È la porta d'ingresso in un mondo vulnerabile e puro, in cui sembra di sentire un Antony meno pomposo, un Jamie Lidell calmo o un Bon Iver fattosi nero e soulful, alle prese con un suono minimale e notturno dove galleggiano tasti elettronici e acustici, beat nitidi ed essenziali, voci manipolate e decostruite, effetti e rumori. Una cosa a metà strada fra intuizione e calcolo, ostica sulla carta ma capace di comunicare con l'esterno a un livello emozionale profondo. La prima metà dell'album è in special modo abbagliante: il crepitante r'n'b spettrale di Unluck; il crescendo inesorabile di Wilhelms Scream da lamento soul vecchio stile a fremente ammasso di bassi e droni; quello di I Never Learnt to Share, che comincia solo vocale, cambia pelle in mezzo a suoni sempre più tesi e inquieti e sfocia in uno spiritual alieno, mentre Blake ripete la stessa frase come un mantra; le due parti di Lindesfarne, autotune e pause prima, ritmo micro e melodia folk da pace dei sensi dopo, e altri bassi enormi.
La seconda metà è meno compatta e più riflessiva, ma altrettanto gratificante. Give Me My Month e Why Don't You Call Me sono brevi e dolci ballate per piano e voce, la seconda caratterizzata da un lavoro radicale sulle voci. To Care (Like You) alterna ritmo dubstep/techno al rallentatore e stasi atmosferiche che ne enfatizzano le arie da Stevie Wonder malinconico. I Mind è anche lei in bilico fra serenità e tensione, e fosse in un disco di Burial non ci meraviglieremmo. Measurements chiude in gloria, con solennità gospel e ricordi dell'Arthur Russel più etereo e intimista.
(Rumore n. 229)
Il rischio sarebbe quello di arrivare a cose fatte. Con i tempi del mensile mentre fioccano le pagine dei quotidiani, e le lagnanze di quelli (pochi per fortuna) che era meglio prima. Fortuna che c'è BPM, le due paginette in cui ogni mese il sottoscritto e il maestro Valletta cercano di aprire finestre su ciò che si muove in ambito dance ed elettronico. James Blake lo abbiamo intercettato lì, un annetto fa. Che fosse un fuoriclasse dal futuro radioso e più vasto dei confini di genere è stato evidente fin da subito, ma una evoluzione così rapida e continua era dura da prevedere. Evoluzione che non implica necessariamente un miglioramento: Blake era meglio prima ed è meglio adesso, semplice. Ma il percorso che ha portato al suo eccezionale album omonimo - disco del mese nello scorso numero, pubblicato in digitale a inizio febbraio e subito schizzato nei primi dieci anche in Italia, con uscita fisica programmata per marzo - è davvero qualcosa di inusuale per tempi e qualità.
Un anno e dieci mesi fa, per cominciare, a firma James Blake non esisteva nulla. Un primo 12” (Air & Lack Thereof) è arrivato a giugno 2009, seguito da un remix per Untold. Poi è cominciato un 2010 che il ragazzo di Deptford e i suoi fan non scorderanno facilmente: tre 12” uno più bello dell'altro (The Bells Sketch a marzo, CMYK a giugno, Klavierwerke a ottobre), più un 10” co-firmato con Airhead (Pembroke), un apprezzato remix per gli amici Mount Kimbie, un bootleg di A Milli (quella di Lil Wayne, esatto: è anche ironico) e verso fine anno il botto definitivo. Ovvero, quella cover di Limit to Your Love di Feist che ha impiegato giusto 4'40” per diventare sua e basta. Ridotta all'essenziale, spogliata della strofa, voce e pianoforte appoggiate su bassi mostruosi e silenzi. Biglietto da visita perfetto per l'album di cui sopra, che la contiene insieme a dieci tracce autografe in cui un dubstep più immaginato che reale si mescola a brandelli di soul futurista, e a una cura maniacale di ogni particolare sonoro. Pazzesco, vero? Ed è nato nel 1989, il bastardo.
Raccontaci la tua storia, innanzitutto. Quali sono stati i tuoi primi contatti con la musica?
Ho cominciato a fare musica quando ero molto giovane, alle elementari, verso i nove anni. In famiglia avevamo un piano, un'armonica, una chitarra... io suonavo il piano e cantavo. Mio papà aveva dell'attrezzatura e registrammo anche qualcosa, così, per averla. Ma non ricordo di cosa si trattasse.
La tua è una famiglia musicale, quindi?
Sì, specialmente mio papà. Suona la chitarra e canta, e mi ha insegnato un po' di cose sul registrarsi da soli. Cantavamo tutti insieme, Happy Birthday in macchina andando al mare, cose così.
Lui non lo dice, ma viene in aiuto un suo tweet dell'11 febbraio (“James Litherland È mio padre, non un tipo che è stato prodotto da mio padre”) in risposta a un pezzo di Pitchfork (“La cosa divertente di The Wilhelm Scream di James Blake è che si tratta di un'interpolazione di Where to Turn, del cantante soft-rock britannico James Litherland, che come ha detto lo stesso Blake in un'intervista a Zane Lowe di BBC 1 è stata prodotta da suo padre”). Insomma: suo papà alla fine degli anni '60 era nientemeno che il chitarrista e cantante dei Colosseum, culto minore del jazz/prog britannico. Where to Turn è una mezza merda, sia detto, ma chi già non può farne a meno sappia che sta su 4th Estate, album solista del 2006. Nella citata sessione radiofonica, sempre per stare in tema, Blake ha anche suonato una cover per voce e piano di A Case of You di Joni Mitchell, manna per chi sposa la tesi della antonyzzazione precoce del ragazzo.
Quali sono state le tue prime passioni musicali?
Non ne sono sicuro. La musica per molto tempo è stata qualcosa che ero consapevole di fare, ma non qualcosa per cui mi appassionavo. La amavo, era perfettamente naturale per me, ma non direi che fosse una mia passione. Lo è diventata più tardi.
Compravi dischi?
No. In casa avevo la musica dei miei genitori o prendevo in prestito i cd in biblioteca, e ovviamente internet ha dato una mano. Non avevo soldi da spendere nella musica. Non che non ne avessi in assoluto, ma non consideravo la possibilità di possedere della musica. In casa c'erano molti cd, e io ascoltavo quelli. Non cercavo nuova musica, tutto quello che mi interessava lo sentivo nel mainstream o lo avevo lì, non avevo bisogno di comprarlo.
Che dischi ricordi?
Sam Cooke e molto soul, ma anche Jimi Hendrix, molto rock, del funk. Con il piano provavo ad andare dietro alle canzoni.
Hai anche studiato musica a scuola, prima alle superiori e poi al prestigioso Goldsmiths, Università di Londra.
Alle superiori mi piaceva molto. All'università era ok, ma non pensavo che quello studio mi sarebbe stato molto utile.
Come si passa da tutto questo a te che fai uscire vinili per alcune fra le etichette elettroniche più importanti in circolazione?
È stato un vero switch. La settimana prima suonavo il piano per conto mio, come al solito, e quella dopo... ero andato a una serata a Londra, Forward, e lì avevo scoperto questa musica nuova. Non avevo sentito molta elettronica prima, e di certo non la ascoltavo a casa, ma lì ho drizzato le orecchie. Ho voluto subito farne di mia, e l'unica maniera per farla era comprando un laptop; andavo all'università e avrei avuto bisogno di un laptop comunque. Mio padre mi aveva già mostrato un po' di cose. Ho cominciato a fare del dubstep, volevo... sì, volevo solo fare del dubstep.
Creata nel 2001, Forward (anche nota come FWD>>) è l'atto di nascita pubblico del dubstep, il suo uscire dai negozi di dischi e dalle camere da letto di Londra Sud per farsi movimento. Idem dicasi per il coevo grime e per il più recente funky. Ci sono passati tutti, da Skream a Kode9, da Dizzee Rascal a Wiley. La bass music londinese del futuro diventa presente lì, e sulle frequenze di Rinse FM.
Chi suonava quella sera?
Penso fosse Coki, o Loefah. Era musica così scura, introspettiva, pesante. Mi ha spazzato via. Una delle migliori notti della mia vita, è cominciato tutto lì.
Pochi giorni dopo eri a casa a fare musica sul tuo computer. Hai prodotto molte cose prima di Air and Lack Thereof?
Sì, ma nessuna verrà pubblicata! Era un terreno del tutto nuovo per me, è quello che ho sempre cercato, in qualunque cosa facessi. E le cose nuove sono molto più possibili con l'elettronica.
Ti sei accorto che quello che veniva fuori non era dubstep canonico?
No, pensavo fosse dubstep.
I confini del genere in effetti sono molto ampi...
Lo sono ora, non lo erano nel 2007. Mala, Coki, Skream, Benga: quella gente suonava dubstep, non altro. Allora il dubstep era post-garage, era il nuovo garage, perchè era la cosa che veniva dopo. Aveva tutti gli elementi del garage, ma con il tempo dimezzato. Quando scrivevo non pensavo a una definizione ampia del dubstep, per me era puramente batteria e basso, non c'erano molte opzioni. Le cose sono venute fuori un po' diverse... è così che è nato il post-dubstep: molti volevano fare dubstep ma non sapevano come, non avevano la stessa ispirazione musicale di chi ha creato il dubstep originale. Avendone un'altra, hanno fatto musica diversa, che essendo così pesantemente influenzata dal dubstep è stata chiamata post-dubstep.
Che ne pensi del dubstep attuale?
Come in ogni genere esce molta merda, e molta musica invece eccellente. È un genere che non ha bisogno di dare spiegazioni riguardo la sua rapida evoluzione, possiamo semplicemente apprezzare i vari tipi di musica nei quali si è frantumato. Ma non ci penso molto, ho amici che fanno ottime cose e me le passano, la gente della Hemlock, della Hessle, della R&S. Non ho bisogno di ascoltare valanghe di wobble.
Quali sono i tuoi produttori preferiti al momento?
Blawan e Joy Orbison. Blawan fa garage molto coraggioso, mentre Joy Orbison ha saputo elevarsi al di sopra dell'hype che lo circondava e passare oltre, per produrre le sue cose migliori di sempre.
Quanto è stato importante il dubstep nello sviluppo del tuo linguaggio?
Enormemente. Mi ha insegnato lo spazio, e l'importanza del sound design, dell'essere estremamente meticoloso nei confronti del suono. Perchè un charleston suona come suona, che reazione provoca nella gente il cambiarlo anche solo leggermente. Ogni singolo suono in ogni mia traccia è pensato in questa maniera. Non lo sarebbe se non fossi passato dal dubstep.
La tua etichetta insieme al disco mi ha mandato i testi, e l'ho apprezzato. Non succede quasi mai, soprattutto in generi vicini alla scena elettronica. Immagino siano molto importanti per te...
Sono incredibilmente importanti. Danno un'idea del perchè le canzoni siano venute fuori. Sono piccoli riassunti, in forma quasi di haiku, delle cose che mi sono successe o che mi stavano succedendo durante l'anno e mezzo in cui l'album è stato scritto. Sono stati scritti in momenti molto diversi fra loro, non significano o rappresentano la stessa cosa, ma è vero che stanno bene insieme e si adattano bene alla musica. Alcuni sono incredibilmente tristi e comunicano un fortissimo senso di isolamento, altri invece no, almeno per me.
La cover di Limit to Your Love è bellissima, penso sia uno di quei casi in cui un artista prende una canzone che ama e la fa sua. Come la hai scelta?
Grazie! La prima versione era semplicemente una sperimentazione, che avevo cominciato al pianoforte dopo avere sentito l'originale da un amico. Più avanti ho usato quella registrazione nella produzione dell'album, ed è diventata la traccia che è ora.
Stai lavorando a cose nuove? Vedi già una direzione?
Sto sempre lavorando a materiale nuovo, e spero di non smettere mai. Non so esattamente dove andrò, ma voglio produrre musica senza voci e senza accordi, spinta solo dal ritmo.
(Rumore n. 230)