congratulations”, il bluesaccio di “Good Times, Bad Times” e lo stomp di “Grown Up Wrong” sono sempre un bell’ascoltare. Ma c’è ancora da lavorare.
Di nuovo sbilanciato verso le cover (otto a quattro) è il seguente “The Rolling Stones, Now!”, che dona però alla causa una originale del calibro di “Heart Of Stone” e si dimostra compatto dall’inizio alla fine. Ed entusiasmante spesso e volentieri: da “Everybody Needs Somebody To Love” di Solomon Burke all’ennesimo Chuck Berry di “You Can’t Catch Me”, dal Bo Diddley da manuale di “I Need You Baby (Mona)” all’Otis Redding di “Pain In My Heart”, dalla fighissima “Down Home Girl” fino alla slide guitar di “Little Red Rooster”. E “Down The Road Apiece” dove la mettiamo? Insomma, ancora derivativo, ma trascinante assai.
100. The Rolling Stones “12 x 5” 1964. (cd nuovo, Abkco/London, € 12.50).
101. The Rolling Stones “The Rolling Stones, Now!” 1965. (cd nuovo, Abkco/London, € 9.90).
Ma il recupero nel vero senso della parola, ve ne sarete accorti, è questo qua (che spezzo in due post per comodità). Gli Stones di metà anni ’60, dagli esordi così ossequiosi delle radici alla prima vera prova di personalità, e che prova!
Chiariamo subito una cosa: non stiamo parlando dei cadaveri semoventi in giro adesso, nè del Mick Jagger in calzamaglia e costole, né dei Rolling Stones della lingua. Stiamo parlando di caschetti o capelli arruffati, completi stretti, devozione per la musica nera americana, Brian Jones alla chitarra, facce da ragazzini e stile come se piovesse.
Più un discorso complessivo di stile ed energia, appunto, che non di singoli album. Contavano i singoli, le hit, e non è un caso che il migliore album dei primi Stones sia una raccolta di singoli (“Big Hits (High Tide And Green Grass)” del 1966). Perché anche gli album veri e propri più che nascere dallo stesso momento creativo erano più che altro assemblaggi più o meno estemporanei di cover (molte) ed originali (pochi), con tracklist inspiegabilmente diverse per il mercato americano e quello inglese.
Da qualche parte a casa dei miei genitori c’è un vecchio numero del “Buscadero” con una doppia copertina, e da una parte c’è una foto degli Stones dei primi anni ’60 che rappresenta al meglio lo stile di cui si parlava. Dentro, un mega articolo con discografia che all’epoca mi sconvolse, io che appunto pensavo al gruppo come a quelli della lingua, di Jagger in calzamaglia e costole, della cover spompa di “Harlem Shuffle”. Boom!
Quasi contemporaneamente, e non ricordo, scopro che il tizio dell’ultimo piano è un ragazzo degli anni sessanta (o forse settanta) e che ha un cofanetto di una decina di vinili dedicato proprio a quel periodo dei Rolling Stones. Non una raccolta, proprio gli album originali inglesi uno per uno. Senza vergogna, lo chiedo in prestito e in un giorno lo registro tutto, e sono le stesse cassette che fino a ieri ascoltavo.
Qualche tempo dopo, compro il mio primo vinile: una copia usata di “Rock’n’Rolling Stones”, raccolta già allora piuttosto rara e da allora mai vista su cd, incentrata appunto sulle cover più rock’n’roll del periodo con qualche originale a completarla.
Una quindicina di anni dopo, questa benedetta fiera del disco e prezzi abbordabili mi riportano gli Stones che più amo.
Non ho quell’articolo sottomano, e non ricordo se la discografia di riferimento per gli album di quegli anni sia considerata dagli esperti quella americana o quella inglese (la prima assemblava gli album con singoli e non, in Inghilterra invece ciò che usciva su singolo quasi sempre non veniva incluso negli album: nel primo caso saliva la qualità media ma calava la coesione, nel secondo viceversa). Ma sottotitolato “England’s Newest hit Makers”, l’album omonimo dovrebbe venire da oltreoceano ed essere fuori di dubbio il primo. Infarcito per la quasi totalità di cover che spaziano dal blues puro al rock’n’roll al rhythm’n’blues (Buddy Holly e “Not Fade Away”, Chuck Berry e “Carol”, Rufus Thomas e “Walking The Dog”, Willie Dixon e “I Just Want To Make Love To You”, il classico dei classici “Route 66” per dirne qualcuna), mostra la personalità degli autori, se non nella creatività, sicuramente nell’approccio fresco e sensuale: ne è esemplare il suddetto brano di Dixon, frenetico come pochi. E poi c’è “Tell Me”, una ballata che è anche la prima vera grande canzone scritta da Jagger e Richards ed è un fottuto classico.
Le basi su cui poggia “12 x 5” -secondo album americano- sono grossomodo le stesse, ma la proporzione tra cover e originali è invertita e oltre. Forse prematuramente: il disco è certamente il più debole del lotto, suona un po’ raccogliticcio e non rende giustizia ad un gruppo ai tempi ancora in crescita.
Tra le cover, gradino più alto del podio per “Time Is On My Side”, seguita dal Bobby Womack giovane di “It’s All Over Now”, dal Chuck Berry di “Around And Around” e dal contemporaneo Wilson Pickett di “If You Need Me”.
Tra i brani a firma Jagger/Richards (o Nanker/Phelge, loro pseudonimi) nessun picco, ma la misconosciuta “Congratulations”, il bluesaccio di “Good Times, Bad Times” e lo stomp di “Grown Up Wrong” sono sempre un bell’ascoltare. Ma c’è ancora da lavorare.
Di nuovo sbilanciato verso le cover (otto a quattro) è il seguente “The Rolling Stones, Now!”, che dona però alla causa una originale del calibro di “Heart Of Stone” e si dimostra compatto dall’inizio alla fine. Ed entusiasmante spesso e volentieri: da “Everybody Needs Somebody To Love” di Solomon Burke all’ennesimo Chuck Berry di “You Can’t Catch Me”, dal Bo Diddley da manuale di “I Need You Baby (Mona)” all’Otis Redding di “Pain In My Heart”, dalla fighissima “Down Home Girl” fino alla slide guitar di “Little Red Rooster”. E “Down The Road Apiece” dove la mettiamo? Insomma, ancora derivativo, ma trascinante assai.
26/10/02
98. Lee Perry “Africa’s Blood” 1972. (cd usato, Trojan, € 9.99).
Gran brutta cosa, la discografia di Lee Perry. Cioè, gran bella cosa, ma intricata e vastissima, con qualche rischio di incappare in pacchi o in materiale meno rilevante del dovuto. Come orientamento, consiglio un lungo articolo del sempre ottimo Eddy Cilìa sul numero 8 di “Blow Up”.
Proprio quell’articolo citava questo “Africa’s Blood” (memorabile la copertina) tra i dischi da avere del nostro, subito dopo quelli indispensabili. Nel mio piccolo, mi permetto di dissentire in parte. Intendiamoci, è un signor disco. Ma è un disco di reggae originario quasi interamente strumentale senza o quasi quei colpi di genio e quell’inventiva che lo hanno reso giustamente famosissimo. Certo, risale all’alba del periodo Black Ark o forse prima, quando Scratch stava ancora affilandosi le unghie che pochi anni dopo avrebbero graffiato così a fondo, ma manca l’avventura. Il dub, per esempio, è ancora di là da venire e solo a tratti ne emerge il presagio (il classico “Cherry Oh Baby” ribattezzato “Well Dread”, i fiati già in stile “Super Ape” dell’ottima “Cool And Easy”).
Detto questo, “Do Your Thing” di Dave Barker in apertura è un funk-reggae coi fiocchi, “Isn’t It Wrong” (l’unico altro brano cantato) degli Hurricanes un soul-roots corale non d ameno, le version scorrono sicure (“Dreamland” di Bunny Wailer, “My Girl” dei Temptations secondo la rilettura in levare che ne diede Slim Smith, la “Poor Chubby” di Junior Byles, il classico “Johnny Too Bad” tra le altre) e un giovane Doctor Alimantado, ancora conosciuto come Winston Prince, impreziosisce con il suo toasting “Place Called Africa” ancora del grande Junior Byles.
Gran brutta cosa, la discografia di Lee Perry. Cioè, gran bella cosa, ma intricata e vastissima, con qualche rischio di incappare in pacchi o in materiale meno rilevante del dovuto. Come orientamento, consiglio un lungo articolo del sempre ottimo Eddy Cilìa sul numero 8 di “Blow Up”.
Proprio quell’articolo citava questo “Africa’s Blood” (memorabile la copertina) tra i dischi da avere del nostro, subito dopo quelli indispensabili. Nel mio piccolo, mi permetto di dissentire in parte. Intendiamoci, è un signor disco. Ma è un disco di reggae originario quasi interamente strumentale senza o quasi quei colpi di genio e quell’inventiva che lo hanno reso giustamente famosissimo. Certo, risale all’alba del periodo Black Ark o forse prima, quando Scratch stava ancora affilandosi le unghie che pochi anni dopo avrebbero graffiato così a fondo, ma manca l’avventura. Il dub, per esempio, è ancora di là da venire e solo a tratti ne emerge il presagio (il classico “Cherry Oh Baby” ribattezzato “Well Dread”, i fiati già in stile “Super Ape” dell’ottima “Cool And Easy”).
Detto questo, “Do Your Thing” di Dave Barker in apertura è un funk-reggae coi fiocchi, “Isn’t It Wrong” (l’unico altro brano cantato) degli Hurricanes un soul-roots corale non d ameno, le version scorrono sicure (“Dreamland” di Bunny Wailer, “My Girl” dei Temptations secondo la rilettura in levare che ne diede Slim Smith, la “Poor Chubby” di Junior Byles, il classico “Johnny Too Bad” tra le altre) e un giovane Doctor Alimantado, ancora conosciuto come Winston Prince, impreziosisce con il suo toasting “Place Called Africa” ancora del grande Junior Byles.
Sarà un discorso trito e ritrito, ragazzi, ma svegliarsi la mattina completamente rintronati perché si è passata poco più di un’ora la notte prima in un locale completamente infestato dal fumo (degli altri) non è bello. E la cosa che più sconvolge è che spesso sono i fumatori stessi a dire che il fumo passivo li fa stare male.
Intanto, ieri mattina dal giornalaio, rimango immobile e senza parole di fronte al cartonato a grandezza quasi naturale di Elisabetta Canalis e del suo calendario. Ma non per i motivi che state ipotizzando (da una visione veloce mi pare anzi che le foto non rendano affatto giustizia al personaggio), no. Per una scritta che la ragazza ha tatuata sul braccio: “EMINEM”.
Intanto, ieri mattina dal giornalaio, rimango immobile e senza parole di fronte al cartonato a grandezza quasi naturale di Elisabetta Canalis e del suo calendario. Ma non per i motivi che state ipotizzando (da una visione veloce mi pare anzi che le foto non rendano affatto giustizia al personaggio), no. Per una scritta che la ragazza ha tatuata sul braccio: “EMINEM”.
24/10/02
96. Creedence Clearwater Revival “Bayou Country” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 8.99).
97. Creedence Clearwater Revival “Green River” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 8.99).
Da una settimana non ascolto altro, e maledico l’accumulo di dischi acquistati e l’ordine cronologico con cui mi sono imposto di parlarne. Già, perché tra una cosa e l’altra solo ora, a mesi di distanza, riesco ad ascoltare per bene queste due perle. Dei Creedence Clearwater Revival possedevo soltanto una compilation registrata su cassetta ormai decrepita se non persa, e ricordavo il vinile di “Pendulum” a casa di una coppia di amici dei miei, con “Molina”, “Hey Tonight” e altre canzoni che non ricordo.
Galeotta fu, in questo ennesimo caso di “recupero” (solo parzialmente definibile come tale, visto che questi dischi in realtà non li ho mai avuti), la già ricordata fiera del disco. E i prezzi, ovviamente (vedi archivio di gennaio -recensione di Dilated Peoples- e mio approccio all’acquisto di dischi in generale). Ma avendo pochi minuti prima investito una (relativa) fortuna in un recupero con la R maiuscola di cui leggerete fra poco, mi è toccato limitarmi su John Fogerty e soci.
“Pubblicato appena prima di Natale, il singolo di “Proud Mary” (con “Born On The Bayou” sulla facciata B) semplicemente esplose. Echeggiava da ogni stazione radio della nazione, da ogni vetrina di negozio di dischi, da ogni auto di passaggio, da ogni appartamento dei vicini. I Creedence Clearwater Revival erano arrivati.” (Joel Selvin, dal booklet di “Bayou Country”).
Sembra di vederli, quegli Stati Uniti tra il 1968 ed il 1969. Degli Stati Uniti lontani dallo stereotipo hippie allora al massimo splendore, anzi ricalcati dal quartetto (peraltro operante nella Bay Area) su stilemi tipici del Deep South, sulla storia del rock’n’roll e del blues e su un immaginario solo apparentemente conservatore.
Sembra di sentirla, “Proud Mary”, poi ripresa da numi tutelari della musica black quali Ike & Tina Turner e Solomon Burke, a riprova di una relazione non unidirezionale tra i Creedence ed i classici neri. Sono tantissimi infatti gli omaggi che i quattro tributarono alla tradizione di quel profondo sud a cui guardavano: blues, rock’n’roll originario e soul ridotti all’essenziale, elettrificati e velocizzati, attraversati da un’inquietudine quasi ineluttabile. Due chitarre, un basso e una batteria, spesso registrati tutti insieme in diretta, e una voce. Puoi sentire distintamente cosa ciascuno strumento suona e nello stesso tempo testimoniare un’amalgama perfetto e magico.
“Bayou Country”, sette pezzi per trentaquattro minuti, è un capolavoro, un monolite. Aspro ed elettrico anche nei suoi momenti più spensierati (la citata “Proud Mary”, la cover di “Good Golly Miss Molly”), micidiale nell’accoppiata di apertura “Born On The Bayou”/”Bootleg”, da pelle d’oca nel blues scarno da Gun Club venti anni prima di “Graveyard Train” (e non a caso la band di Jeffrey Lee Pearce rirpese “Run Through The Jungle” nel suo “Miami”), tradizionale nel boogie sudista di “Penthouse Pauper” e nella cavalcata finale di “Keep On Chooglin’”. Poco altro da dire, davvero.
Più arioso musicalmente, “Green River” mette proprio per questo ancora più a nudo la problematicità dei suoi autori sotto le camicie di flanella a scacchi e gli stivali. Uscito solo sette mesi dopo “Bayou Country” (due album colossali in sette mesi, capito?), comincia dove era rimasto il suo predecessore, con la title-track, il rockabilly di “Commotion” e il boogie di “Tombstone Shadow”. Se la seguente “Wrote A Song For Everyone” si dirige verso il pop, lo fa solo nella forma. È il fallimento di un sogno messo in forma di ballata, l’incomunicabilità come dato di fatto: “Wrote a song for everyone/and I couldn’t even talk to you”.
Subito di seguito, uno dei capolavori dei Creedence: “Bad Moon Rising”, poco più di due minuti soltanto. Se attacca e prosegue come un up-tempo frizzante, le sue liriche sono probabilmente una fotografia del Fogerty più fatalistico, disperato e scuro. Non sarà un caso se i Sonic Youth proprio così hanno intitolato un loro album degli inizia. E non sarebbe male andarsi a riascoltare la cover da brividi -e al rallentatore- che del pezzo hanno fatto i Rosa Chance Well (vedi archivio marzo).
Per “Lodi”, il discorso non è molto diverso: ballata da autoradio di quelle col bollino oro, amara riflessione autobiografica sul successo e sulle proprie prospettive. “Cross-Tie Walker” è un rock’n’roll, “Sinister Purpose” quello che il titolo promette. Infine, la liberazione attraverso il gospel di “The Night Time Is The Right Time”, omaggio a Ray Charles.
97. Creedence Clearwater Revival “Green River” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 8.99).
Da una settimana non ascolto altro, e maledico l’accumulo di dischi acquistati e l’ordine cronologico con cui mi sono imposto di parlarne. Già, perché tra una cosa e l’altra solo ora, a mesi di distanza, riesco ad ascoltare per bene queste due perle. Dei Creedence Clearwater Revival possedevo soltanto una compilation registrata su cassetta ormai decrepita se non persa, e ricordavo il vinile di “Pendulum” a casa di una coppia di amici dei miei, con “Molina”, “Hey Tonight” e altre canzoni che non ricordo.
Galeotta fu, in questo ennesimo caso di “recupero” (solo parzialmente definibile come tale, visto che questi dischi in realtà non li ho mai avuti), la già ricordata fiera del disco. E i prezzi, ovviamente (vedi archivio di gennaio -recensione di Dilated Peoples- e mio approccio all’acquisto di dischi in generale). Ma avendo pochi minuti prima investito una (relativa) fortuna in un recupero con la R maiuscola di cui leggerete fra poco, mi è toccato limitarmi su John Fogerty e soci.
“Pubblicato appena prima di Natale, il singolo di “Proud Mary” (con “Born On The Bayou” sulla facciata B) semplicemente esplose. Echeggiava da ogni stazione radio della nazione, da ogni vetrina di negozio di dischi, da ogni auto di passaggio, da ogni appartamento dei vicini. I Creedence Clearwater Revival erano arrivati.” (Joel Selvin, dal booklet di “Bayou Country”).
Sembra di vederli, quegli Stati Uniti tra il 1968 ed il 1969. Degli Stati Uniti lontani dallo stereotipo hippie allora al massimo splendore, anzi ricalcati dal quartetto (peraltro operante nella Bay Area) su stilemi tipici del Deep South, sulla storia del rock’n’roll e del blues e su un immaginario solo apparentemente conservatore.
Sembra di sentirla, “Proud Mary”, poi ripresa da numi tutelari della musica black quali Ike & Tina Turner e Solomon Burke, a riprova di una relazione non unidirezionale tra i Creedence ed i classici neri. Sono tantissimi infatti gli omaggi che i quattro tributarono alla tradizione di quel profondo sud a cui guardavano: blues, rock’n’roll originario e soul ridotti all’essenziale, elettrificati e velocizzati, attraversati da un’inquietudine quasi ineluttabile. Due chitarre, un basso e una batteria, spesso registrati tutti insieme in diretta, e una voce. Puoi sentire distintamente cosa ciascuno strumento suona e nello stesso tempo testimoniare un’amalgama perfetto e magico.
“Bayou Country”, sette pezzi per trentaquattro minuti, è un capolavoro, un monolite. Aspro ed elettrico anche nei suoi momenti più spensierati (la citata “Proud Mary”, la cover di “Good Golly Miss Molly”), micidiale nell’accoppiata di apertura “Born On The Bayou”/”Bootleg”, da pelle d’oca nel blues scarno da Gun Club venti anni prima di “Graveyard Train” (e non a caso la band di Jeffrey Lee Pearce rirpese “Run Through The Jungle” nel suo “Miami”), tradizionale nel boogie sudista di “Penthouse Pauper” e nella cavalcata finale di “Keep On Chooglin’”. Poco altro da dire, davvero.
Più arioso musicalmente, “Green River” mette proprio per questo ancora più a nudo la problematicità dei suoi autori sotto le camicie di flanella a scacchi e gli stivali. Uscito solo sette mesi dopo “Bayou Country” (due album colossali in sette mesi, capito?), comincia dove era rimasto il suo predecessore, con la title-track, il rockabilly di “Commotion” e il boogie di “Tombstone Shadow”. Se la seguente “Wrote A Song For Everyone” si dirige verso il pop, lo fa solo nella forma. È il fallimento di un sogno messo in forma di ballata, l’incomunicabilità come dato di fatto: “Wrote a song for everyone/and I couldn’t even talk to you”.
Subito di seguito, uno dei capolavori dei Creedence: “Bad Moon Rising”, poco più di due minuti soltanto. Se attacca e prosegue come un up-tempo frizzante, le sue liriche sono probabilmente una fotografia del Fogerty più fatalistico, disperato e scuro. Non sarà un caso se i Sonic Youth proprio così hanno intitolato un loro album degli inizia. E non sarebbe male andarsi a riascoltare la cover da brividi -e al rallentatore- che del pezzo hanno fatto i Rosa Chance Well (vedi archivio marzo).
Per “Lodi”, il discorso non è molto diverso: ballata da autoradio di quelle col bollino oro, amara riflessione autobiografica sul successo e sulle proprie prospettive. “Cross-Tie Walker” è un rock’n’roll, “Sinister Purpose” quello che il titolo promette. Infine, la liberazione attraverso il gospel di “The Night Time Is The Right Time”, omaggio a Ray Charles.
21/10/02
95. Love “Love” 1966. (cd usato, Elektra, € 7.00).
Arrivando al primo album dei Love al termine di un percorso a ritroso cominciato con “Forever Changes” (ne parleremo tra una ventina di titoli, tenetevi pronti e acquistate a vista) e continuato con “Da Capo” si rischia di non rendere giustizia anche a questa omonima creatura della band di Arthur Lee. Che è un onesta raccolta garage-pop, con qualche picco storico (l’acustica “Signed D.C.”, “My Flash On You” poi ripresa dai primi Fuzztones, l’iniziale “My Little Red Book”) in un insieme che tutto avrebbe lasciato presagire fuorchè l’arrivo pochi anni dopo di uno dei migliori dischi della storia del rock.
Arrivando al primo album dei Love al termine di un percorso a ritroso cominciato con “Forever Changes” (ne parleremo tra una ventina di titoli, tenetevi pronti e acquistate a vista) e continuato con “Da Capo” si rischia di non rendere giustizia anche a questa omonima creatura della band di Arthur Lee. Che è un onesta raccolta garage-pop, con qualche picco storico (l’acustica “Signed D.C.”, “My Flash On You” poi ripresa dai primi Fuzztones, l’iniziale “My Little Red Book”) in un insieme che tutto avrebbe lasciato presagire fuorchè l’arrivo pochi anni dopo di uno dei migliori dischi della storia del rock.
94. Vue “Find Your Home” 2001. (cd usato, Sub Pop, € 12.00).
Dopo lo screamo devastato ed influentissimo dei Portraits Of Past, seguito dalla new wave of new wave in anticipo sui tempi di The Audience, riecco Jonah Buffa, Jeremy Bringetto e Rex Shelverton. In compagnia di altri due tipi, danno vita a questi Vue. Che, va detto subito, suonano per gran parte di questo loro primo album esattamente come i Rolling Stones di fine anni ’60. Punto e basta. Ci sono i rockers, le ballate malate e i bluesacci.
Mi chiedo: ma in sala prove, quando hanno finito uno qualunque dei pezzi, si saranno guardati in faccia? Ragazzi, se gli Strokes sembravano una cover band, qui si va oltre, e questo è il migliore album degli Stones da “Exile On Main Street” in qua! E sì, perché i cinque ci sanno fare assai, cribbio!
Ma allora, che differenza c’è tra i Vue e bands come i primi Chesterfield Kings, cosa rende attuali e hip i primi e amanuensi acritici i secondi, che ricalcavano con la carta carbone gli stessi Stones di un lustro prima? I Vue hanno suoni e produzione attuali, e i (bei) testi pure non sono roba da Jagger. I Vue hanno soprattutto un’estetica attuale, nei vestiti come nelle grafiche come –appunto- nei testi, che allontana l’effetto puramente nostalgico proprio del revival garage di metà ’80 e li rende degni di attenzione.
Ma lo erano anche i Chesterfield Kings, eccome se lo erano. E quindi? Quindi nulla, approfondimento critico terminato. Bel disco.
Dopo lo screamo devastato ed influentissimo dei Portraits Of Past, seguito dalla new wave of new wave in anticipo sui tempi di The Audience, riecco Jonah Buffa, Jeremy Bringetto e Rex Shelverton. In compagnia di altri due tipi, danno vita a questi Vue. Che, va detto subito, suonano per gran parte di questo loro primo album esattamente come i Rolling Stones di fine anni ’60. Punto e basta. Ci sono i rockers, le ballate malate e i bluesacci.
Mi chiedo: ma in sala prove, quando hanno finito uno qualunque dei pezzi, si saranno guardati in faccia? Ragazzi, se gli Strokes sembravano una cover band, qui si va oltre, e questo è il migliore album degli Stones da “Exile On Main Street” in qua! E sì, perché i cinque ci sanno fare assai, cribbio!
Ma allora, che differenza c’è tra i Vue e bands come i primi Chesterfield Kings, cosa rende attuali e hip i primi e amanuensi acritici i secondi, che ricalcavano con la carta carbone gli stessi Stones di un lustro prima? I Vue hanno suoni e produzione attuali, e i (bei) testi pure non sono roba da Jagger. I Vue hanno soprattutto un’estetica attuale, nei vestiti come nelle grafiche come –appunto- nei testi, che allontana l’effetto puramente nostalgico proprio del revival garage di metà ’80 e li rende degni di attenzione.
Ma lo erano anche i Chesterfield Kings, eccome se lo erano. E quindi? Quindi nulla, approfondimento critico terminato. Bel disco.
18/10/02
Archivi a posto, yo!
Per i lettori più recenti: andateveli a leggere, quando avete cinque minuti.
93. Bruce Springsteen “Greetings From Asbury Park, N. J.” 1975. (cd nuovo, CBS, € 5.00).
Non sono un tipo da fiere del disco. Più volte ho suscitato meraviglia in chi mi conosce vagamente come “uno appassionato di musica” e credendo di darmi una dritta da paura mi indicava imminenti convention, rispondendo a monosillabi disinteressati. Non sono un collezionista e di dischi ne compro già a sufficienza così. Non mi interessa quasi per nulla il disco come oggetto raro, mi interessa quello che c’è dentro il disco e quello che ne esce fuori. Ma se la fiera del disco capita a tre minuti esatti da casa in una calda domenica di tarda primavera, posso anche farci un salto. Forse il temuto quartiere multiculturale non ne uscirà più tollerante o vivibile come pare lasci intendere il manifestino della manifestazione di cui la fiera fa parte. Forse sarà soltanto un’occasione per qualcuno di farsi un giro nel pericolo e spendere qualche soldo, come pare lascino intendere gli organizzatori. In un caso o nell’altro, chi ne esce con le ossa rotte è il mio portafoglio. Ma i prossimi undici titoli valgon bene un sacrificio, no? Non fumo nemmeno…
Ad ogni modo, il primo banco è un’insidia. Troverai sicuramente cose interessanti, ma c’è un’intera piazza ancora da esplorare. Che fare? Comprare? In questi casi, i dischi comprati nel primo banco (o nel primo negozio, o dalla prima distribuzione al concerto) si rivelano di solito i meno indispensabili; meglio quindi andare sul sicuro e cominciare con un recupero di materiale che già ho su vecchia cassetta. Il primo di Bruce Springsteen, che dite?
Sono solo io, o basterebbe la foto sul retro ad inquadrare il disco ed il clima che lo pervade? Già dissi a proposito del secondo album (vedi archivio giugno) di quell’atmosfera romantica e libera in cui gli esordi del Boss ti trasportano. Il senso tangibile della vita di fronte e della determinazione a viverla. Anche “Greetings From Asbury Park, N. J.” suona così, ma dove “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” segnava una netta svolta verso suoni neri, questo è il lavoro di un cantautore. Atipico, scapigliato, verboso fino all’eccesso (ogni testo è una storia raccontata senza lasciar cadere nessun particolare), a tratti dylaniano, già capace di vergare future pietre miliari (“Growin’ Up”, “Lost In The Flood”, “For You”, “Spirit In The Night” per dirne solo qualcuna).
Per i lettori più recenti: andateveli a leggere, quando avete cinque minuti.
93. Bruce Springsteen “Greetings From Asbury Park, N. J.” 1975. (cd nuovo, CBS, € 5.00).
Non sono un tipo da fiere del disco. Più volte ho suscitato meraviglia in chi mi conosce vagamente come “uno appassionato di musica” e credendo di darmi una dritta da paura mi indicava imminenti convention, rispondendo a monosillabi disinteressati. Non sono un collezionista e di dischi ne compro già a sufficienza così. Non mi interessa quasi per nulla il disco come oggetto raro, mi interessa quello che c’è dentro il disco e quello che ne esce fuori. Ma se la fiera del disco capita a tre minuti esatti da casa in una calda domenica di tarda primavera, posso anche farci un salto. Forse il temuto quartiere multiculturale non ne uscirà più tollerante o vivibile come pare lasci intendere il manifestino della manifestazione di cui la fiera fa parte. Forse sarà soltanto un’occasione per qualcuno di farsi un giro nel pericolo e spendere qualche soldo, come pare lascino intendere gli organizzatori. In un caso o nell’altro, chi ne esce con le ossa rotte è il mio portafoglio. Ma i prossimi undici titoli valgon bene un sacrificio, no? Non fumo nemmeno…
Ad ogni modo, il primo banco è un’insidia. Troverai sicuramente cose interessanti, ma c’è un’intera piazza ancora da esplorare. Che fare? Comprare? In questi casi, i dischi comprati nel primo banco (o nel primo negozio, o dalla prima distribuzione al concerto) si rivelano di solito i meno indispensabili; meglio quindi andare sul sicuro e cominciare con un recupero di materiale che già ho su vecchia cassetta. Il primo di Bruce Springsteen, che dite?
Sono solo io, o basterebbe la foto sul retro ad inquadrare il disco ed il clima che lo pervade? Già dissi a proposito del secondo album (vedi archivio giugno) di quell’atmosfera romantica e libera in cui gli esordi del Boss ti trasportano. Il senso tangibile della vita di fronte e della determinazione a viverla. Anche “Greetings From Asbury Park, N. J.” suona così, ma dove “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” segnava una netta svolta verso suoni neri, questo è il lavoro di un cantautore. Atipico, scapigliato, verboso fino all’eccesso (ogni testo è una storia raccontata senza lasciar cadere nessun particolare), a tratti dylaniano, già capace di vergare future pietre miliari (“Growin’ Up”, “Lost In The Flood”, “For You”, “Spirit In The Night” per dirne solo qualcuna).
17/10/02
Non so se capita anche a voi, a me molto spesso.
Sono in un negozio, pago, la persona alla cassa fa per mettere il mio acquisto nel sacchetto e io dico "No, grazie, non ne ho bisogno, lo metto in borsa".
Beh, fanno una faccia bruttissima. Come di fronte a una enorme scortesia, o a una stranezza impensabile.
Si offendono.
92. Screamin’ Jay Hawkins “Portrait Of A Man – A History Of Screamin’ Jay Hawkins” 1995. (cd usato, Edsel, € 8.00).
C’è “I Put A Spell On You”, e questo dovrebbe bastare. Tipico esempio di canzone più famosa di chi l’ha cantata (famosa la cover che ne fecero i Creedence Clearwater Revival), blues cavernoso tra il voodoo e la caricatura, è volenti o nolenti la punta dell’iceberg della carriera del nostro, lui sì atipico esponente della musica del diavolo e delle sue derivazioni.
Istrionico ed esagerato, titolare di un culto sotterraneo non solo ristretto alla musica (Jim Jarmush lo ha fatto portiere d’albergo nel suo “Mystery Train”), Screamin’ Jay ha attraversato qualche decennio lontano dai grossi palcoscenici, facendosi fotografare in una bara e cantando (e non solo…) il suo “Constipation Blues” notte dopo notte. Il risultato? Lo riconoscereste ovunque.
Questa raccolta sapientemente assemblata dalla Edsel raccolgie registrazioni rare e classici del Nostro, partendo dagli inizi (1954) ed arrivando fino agli anni ’90 (niente paura: si è mantenuto benissimo). Con titoli come “Baptize Me In Wine”, “I Hear Voices”, “Whistling Past The Graveyard”, “Voodoo” e “Scream The Blues” avete capito a cosa andate incontro. In ogni caso, date un’occhiata qua.
Sono in un negozio, pago, la persona alla cassa fa per mettere il mio acquisto nel sacchetto e io dico "No, grazie, non ne ho bisogno, lo metto in borsa".
Beh, fanno una faccia bruttissima. Come di fronte a una enorme scortesia, o a una stranezza impensabile.
Si offendono.
92. Screamin’ Jay Hawkins “Portrait Of A Man – A History Of Screamin’ Jay Hawkins” 1995. (cd usato, Edsel, € 8.00).
C’è “I Put A Spell On You”, e questo dovrebbe bastare. Tipico esempio di canzone più famosa di chi l’ha cantata (famosa la cover che ne fecero i Creedence Clearwater Revival), blues cavernoso tra il voodoo e la caricatura, è volenti o nolenti la punta dell’iceberg della carriera del nostro, lui sì atipico esponente della musica del diavolo e delle sue derivazioni.
Istrionico ed esagerato, titolare di un culto sotterraneo non solo ristretto alla musica (Jim Jarmush lo ha fatto portiere d’albergo nel suo “Mystery Train”), Screamin’ Jay ha attraversato qualche decennio lontano dai grossi palcoscenici, facendosi fotografare in una bara e cantando (e non solo…) il suo “Constipation Blues” notte dopo notte. Il risultato? Lo riconoscereste ovunque.
Questa raccolta sapientemente assemblata dalla Edsel raccolgie registrazioni rare e classici del Nostro, partendo dagli inizi (1954) ed arrivando fino agli anni ’90 (niente paura: si è mantenuto benissimo). Con titoli come “Baptize Me In Wine”, “I Hear Voices”, “Whistling Past The Graveyard”, “Voodoo” e “Scream The Blues” avete capito a cosa andate incontro. In ogni caso, date un’occhiata qua.
12/10/02
Sto tentando (inutilmente?) di capire cosa sia successo agli archivi qui a fianco. Da mensili sono prima spariti e poi diventati settimanali. Staremo a vedere.
Nel frattempo, latitano i discorsetti sui dischi. ma passato il weekend vedrete che torneranno. Se proprio non potete fare a meno del sottoscritto, date un'occhiata a Sodapop, ottima webzine che mi vede tra i collaboratori.
Aloha.
Nel frattempo, latitano i discorsetti sui dischi. ma passato il weekend vedrete che torneranno. Se proprio non potete fare a meno del sottoscritto, date un'occhiata a Sodapop, ottima webzine che mi vede tra i collaboratori.
Aloha.
05/10/02
91. Steve Wynn And The Miracle 3 “Live At Big Mama” 2002. (cd usato, Mucchio, € 4.00).
Un attimo di raccoglimento per i Dream Syndicate, prego.
Un “Rockstar” di inizio 1985 circa con gli U2 in copertina, la mia prima rivista musicale in assoluto. Catturato dai miei eroi irlandesi, compro e leggo da copertina a copertina più volte, soffermandomi con particolare curiosità e “timore” (grossomodo lo stesso di cui parlai a proposito dei That Petrol Emotion, archivio di maggio) su un corposo speciale dedicato a un misterioso Paisley Underground, a gruppi californiani che i giornalisti chiamavano neo-psichedelici e dicevano ispirati a leggendari gruppi degli anni ’60 che nella migliore delle ipotesi avevo solo sentito nominare. Un mondo nuovo davanti, insomma, che piano piano avrei cominciato ad esplorare e a godermi, e che aveva in Green On Red, Rain Parade e Dream Syndicate la triade di punta. Che dischi, quelli: “Gravity Talks” dei primi (i più roots), “Emergency Third Rail Power Trip” dei secondi (i più psichedelici) e “The Days Of Wine And Roses” dei terzi (i più punk), i miei preferiti.
Uno dei due dischi, quest’ultimo, ad essere venuto ad un concerto con me causa autografo (l’altro è il cd raccolta su Melankolic di Horace Andy, dio lo benedica, aspettato fuori dal Vox di Nonantola dopo un memorabile concerto dei Massive Attack epoca “Mezzanine”). Perché i Dream Syndicate purtroppo non li ho mai visti dal vivo, ma Steve Wynn sì. In un piccolo club di provincia pochi mesi dopo la pubblicazione del suo primo album solista “Kerosene Man”. Al basso stava allampanato Mark Walton, e in scaletta stavano vari pezzi del suo passato remoto: non era come vedere il Sindacato ma quasi.
Registrato nel novembre 2001 sul palco del celebre club romano con la sua nuova band (piacevolmente integrata dall’altro grande paisley reducer Chris Cacavas alle tastiere), ed allegato al mensile “Mucchio Extra”, questo live vede Steve indulgere nei ricordi (si comincia con “Halloween” e si chiude con la sempre struggente “The Days Of Wine And Roses”, in mezzo anche “Weathered And Torn” e la tenera “Burn”) tra un brano della sua carriera solista e l’altro. Rock chitarristico -includiamo pure la voce “Dream Syndicate” tra i significati dell’espressione- che esplode in lunghe e convulse cavalcate e si rilassa in ballate leggermente inquiete, figlio dei Velvet e dei Television come della West Coast da cui geograficamente proviene, quella dei Gun Club, dei Flesheaters e degli X. Forse già anacronistico, ma piacevolmente vero.
Un attimo di raccoglimento per i Dream Syndicate, prego.
Un “Rockstar” di inizio 1985 circa con gli U2 in copertina, la mia prima rivista musicale in assoluto. Catturato dai miei eroi irlandesi, compro e leggo da copertina a copertina più volte, soffermandomi con particolare curiosità e “timore” (grossomodo lo stesso di cui parlai a proposito dei That Petrol Emotion, archivio di maggio) su un corposo speciale dedicato a un misterioso Paisley Underground, a gruppi californiani che i giornalisti chiamavano neo-psichedelici e dicevano ispirati a leggendari gruppi degli anni ’60 che nella migliore delle ipotesi avevo solo sentito nominare. Un mondo nuovo davanti, insomma, che piano piano avrei cominciato ad esplorare e a godermi, e che aveva in Green On Red, Rain Parade e Dream Syndicate la triade di punta. Che dischi, quelli: “Gravity Talks” dei primi (i più roots), “Emergency Third Rail Power Trip” dei secondi (i più psichedelici) e “The Days Of Wine And Roses” dei terzi (i più punk), i miei preferiti.
Uno dei due dischi, quest’ultimo, ad essere venuto ad un concerto con me causa autografo (l’altro è il cd raccolta su Melankolic di Horace Andy, dio lo benedica, aspettato fuori dal Vox di Nonantola dopo un memorabile concerto dei Massive Attack epoca “Mezzanine”). Perché i Dream Syndicate purtroppo non li ho mai visti dal vivo, ma Steve Wynn sì. In un piccolo club di provincia pochi mesi dopo la pubblicazione del suo primo album solista “Kerosene Man”. Al basso stava allampanato Mark Walton, e in scaletta stavano vari pezzi del suo passato remoto: non era come vedere il Sindacato ma quasi.
Registrato nel novembre 2001 sul palco del celebre club romano con la sua nuova band (piacevolmente integrata dall’altro grande paisley reducer Chris Cacavas alle tastiere), ed allegato al mensile “Mucchio Extra”, questo live vede Steve indulgere nei ricordi (si comincia con “Halloween” e si chiude con la sempre struggente “The Days Of Wine And Roses”, in mezzo anche “Weathered And Torn” e la tenera “Burn”) tra un brano della sua carriera solista e l’altro. Rock chitarristico -includiamo pure la voce “Dream Syndicate” tra i significati dell’espressione- che esplode in lunghe e convulse cavalcate e si rilassa in ballate leggermente inquiete, figlio dei Velvet e dei Television come della West Coast da cui geograficamente proviene, quella dei Gun Club, dei Flesheaters e degli X. Forse già anacronistico, ma piacevolmente vero.
30/09/02
89. VV.AA. “Northern Soul - Cream Of 60’s Soul” 2001. (2cd nuovo, Burning Airlines, € 10.30).
90. VV.AA. “Northern Soul - Keep The Faith. The Cream Of Rare Soul” 2001. (2cd nuovo, Burning Airlines, € 10.30).
Un caso unico. Un sottogenere musicale che prende il proprio nome non dalla zona dove viene prodotto, ma dalla zona distante migliaia di kilometri dove viene (ri)scoperto e suonato qualche anno dopo. Nel nord dell’Inghilterra nei primi ‘70, appunto, quando dj collezionisti scavano alla ricerca di raro soul americano del decennio precedente, modellato sulle arie pop del migliore Detroit-sound ma eseguito da artisti sottovalutati o perfettamente sconosciuti. Trovati (e pagati sicuramente meno di quanto costerebbero adesso) i singoletti ecco le serate, vere riunioni di outsiders e mods irriducibili in un’epoca ormai lanciata verso il classic rock che più bianco non si può.
Se parte del materiale Motown fu ed è tuttora la punta dell’iceberg del fenomeno Northern Soul, con queste due raccolte doppie si comincia a scavare sul serio. I nomi si fanno per lo più ignoti e la musica perde quella perfezione caratteristica, nel bene e nel male, del marchio di Detroit. Ma acquista in umanità, eccome. Una sensazione di fragilità, di avventura, di vera innocenza pervade queste canzoni, spesso e volentieri hit da qualche centinaio di copie e basta.
Nel primo volume spuntano qua e là nomi famosi, catturati agli inizi di luminose carriere -Bobby Womack, O’Jays, Martha Reeves, i Parliaments non ancora Parliament, Edwin Starr, David Ruffin- mentre nel secondo (Parliaments a parte) si brancola quasi totalmente nel buio del soul più raro -come da titolo- ma non meno esaltante e foriero di scoperte interessantissime, anzi. Prendete “How Good Can It Get” di Jay Lyle come esempio, e provate a stare fermi.
Pessime entrambe le grafiche, le note di “Cream Of 60’s Soul” sono però dettagliate ed estese, ma concentrate sulla storia dei singoli pezzi senza introdurre adeguatamente un movimento del quale tuttora pochi conoscono l’esistenza o sanno individuare i tratti distintivi. Ci prova lo stesso Graham Betts in “Keep The Faith”, riuscendoci in parte ma finendo per interessare più i collezionisti e gli elitisti dei fan in cerca di notizie (peraltro scarsissime, visto il materiale). Insomma, gli standard delle ristampe nel 2002 sono altissimi (citerò fino allo sfinimento Harmless per il soul/funk e Blood & Fire per il reggae), e con questi bisogna confrontarsi cara Burning Airlines. Certo è la musica che conta, e da questo punto di vista i due titoli sono ottimi, ma nel giudizio complessivo anche questo conta.
In entrambi i casi, infine, si poteva tagliare un paio di pezzi e stare negli 80 minuti di un cd invece di farne uscire due da 40 minuti o giù di lì. Ma il formato in fondo è dj-friendly, ed il costo è comunque quello di un singolo cd economico, quindi come non detto.
90. VV.AA. “Northern Soul - Keep The Faith. The Cream Of Rare Soul” 2001. (2cd nuovo, Burning Airlines, € 10.30).
Un caso unico. Un sottogenere musicale che prende il proprio nome non dalla zona dove viene prodotto, ma dalla zona distante migliaia di kilometri dove viene (ri)scoperto e suonato qualche anno dopo. Nel nord dell’Inghilterra nei primi ‘70, appunto, quando dj collezionisti scavano alla ricerca di raro soul americano del decennio precedente, modellato sulle arie pop del migliore Detroit-sound ma eseguito da artisti sottovalutati o perfettamente sconosciuti. Trovati (e pagati sicuramente meno di quanto costerebbero adesso) i singoletti ecco le serate, vere riunioni di outsiders e mods irriducibili in un’epoca ormai lanciata verso il classic rock che più bianco non si può.
Se parte del materiale Motown fu ed è tuttora la punta dell’iceberg del fenomeno Northern Soul, con queste due raccolte doppie si comincia a scavare sul serio. I nomi si fanno per lo più ignoti e la musica perde quella perfezione caratteristica, nel bene e nel male, del marchio di Detroit. Ma acquista in umanità, eccome. Una sensazione di fragilità, di avventura, di vera innocenza pervade queste canzoni, spesso e volentieri hit da qualche centinaio di copie e basta.
Nel primo volume spuntano qua e là nomi famosi, catturati agli inizi di luminose carriere -Bobby Womack, O’Jays, Martha Reeves, i Parliaments non ancora Parliament, Edwin Starr, David Ruffin- mentre nel secondo (Parliaments a parte) si brancola quasi totalmente nel buio del soul più raro -come da titolo- ma non meno esaltante e foriero di scoperte interessantissime, anzi. Prendete “How Good Can It Get” di Jay Lyle come esempio, e provate a stare fermi.
Pessime entrambe le grafiche, le note di “Cream Of 60’s Soul” sono però dettagliate ed estese, ma concentrate sulla storia dei singoli pezzi senza introdurre adeguatamente un movimento del quale tuttora pochi conoscono l’esistenza o sanno individuare i tratti distintivi. Ci prova lo stesso Graham Betts in “Keep The Faith”, riuscendoci in parte ma finendo per interessare più i collezionisti e gli elitisti dei fan in cerca di notizie (peraltro scarsissime, visto il materiale). Insomma, gli standard delle ristampe nel 2002 sono altissimi (citerò fino allo sfinimento Harmless per il soul/funk e Blood & Fire per il reggae), e con questi bisogna confrontarsi cara Burning Airlines. Certo è la musica che conta, e da questo punto di vista i due titoli sono ottimi, ma nel giudizio complessivo anche questo conta.
In entrambi i casi, infine, si poteva tagliare un paio di pezzi e stare negli 80 minuti di un cd invece di farne uscire due da 40 minuti o giù di lì. Ma il formato in fondo è dj-friendly, ed il costo è comunque quello di un singolo cd economico, quindi come non detto.
28/09/02
88. James Brown “The Payback” 1974. (cd nuovo, Polydor, € 9.49).
È un Soul Brother #1 sconvolto dal dolore quello che lavora a “The Payback”. Il 14 giugno del 1973, con due degli otto brani già fissati su nastro e l’album che comincia a prendere forma, il suo primogenito Teddy muore in un incidente stradale. James Brown reagisce e si fa forza nel modo più puro conosciuto allo hardest working man in show business: suonando, il 16 giugno, nell’Ohio.
E rimettendosi all’opera per finire uno dei suoi album cardine degli anni ’70. Come il successivo “Hell” (vedi archivio luglio), trattasi di una sorta di concept. Meno dispersivo e più compatto sul canovaccio funk ormai reso arte. Meno esplicitamente sociale e più rivolto alla persona, alla sua crescita interiore come indispensabile per una società più giusta e per, appunto, Il Rimborso. “And payback is gonna be a mutha!!!”.
Esemplari e determinanti, in questo senso, i dodici minuti finali di “Mind Power”: la voce alterna parlato e cantato creando una tensione che sfocia intorno al quinto minuto in un groove semplice quanto trascinante, sul quale riprende il dialogo del Godfather Of Soul e altri groove si innestano per poi tornare a quello iniziale.
Il resto del disco, in origine un doppio, sta sugli stessi livelli e più o meno sugli stessi minutaggi: un solo brano sotto i sette minuti, altri due sotto gli otto, gli altri sopra fino ai quasi tredici (troppi?) della tribale “Time Is Running Out Fast”. Il Godfather sciorina funk ipnotico da par suo (la title-track, “Take Some… Leave Some”, il singolo “Stone To The Bone”) o apre il proprio cuore in ballate blues di lusso (“Doing The Best I Can”, “Forever Suffering”). Notevole.
È un Soul Brother #1 sconvolto dal dolore quello che lavora a “The Payback”. Il 14 giugno del 1973, con due degli otto brani già fissati su nastro e l’album che comincia a prendere forma, il suo primogenito Teddy muore in un incidente stradale. James Brown reagisce e si fa forza nel modo più puro conosciuto allo hardest working man in show business: suonando, il 16 giugno, nell’Ohio.
E rimettendosi all’opera per finire uno dei suoi album cardine degli anni ’70. Come il successivo “Hell” (vedi archivio luglio), trattasi di una sorta di concept. Meno dispersivo e più compatto sul canovaccio funk ormai reso arte. Meno esplicitamente sociale e più rivolto alla persona, alla sua crescita interiore come indispensabile per una società più giusta e per, appunto, Il Rimborso. “And payback is gonna be a mutha!!!”.
Esemplari e determinanti, in questo senso, i dodici minuti finali di “Mind Power”: la voce alterna parlato e cantato creando una tensione che sfocia intorno al quinto minuto in un groove semplice quanto trascinante, sul quale riprende il dialogo del Godfather Of Soul e altri groove si innestano per poi tornare a quello iniziale.
Il resto del disco, in origine un doppio, sta sugli stessi livelli e più o meno sugli stessi minutaggi: un solo brano sotto i sette minuti, altri due sotto gli otto, gli altri sopra fino ai quasi tredici (troppi?) della tribale “Time Is Running Out Fast”. Il Godfather sciorina funk ipnotico da par suo (la title-track, “Take Some… Leave Some”, il singolo “Stone To The Bone”) o apre il proprio cuore in ballate blues di lusso (“Doing The Best I Can”, “Forever Suffering”). Notevole.
27/09/02
85. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 1” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
86. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 2” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
87. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 3” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Finita la pacchia, ancora Lei. Cosa mi fosse preso in quei giorni di acquisti frenetici è ancora troppo presto per elaborarlo, ma se di una collana si sono appena presi i volumi dal 4 al 6, come resistere a quelli dall’1 al 3 trovati in un altro negozio?
Raccontati quelli (vedi archivio di agosto) facciamo un passo indietro per questi, i primi tre dedicati alle grandi hits della casa madre Motown sul mercato britannico. Badate, di compilations originariamente uscite su vinile all’epoca si tratta, non di pacchi assemblati a Cologno Monzese. La grafica e le note rimangono le stesse, e soprattutto in questi tre volumi il clima di spensieratezza sixties/northern soul è inebriante.
Notevole il primo: lo apre Stevie Wonder con la sua –dispensabile?- versione di “Blowin’ In The Wind”, e proseguono i nomi che ormai tutti conoscono. Da segnalare la pimpante “You Keep Me Hangin’ On” (“Chi Mi Aiuterà” dei Ribelli vi dice qualcosa?) di Diana Ross & The Supremes e “Standing In The Shadow Of Love” dei Four Tops (“L’Ombra Di Nessuno” dei Rokes vi dice qualcosa?), il duetto Gaye/Weston, “(I Know) I’m Losing You” dei Temptations (che ormai ho in una tre dischi diversi ma che non mi stanco di ascoltare…), la stupenda “7 Rooms Of Gloom” ancora dei Four Tops, “I’m Ready For Love” di Martha Reeves & The Vandellas, “I Was Made To Love Her” di Stevie Wonder (meglio questa, Stevie).
Illumina il secondo volume “I Heard It Through The Grapevine” ripresa da Gladys Knight & The Pips, ma con materiale così farebbe bella figura più o meno chiunque. I duetti Gaye/Terrell già li ho decantati in passato, e qui ce ne sono due, mentre nulla sapevo di “Reflections” di Diana Ross & The Supremes, purtroppo. “You Keep Running Away” dei Four Tops è un errebì grintoso 100% Motown, così come “I’m Wondering” e soprattutto “Shoo-be-doo-be-doo-da-day” di Stevie Wonder. “Gotta See Jane” è uno dei due grossi hit del bianco R. Dean Taylor per l’etichetta, e se non suona proprio del tutto fuori posto non segue comunque quasi per nulla la linea aziendale, ma non è malaccio con il suo andamento spedito dal sapore beat.
Proprio la “I Heard It Through The Grapevine” di cui si parlava poco sopra, invece, sta all’inizio del volume 3, nella giustamente celebratissima interpretazione di Marvin Gaye: puro stile. Aggiungiamo “Dancing In The Streets” di Martha Reeves & The Vandellas e “Get Ready” in versione Temptations ed avremo il terzetto di classici che da solo giustifica l’acquisto. Come se nelle restanti undici tracce non abitassero –scusate se è poco- Smokey Robinson più vellutato che mai (“The Tracks Of My Tears”), Edwin Starr, Jr Walker & The All Stars ad impostare il groove di “(I’m A) Road Runner”, una colossale (l’inizio con finto-sitar ed il refrain soprattutto) “No Matter What Sign You Are” di Diana Ross & The Supremes ed una altrettanto entusiasmante “Behind A Painted Smile” degli Isley Brothers.
Come i tre volumi seguenti, non indispensabili per il collezionista ma consigliatissimi per il neofita.
86. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 2” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
87. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 3” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Finita la pacchia, ancora Lei. Cosa mi fosse preso in quei giorni di acquisti frenetici è ancora troppo presto per elaborarlo, ma se di una collana si sono appena presi i volumi dal 4 al 6, come resistere a quelli dall’1 al 3 trovati in un altro negozio?
Raccontati quelli (vedi archivio di agosto) facciamo un passo indietro per questi, i primi tre dedicati alle grandi hits della casa madre Motown sul mercato britannico. Badate, di compilations originariamente uscite su vinile all’epoca si tratta, non di pacchi assemblati a Cologno Monzese. La grafica e le note rimangono le stesse, e soprattutto in questi tre volumi il clima di spensieratezza sixties/northern soul è inebriante.
Notevole il primo: lo apre Stevie Wonder con la sua –dispensabile?- versione di “Blowin’ In The Wind”, e proseguono i nomi che ormai tutti conoscono. Da segnalare la pimpante “You Keep Me Hangin’ On” (“Chi Mi Aiuterà” dei Ribelli vi dice qualcosa?) di Diana Ross & The Supremes e “Standing In The Shadow Of Love” dei Four Tops (“L’Ombra Di Nessuno” dei Rokes vi dice qualcosa?), il duetto Gaye/Weston, “(I Know) I’m Losing You” dei Temptations (che ormai ho in una tre dischi diversi ma che non mi stanco di ascoltare…), la stupenda “7 Rooms Of Gloom” ancora dei Four Tops, “I’m Ready For Love” di Martha Reeves & The Vandellas, “I Was Made To Love Her” di Stevie Wonder (meglio questa, Stevie).
Illumina il secondo volume “I Heard It Through The Grapevine” ripresa da Gladys Knight & The Pips, ma con materiale così farebbe bella figura più o meno chiunque. I duetti Gaye/Terrell già li ho decantati in passato, e qui ce ne sono due, mentre nulla sapevo di “Reflections” di Diana Ross & The Supremes, purtroppo. “You Keep Running Away” dei Four Tops è un errebì grintoso 100% Motown, così come “I’m Wondering” e soprattutto “Shoo-be-doo-be-doo-da-day” di Stevie Wonder. “Gotta See Jane” è uno dei due grossi hit del bianco R. Dean Taylor per l’etichetta, e se non suona proprio del tutto fuori posto non segue comunque quasi per nulla la linea aziendale, ma non è malaccio con il suo andamento spedito dal sapore beat.
Proprio la “I Heard It Through The Grapevine” di cui si parlava poco sopra, invece, sta all’inizio del volume 3, nella giustamente celebratissima interpretazione di Marvin Gaye: puro stile. Aggiungiamo “Dancing In The Streets” di Martha Reeves & The Vandellas e “Get Ready” in versione Temptations ed avremo il terzetto di classici che da solo giustifica l’acquisto. Come se nelle restanti undici tracce non abitassero –scusate se è poco- Smokey Robinson più vellutato che mai (“The Tracks Of My Tears”), Edwin Starr, Jr Walker & The All Stars ad impostare il groove di “(I’m A) Road Runner”, una colossale (l’inizio con finto-sitar ed il refrain soprattutto) “No Matter What Sign You Are” di Diana Ross & The Supremes ed una altrettanto entusiasmante “Behind A Painted Smile” degli Isley Brothers.
Come i tre volumi seguenti, non indispensabili per il collezionista ma consigliatissimi per il neofita.
24/09/02
84. Etta James “The Best Of Etta James” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Ricordo ancora il mio primo contatto con Jamesetta Hawkins. Fu in realtà un contatto con Sugar Pie Desanto. Cosa passasse nella testa, dei coniugi Desanto al momento di chiamare la figlia Sugar Pie non lo so, e se fosse invece un nome d’arte non so nemmeno cosa passasse nella sua di testa quando lo scelse. Ma la signorina ebbe comunque una popolarità minore grazie ad alcune incisioni per la Chess, radunate in una compilation della stessa Chess che misi su per pura curiosità (Sugar Pie Desanto, non so se mi spiego) nell’impianto del megastore musicale dove lavoravo.
Partì “In The Basement - Part One”, e nel tempo necessario al cervello per comunicare alle mani di stoppare immediatamente il cd e metterlo al sicuro una ragazza se lo era già comprato e messo in borsa. Una che stava al 99% comprando il suo primo disco soul, forse perché le ricordava qualche pubblicità vista in tv. Ne stava comprando l’unica copia in negozio, molto probabilmente rimasta a pigliare polvere nello scaffale fino a cinque minuti prima, e gliela stavo vendendo io. Incapace di raffazzonare un “Mi spiace ma è prenotato” qualunque, mi abbandonai a un patetico quanto perdente in partenza tentativo di farmelo almeno registrare su cassetta (addavenì masterizzatore…) e portare “la prossima volta che passi di qui”. Patetico, patetico.
La suddetta perla, e qui veniamo al dunque, vedeva la nostra Tortina duettare con l’amica d’infanzia Etta James (anche Jamesetta non scherza come nome, eh?) in un torrido rhythm’n’blues botta-e-risposta che rianimerebbe anche il più loffio dei dancefloor nello spazio di otto battute. “In The Basement - Part One”, appunto. Che meraviglia. Ora, finalmente, anche mia.
Il resto della presente raccolta, ottimo sunto di una carriera luminosa punteggiata da problemi di droga, copre grossomodo il periodo tra il 1960 ed il 1968 con qualche puntata nei primi/medi anni ’70, ed è un concentrato di vitalità e grinta. Dopo settimane di Motown, con tutto il rispetto, questo è un salutare cazzotto in faccia. Etta canta dalle viscere, ha meno sezioni di archi ad accompagnarla e più blues a guidarla. Poco confronto, insomma: dove la Motown è sostanzialmente intrattenimento di gran classe qui si assapora la vita, e i giorni chiari o bui che di volta in volta ci riserva. Se Brenda Holloway canta “You’ve Made Me So Very Happy”, Etta qualche anno prima grida “I Just Want To Make Love To You” fuori dai polmoni, sottoscrivendone ogni sillaba. Questo colpisce di Etta: la carica, la sfacciataggine, la passione, la voce da cattiva ragazza. Il suo è un rhythm’n’blues che sconfina di volta in volta nel soul, nel funk, nel gospel o nel blues e basta, umano fino in fondo e oltre come solo i più grandi hanno saputo essere, essenziale crocevia tra la Chicago dove risiede e il sud dove spesso registra. Grande, grande, grande.
PS - D’obbligo, a questo punto, un pezzo di Eddy Cilìa su uno dei prossimi “Blow Up”.
Ricordo ancora il mio primo contatto con Jamesetta Hawkins. Fu in realtà un contatto con Sugar Pie Desanto. Cosa passasse nella testa, dei coniugi Desanto al momento di chiamare la figlia Sugar Pie non lo so, e se fosse invece un nome d’arte non so nemmeno cosa passasse nella sua di testa quando lo scelse. Ma la signorina ebbe comunque una popolarità minore grazie ad alcune incisioni per la Chess, radunate in una compilation della stessa Chess che misi su per pura curiosità (Sugar Pie Desanto, non so se mi spiego) nell’impianto del megastore musicale dove lavoravo.
Partì “In The Basement - Part One”, e nel tempo necessario al cervello per comunicare alle mani di stoppare immediatamente il cd e metterlo al sicuro una ragazza se lo era già comprato e messo in borsa. Una che stava al 99% comprando il suo primo disco soul, forse perché le ricordava qualche pubblicità vista in tv. Ne stava comprando l’unica copia in negozio, molto probabilmente rimasta a pigliare polvere nello scaffale fino a cinque minuti prima, e gliela stavo vendendo io. Incapace di raffazzonare un “Mi spiace ma è prenotato” qualunque, mi abbandonai a un patetico quanto perdente in partenza tentativo di farmelo almeno registrare su cassetta (addavenì masterizzatore…) e portare “la prossima volta che passi di qui”. Patetico, patetico.
La suddetta perla, e qui veniamo al dunque, vedeva la nostra Tortina duettare con l’amica d’infanzia Etta James (anche Jamesetta non scherza come nome, eh?) in un torrido rhythm’n’blues botta-e-risposta che rianimerebbe anche il più loffio dei dancefloor nello spazio di otto battute. “In The Basement - Part One”, appunto. Che meraviglia. Ora, finalmente, anche mia.
Il resto della presente raccolta, ottimo sunto di una carriera luminosa punteggiata da problemi di droga, copre grossomodo il periodo tra il 1960 ed il 1968 con qualche puntata nei primi/medi anni ’70, ed è un concentrato di vitalità e grinta. Dopo settimane di Motown, con tutto il rispetto, questo è un salutare cazzotto in faccia. Etta canta dalle viscere, ha meno sezioni di archi ad accompagnarla e più blues a guidarla. Poco confronto, insomma: dove la Motown è sostanzialmente intrattenimento di gran classe qui si assapora la vita, e i giorni chiari o bui che di volta in volta ci riserva. Se Brenda Holloway canta “You’ve Made Me So Very Happy”, Etta qualche anno prima grida “I Just Want To Make Love To You” fuori dai polmoni, sottoscrivendone ogni sillaba. Questo colpisce di Etta: la carica, la sfacciataggine, la passione, la voce da cattiva ragazza. Il suo è un rhythm’n’blues che sconfina di volta in volta nel soul, nel funk, nel gospel o nel blues e basta, umano fino in fondo e oltre come solo i più grandi hanno saputo essere, essenziale crocevia tra la Chicago dove risiede e il sud dove spesso registra. Grande, grande, grande.
PS - D’obbligo, a questo punto, un pezzo di Eddy Cilìa su uno dei prossimi “Blow Up”.
23/09/02
83. Bob Marley & The Wailers “Catch A Fire” 1973. (cd nuovo, Island, € 4.00).
Un attimo di pausa dal tour de force Motown, ed uno di quei classici senza tempo che dovreste già avere in casa qualunque tipo di musica ascoltiate. Nove classici, uno dietro l’altro.
Già parlai in passato di quanto allo stesso tempo ami il reggae e non consideri Bob Marley reggae, ma icona a sé stante. Icona incommensurabile, badate. È che mi ha sempre fatto incazzare l’equazione reggae=Marley=canne, come se il filo conduttore (e non uno dei fili conduttori, e neppure il più forte) di quarant’anni di musica jamaicana fosse quello. Che gli sguardi stupiti quando dico contemporaneamente, con capelli corti o cortissimi e aspetto ordinato, che la mia musica preferita è il reggae e che non fumo dipendano anche da questo assunto a dir poco superficiale? Detto questo, come già dissi parlando del live “Babylon By Bus” (vedi archivio di gennaio), viva Marley.
“Catch A Fire” è il primo album dei Wailers ancora trio (anzi quintetto, visto che Aston e Carlton Barrett ne fanno parte a tutti gli effetti), ma già sbilanciati di nome e di fatto verso Bob, concepito per il mercato rock tradizionale. La versione originale passò attraverso ulteriori sessions di sovrincisione a cura di musicisti bianchi, che secondo leggenda lo resero più commestibile ad un pubblico non ancora avvezzo al reggae. Da qualche tempo ne gira, a prezzo nemmeno esorbitante, una deluxe edition doppia, contenente la versione internazionale e quella jamaicana primigenia, oltre immagino a qualche inedito o live. Grafica curata, note e tutto quanto.
Io, chissà perché, non ho comprato quella (ragionamento delirante che un po’ mi vergogno ad esporre: “mah, che palle, due volte lo stesso disco…”), ma la versione semplice e singola, rimasterizzata con due inediti e libretto con i testi. Sì, perché se non lo sapeste tutta la produzione del suddetto per la Island è stata rimasterizzata e ristampata dalla Universal con due/tre inedite per album e messa sul mercato a 10 euro. Logico quindi l’acquisto in blocco (che io a tuttoggi rimando o intendo dilazionare nel tempo), ad esclusione come ormai ovvio di “Catch A Fire”. Avendo già il suddetto titolo in vinile, capirete quindi che una mezza cazzata sento di averla fatta.
Ok, ho “High Tide Or Low Tide” (strana, molto moderna e soul…) e “All Day All Night” (bella, con le voci di Peter Tosh e Bunny Wailer più presenti del solito), ma ci sono pure sul doppio per dio! E non saprò mai com’è “Baby We’ve Got A Date (Rock It Babe)” senza la slide invadente di questo tale Wayne Perkins, o se avrei potuto fare a meno dei sintetizzatori di un temibile John “Rabbit” Bundrick.
L’enigma del tempo sull’attacco di “400 Years”, invece, penso che non lo risolverò mai.
Un attimo di pausa dal tour de force Motown, ed uno di quei classici senza tempo che dovreste già avere in casa qualunque tipo di musica ascoltiate. Nove classici, uno dietro l’altro.
Già parlai in passato di quanto allo stesso tempo ami il reggae e non consideri Bob Marley reggae, ma icona a sé stante. Icona incommensurabile, badate. È che mi ha sempre fatto incazzare l’equazione reggae=Marley=canne, come se il filo conduttore (e non uno dei fili conduttori, e neppure il più forte) di quarant’anni di musica jamaicana fosse quello. Che gli sguardi stupiti quando dico contemporaneamente, con capelli corti o cortissimi e aspetto ordinato, che la mia musica preferita è il reggae e che non fumo dipendano anche da questo assunto a dir poco superficiale? Detto questo, come già dissi parlando del live “Babylon By Bus” (vedi archivio di gennaio), viva Marley.
“Catch A Fire” è il primo album dei Wailers ancora trio (anzi quintetto, visto che Aston e Carlton Barrett ne fanno parte a tutti gli effetti), ma già sbilanciati di nome e di fatto verso Bob, concepito per il mercato rock tradizionale. La versione originale passò attraverso ulteriori sessions di sovrincisione a cura di musicisti bianchi, che secondo leggenda lo resero più commestibile ad un pubblico non ancora avvezzo al reggae. Da qualche tempo ne gira, a prezzo nemmeno esorbitante, una deluxe edition doppia, contenente la versione internazionale e quella jamaicana primigenia, oltre immagino a qualche inedito o live. Grafica curata, note e tutto quanto.
Io, chissà perché, non ho comprato quella (ragionamento delirante che un po’ mi vergogno ad esporre: “mah, che palle, due volte lo stesso disco…”), ma la versione semplice e singola, rimasterizzata con due inediti e libretto con i testi. Sì, perché se non lo sapeste tutta la produzione del suddetto per la Island è stata rimasterizzata e ristampata dalla Universal con due/tre inedite per album e messa sul mercato a 10 euro. Logico quindi l’acquisto in blocco (che io a tuttoggi rimando o intendo dilazionare nel tempo), ad esclusione come ormai ovvio di “Catch A Fire”. Avendo già il suddetto titolo in vinile, capirete quindi che una mezza cazzata sento di averla fatta.
Ok, ho “High Tide Or Low Tide” (strana, molto moderna e soul…) e “All Day All Night” (bella, con le voci di Peter Tosh e Bunny Wailer più presenti del solito), ma ci sono pure sul doppio per dio! E non saprò mai com’è “Baby We’ve Got A Date (Rock It Babe)” senza la slide invadente di questo tale Wayne Perkins, o se avrei potuto fare a meno dei sintetizzatori di un temibile John “Rabbit” Bundrick.
L’enigma del tempo sull’attacco di “400 Years”, invece, penso che non lo risolverò mai.
82. Kim Weston “Greatest Hits & Rare Classics” 1998. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Pare che Agatha Nathalie “Kim” Weston non amasse particolarmente i ballabili più uptempo, ma preferisse di gran lunga prestare le sue corde vocali alle ballate più romantiche. Preferenza assai poco distinguibile: “Take Me In Your Arms (Rock Me A Little While)” tra i primi e “Go Ahead And Laugh” tra le seconde, due scelte a caso, dicono di un’interprete egualmente a suo agio, eccome. Ma ballate o ballabili, di dischi a lei accreditati se ne sono visti davvero pochi. Una serie di duetti con Marvin Gaye, qualche singolo su Motown e sussidiarie, un album programmato su Gordy e mai uscito. Troppo poco, decisamente.
Ci pensa quindi questa ottima raccolta uscita originariamente nel 1991, che ci permette di conoscere a fondo un’interprete dimenticata (con venti brani pubblicati tra il 1963 ed il 1966, quattro dei quali in duetto con Marvin Gaye) e conferma la bontà di questa serie a bassissimo prezzo che la Spectrum/Universal dedica alla celebre etichetta di Detroit. Come già detto, si tratta di greatest hits nel vero senso della parola, compilate con testa e cuore, annotate con precisione e curate nella grafica. Tuttaltro che fregature-a-4900-lire inspessite con pezzi del 1979 e live del 1986, sono dischi che potrebbero tranquillamente essere messi sul mercato a prezzo pieno, o quantomeno in linea economica tradizionale.
Pare che Agatha Nathalie “Kim” Weston non amasse particolarmente i ballabili più uptempo, ma preferisse di gran lunga prestare le sue corde vocali alle ballate più romantiche. Preferenza assai poco distinguibile: “Take Me In Your Arms (Rock Me A Little While)” tra i primi e “Go Ahead And Laugh” tra le seconde, due scelte a caso, dicono di un’interprete egualmente a suo agio, eccome. Ma ballate o ballabili, di dischi a lei accreditati se ne sono visti davvero pochi. Una serie di duetti con Marvin Gaye, qualche singolo su Motown e sussidiarie, un album programmato su Gordy e mai uscito. Troppo poco, decisamente.
Ci pensa quindi questa ottima raccolta uscita originariamente nel 1991, che ci permette di conoscere a fondo un’interprete dimenticata (con venti brani pubblicati tra il 1963 ed il 1966, quattro dei quali in duetto con Marvin Gaye) e conferma la bontà di questa serie a bassissimo prezzo che la Spectrum/Universal dedica alla celebre etichetta di Detroit. Come già detto, si tratta di greatest hits nel vero senso della parola, compilate con testa e cuore, annotate con precisione e curate nella grafica. Tuttaltro che fregature-a-4900-lire inspessite con pezzi del 1979 e live del 1986, sono dischi che potrebbero tranquillamente essere messi sul mercato a prezzo pieno, o quantomeno in linea economica tradizionale.
22/09/02
81. The Temptations “With A Lot O’ Soul” 1967. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Si apre con “(I Know) I’m Losing You”, e se la conoscete capirete che l’album parte non con uno ma con tutti e due i piedi giusti. Siamo giusto un attimo prima della svolta funk (che proprio il pezzo citato sembra anticipare), e quello che i cinque sanno e devono fare è, come da titolo, il Soul. La forza e la freschezza dei dodici brani sono qualcosa di imbarazzante, siano essi ballate col cuore in mano o numeri dance; prendere a caso la cadenza quasi gospel di “No More Water In The Well”, la memphisiana “Now That You’ve Won Me”, l’incalzante “Ain’t No Sun Since You’ve Been Gone” (alle radici del Curtis Mayfield di “Superfly?”). Senza bisogno di commenti l’interpretazione. Mi ripeterò, ma per 5 euro non prenderlo è reato.
Si apre con “(I Know) I’m Losing You”, e se la conoscete capirete che l’album parte non con uno ma con tutti e due i piedi giusti. Siamo giusto un attimo prima della svolta funk (che proprio il pezzo citato sembra anticipare), e quello che i cinque sanno e devono fare è, come da titolo, il Soul. La forza e la freschezza dei dodici brani sono qualcosa di imbarazzante, siano essi ballate col cuore in mano o numeri dance; prendere a caso la cadenza quasi gospel di “No More Water In The Well”, la memphisiana “Now That You’ve Won Me”, l’incalzante “Ain’t No Sun Since You’ve Been Gone” (alle radici del Curtis Mayfield di “Superfly?”). Senza bisogno di commenti l’interpretazione. Mi ripeterò, ma per 5 euro non prenderlo è reato.
21/09/02
80. VV.AA. “Tamla Motown Connoisseurs” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Continua l’indigestione Motown: da zero a cento in pochi giorni. Poco o nulla avevo, e per colpa di queste dannate offerte mi ritrovo con l’indispensabile e oltre. Trattandosi poi di acquisti ormai lontani, sopra ai quali se ne sono accumulate altre decine, l’ascolto ed il relativo racconto su queste pagine (pagine?) diventa parzialmente coatto, con risultati prevedibili. Insomma, di Motown non ne posso quasi più, e non è nemmeno finita! Ma l’ordine cronologico è sacro, amati lettori, e se questo è stato l’ottantesimo disco che ho acquistato dal primo gennaio ad oggi, di questo vi parlerò dopo il settantanovesimo e prima dell’ottantunesimo (e badate, a tutt’oggi prima di raggiungere il negozio di fiducia siamo a centotrenta).
Entrino le rarità, allora: venti brani richiestissimi dai fans più accesi, per la maggior parte mai apparsi su cd ed alcuni addirittura inediti, a rappresentare il lato oscuro ma non per questo meno entusiasmante dell’epopea Tamla Motown. Insomma, se anche non siete connoisseurs ve la godrete lo stesso. Anche perché i titoli saranno rarità, ma i nomi spesso parlano da soli: Gladys Knight And The Pips, The Isley Brothers, Marvin Gaye da solo (una chicca la sua “Sunny”) e con Kim Weston, The Temptations (una solare “That’ll Be The Day” del 1965), Martha Reeves da sola nel 1973, Tammi Terrell, The Four Tops, un enorme Stevie Wonder ragazzino, uno Smokey Robinson funkeggiante nei primi ’70 con i suoi Miracles. Tutti sui livelli a cui ci abituarono nei loro anni ’60, quindi elevatissimi. Aggiungete la regina del blue-eyed soul Chris Clark, la sicurezza Brenda Holloway, la verve strumentale di Junior Walker, le armonie vocali levigate degli Originals, la misconosciuta attrice/modella Barbara McNair, i Contours, i trascinanti Undisputed Truth, le Marvelettes, il soul straordinariamente moderno di Bobby Taylor (l’attacco della voce non è uguale a quello di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack?).
Per quanto riguarda booklet, note e “idea”, sicuramente la migliore di tutte le compilations Motown di cui si è parlato. E il contenuto non è da meno. It’s what’s in the groove that counts.
Continua l’indigestione Motown: da zero a cento in pochi giorni. Poco o nulla avevo, e per colpa di queste dannate offerte mi ritrovo con l’indispensabile e oltre. Trattandosi poi di acquisti ormai lontani, sopra ai quali se ne sono accumulate altre decine, l’ascolto ed il relativo racconto su queste pagine (pagine?) diventa parzialmente coatto, con risultati prevedibili. Insomma, di Motown non ne posso quasi più, e non è nemmeno finita! Ma l’ordine cronologico è sacro, amati lettori, e se questo è stato l’ottantesimo disco che ho acquistato dal primo gennaio ad oggi, di questo vi parlerò dopo il settantanovesimo e prima dell’ottantunesimo (e badate, a tutt’oggi prima di raggiungere il negozio di fiducia siamo a centotrenta).
Entrino le rarità, allora: venti brani richiestissimi dai fans più accesi, per la maggior parte mai apparsi su cd ed alcuni addirittura inediti, a rappresentare il lato oscuro ma non per questo meno entusiasmante dell’epopea Tamla Motown. Insomma, se anche non siete connoisseurs ve la godrete lo stesso. Anche perché i titoli saranno rarità, ma i nomi spesso parlano da soli: Gladys Knight And The Pips, The Isley Brothers, Marvin Gaye da solo (una chicca la sua “Sunny”) e con Kim Weston, The Temptations (una solare “That’ll Be The Day” del 1965), Martha Reeves da sola nel 1973, Tammi Terrell, The Four Tops, un enorme Stevie Wonder ragazzino, uno Smokey Robinson funkeggiante nei primi ’70 con i suoi Miracles. Tutti sui livelli a cui ci abituarono nei loro anni ’60, quindi elevatissimi. Aggiungete la regina del blue-eyed soul Chris Clark, la sicurezza Brenda Holloway, la verve strumentale di Junior Walker, le armonie vocali levigate degli Originals, la misconosciuta attrice/modella Barbara McNair, i Contours, i trascinanti Undisputed Truth, le Marvelettes, il soul straordinariamente moderno di Bobby Taylor (l’attacco della voce non è uguale a quello di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack?).
Per quanto riguarda booklet, note e “idea”, sicuramente la migliore di tutte le compilations Motown di cui si è parlato. E il contenuto non è da meno. It’s what’s in the groove that counts.
19/09/02
Non so se succede in tutte le città del nord, ma in quella dove abito io sì.
Non appena il calendario segna settembre e/o cadono due goccioline di pioggia e/o il cielo abbandona il blu per il caratteristico grigio, tutte i finestrini dei mezzi di trasporto pubblici restano contemporaneamente chiuse e chi prova ad aprirli viene guardato con astio e/o commiserazione dal resto dei passeggeri.
Non contano la temperatura (alta, alta) o l’umidità (altissima). Semplicemente, per il cittadino è finita l’estate.
77. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume One” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
78. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Two” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
79. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Three” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Abbiamo detto più in basso di come ciò che negli Stati Uniti usciva per i sottomarchi Gordy, Soul, VIP e Tamla e per la casa madre Motown, sul mercato britannico fosse raggruppato sotto un unico, storico marchio: Tamla Motown. Logico quindi che, oltre ai nomi di punta, soprattutto a metà anni ’60 raggiungessero il Vecchio Continente decine di artisti meno conosciuti. Proprio questi furono alfieri dell’epoca d’oro del northern soul, mentre il marchio americano diventava sempre più sinonimo di soul music patinata e sbiancata tendente al mainstream. Motown è una cosa, quindi. Tamla Motown un’altra. Se devo scegliere, pur amando entrambe, alle sviolinate preferisco i ritmi incalzanti e le ballate grezze. Nei tre volumi di questa raccolta, anch’essa disponibile a 5 euro a titolo più o meno in tutti i negozi di dischi della nazione, troviamo una equilibrata miscela delle due tendenze. Proprio come da titolo, vi si trovano successoni e rarità, ma nessuno dei nomi stranoti. La tracklist raggruppa brani degli stessi artisti e le note sono stringate ma precise.
Parte sviolinando il primo volume, con un ambo degli Originals, Bobby Taylor & The Vancouvers e i più rustici fratelli Ruffin, Jimmy e David, fuoriuscito dai Temptations nel 1968. Da qui in avanti, però, i ritmi aumentano. Non male i Rare Earth alle prese con una rielaborazione rock di due classici degli stessi Temptations come “Get Ready” e “(I Know) I’m Losing You”, ma coverizzare quelle cinque voci è compito ingrato. Da paura Edwin Starr: “War” è il pezzo più conosciuto della raccolta, probabilmente grazie alla cover che ne fece Bruce Springsteen nel cofanetto dal vivo, mentre “Twenty-five Miles” è un errebì grezzo come si deve. Stilosi come sempre i Detroit Spinners di “It’s A Shame” e “I’ll Always Love You”, i finale vira decisamente verso il northern soul femminile: The Elgins tra una ballata e un uptempo 100% girl group, Brenda Holloway (anche autrice, cosa non comune, di “You Made Me So Very Happy”) e Kim Weston a mettere in mostra la consueta classe.
Proprio Brenda Holloway apre il secondo volume, con il blues pianistico “Every Little Bit Hurts” ed il quasi doo-wop di “When I’m Gone”. Della grandezza delle Velvelettes abbiamo già detto, e se avete la loro antologia avete anche questi tre pezzi, ma ascoltarli di nuovo non vi farà certo male. Di Tammi Terrell pure si è già detto, e bene, mentre “Money (That’s What I Want)” di Barrett Strong è uno di quei pezzi ormai considerati degli standard rhythm’n’blues. Assaggiati i campioni Isley Brothers, è tempo per il misconosciuto e grandioso Shorty Long: “Here Comes The Judge” l’avevamo già scoperta su “Superfunk” firmata Larry & Tommy, ma è sempre un floor-filler di quelli seri, così come “Function At The Junction”. Ancora Temptations rivisitati per gli Undisputed Truth, e ancora superbo soul-rock chitarristico per i Rare Earth, mentre Supremes e Four Tops si riuniscono per “River Deep, Mountain High” (l’hanno fatta in mille, ma se trovate la versione dei pionieri punk australiani Saints tenetevela stretta). R. Dean Taylor fu probabilmente l’unico songwriter bianco ad avere una hit su Motown, e la sua “Indiana Wants Me” ha un sapore tra pop e folkrock che conquista. Lentazzi di Charlene (grande!) e della coppia Billy Preston & Syreeta ci accompagnano alla conclusione, dove sta il vero pezzo forte di un volume già notevole: “What The World Needs Now Is Love/Abraham, Martin And John”, pacchianissimo collage pacifista assemblato dal dj Tom Clay, con i testi dei brani dei Blackberries parlati sugli originali da lui e da un bambino, inframmezzati da registrazioni di Martin Luther King, eserciti in esercitazione ed azione, spari, sirene, radiogiornali, assassinio di John Fitzgerald Kennedy e chi più ne ha più ne metta. Crediateci o no, uno dei più grossi hit dell’etichetta.
Niente male anche il volume tre, comunque: comincia forte al femminile con Kim Weston al meglio e continua altrettanto con Velvelettes, Tammi Terrell e Brenda Holloway. Trascurabili le Supremes del 1975, indispensabili il già citato Shorty Long (un mega-standard per lui: “Devil With The Blue Dress On”!), il grandissimo Edwin Starr e soprattutto Eddie Holland, che oltre ad autore è ottimo esecutore di un tris mozzafiato (“Leaving Here” –proprio quella- “Just Ain’t Enough Love” e “Candy To Me”). Se poi a portarci verso la fine arrivano pezzi da novanta dello stile come Isley Brothers e Detroit Spinners, e a chiudere le danze pensano prima i Contours e poi le Elgins, in una escalation northern soul non da poco, beh, è fatta.
In conclusione: un volume uno meno scatenato dei seguenti, una collana che potreste fare vostra dopo “Mod Faves Raves”, ma che a 5 euro a disco potete fare vostra comunque.
Non appena il calendario segna settembre e/o cadono due goccioline di pioggia e/o il cielo abbandona il blu per il caratteristico grigio, tutte i finestrini dei mezzi di trasporto pubblici restano contemporaneamente chiuse e chi prova ad aprirli viene guardato con astio e/o commiserazione dal resto dei passeggeri.
Non contano la temperatura (alta, alta) o l’umidità (altissima). Semplicemente, per il cittadino è finita l’estate.
77. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume One” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
78. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Two” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
79. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Three” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Abbiamo detto più in basso di come ciò che negli Stati Uniti usciva per i sottomarchi Gordy, Soul, VIP e Tamla e per la casa madre Motown, sul mercato britannico fosse raggruppato sotto un unico, storico marchio: Tamla Motown. Logico quindi che, oltre ai nomi di punta, soprattutto a metà anni ’60 raggiungessero il Vecchio Continente decine di artisti meno conosciuti. Proprio questi furono alfieri dell’epoca d’oro del northern soul, mentre il marchio americano diventava sempre più sinonimo di soul music patinata e sbiancata tendente al mainstream. Motown è una cosa, quindi. Tamla Motown un’altra. Se devo scegliere, pur amando entrambe, alle sviolinate preferisco i ritmi incalzanti e le ballate grezze. Nei tre volumi di questa raccolta, anch’essa disponibile a 5 euro a titolo più o meno in tutti i negozi di dischi della nazione, troviamo una equilibrata miscela delle due tendenze. Proprio come da titolo, vi si trovano successoni e rarità, ma nessuno dei nomi stranoti. La tracklist raggruppa brani degli stessi artisti e le note sono stringate ma precise.
Parte sviolinando il primo volume, con un ambo degli Originals, Bobby Taylor & The Vancouvers e i più rustici fratelli Ruffin, Jimmy e David, fuoriuscito dai Temptations nel 1968. Da qui in avanti, però, i ritmi aumentano. Non male i Rare Earth alle prese con una rielaborazione rock di due classici degli stessi Temptations come “Get Ready” e “(I Know) I’m Losing You”, ma coverizzare quelle cinque voci è compito ingrato. Da paura Edwin Starr: “War” è il pezzo più conosciuto della raccolta, probabilmente grazie alla cover che ne fece Bruce Springsteen nel cofanetto dal vivo, mentre “Twenty-five Miles” è un errebì grezzo come si deve. Stilosi come sempre i Detroit Spinners di “It’s A Shame” e “I’ll Always Love You”, i finale vira decisamente verso il northern soul femminile: The Elgins tra una ballata e un uptempo 100% girl group, Brenda Holloway (anche autrice, cosa non comune, di “You Made Me So Very Happy”) e Kim Weston a mettere in mostra la consueta classe.
Proprio Brenda Holloway apre il secondo volume, con il blues pianistico “Every Little Bit Hurts” ed il quasi doo-wop di “When I’m Gone”. Della grandezza delle Velvelettes abbiamo già detto, e se avete la loro antologia avete anche questi tre pezzi, ma ascoltarli di nuovo non vi farà certo male. Di Tammi Terrell pure si è già detto, e bene, mentre “Money (That’s What I Want)” di Barrett Strong è uno di quei pezzi ormai considerati degli standard rhythm’n’blues. Assaggiati i campioni Isley Brothers, è tempo per il misconosciuto e grandioso Shorty Long: “Here Comes The Judge” l’avevamo già scoperta su “Superfunk” firmata Larry & Tommy, ma è sempre un floor-filler di quelli seri, così come “Function At The Junction”. Ancora Temptations rivisitati per gli Undisputed Truth, e ancora superbo soul-rock chitarristico per i Rare Earth, mentre Supremes e Four Tops si riuniscono per “River Deep, Mountain High” (l’hanno fatta in mille, ma se trovate la versione dei pionieri punk australiani Saints tenetevela stretta). R. Dean Taylor fu probabilmente l’unico songwriter bianco ad avere una hit su Motown, e la sua “Indiana Wants Me” ha un sapore tra pop e folkrock che conquista. Lentazzi di Charlene (grande!) e della coppia Billy Preston & Syreeta ci accompagnano alla conclusione, dove sta il vero pezzo forte di un volume già notevole: “What The World Needs Now Is Love/Abraham, Martin And John”, pacchianissimo collage pacifista assemblato dal dj Tom Clay, con i testi dei brani dei Blackberries parlati sugli originali da lui e da un bambino, inframmezzati da registrazioni di Martin Luther King, eserciti in esercitazione ed azione, spari, sirene, radiogiornali, assassinio di John Fitzgerald Kennedy e chi più ne ha più ne metta. Crediateci o no, uno dei più grossi hit dell’etichetta.
Niente male anche il volume tre, comunque: comincia forte al femminile con Kim Weston al meglio e continua altrettanto con Velvelettes, Tammi Terrell e Brenda Holloway. Trascurabili le Supremes del 1975, indispensabili il già citato Shorty Long (un mega-standard per lui: “Devil With The Blue Dress On”!), il grandissimo Edwin Starr e soprattutto Eddie Holland, che oltre ad autore è ottimo esecutore di un tris mozzafiato (“Leaving Here” –proprio quella- “Just Ain’t Enough Love” e “Candy To Me”). Se poi a portarci verso la fine arrivano pezzi da novanta dello stile come Isley Brothers e Detroit Spinners, e a chiudere le danze pensano prima i Contours e poi le Elgins, in una escalation northern soul non da poco, beh, è fatta.
In conclusione: un volume uno meno scatenato dei seguenti, una collana che potreste fare vostra dopo “Mod Faves Raves”, ma che a 5 euro a disco potete fare vostra comunque.
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