29/11/08



13. The Zen Circus & Brian Ritchie Villa Inferno (Unhip).
Brian Ritchie produttore del disco e membro stabile in formazione, pezzi da novanta del rock alternativo americano come Jerry Harrison (tastiere nella "sua" Wild Wild Life) e le sorelle Deal (voci in Punk Lullaby): basterebbero le cose più evidenti a certificare la raggiunta statura internazionale degli Zen Circus . Ma non è solo facciata, i tre pisani le stellette le hanno guadagnate sul campo, stando sul palco come rocker di primissima categoria e realizzando dischi sempre più convincenti. Musicalmente vario, ora punk ora cantautorale, ora acustico ora elettrico, Villa Inferno ha il consueto approccio cosmopolita (si sente cantare in serbo e francese, oltre che inglese e italiano) e anima stradaiola, e belle canzoni come Dirty Feet, Beat the Drum, Vana Gloria. Tutto bello e convincente. Eppure, tutto piccolo piccolo di fronte a due cose enormi come Figlio di puttana e Vent'anni. Canzone italiana allo stato puro, Festival di Sanremo dei sogni. Due gioielli di struggente autobiografia, personale la prima e più generazionale la seconda, un minuto e cinquantasei secondi che finiscono troppo presto, ma dei quali non si cambierebbe nulla, perfetti. Magie di fronte alle quali una cover (peraltro riuscitissima) dei Talking Heads con il loro tastierista come ospite pare persino inutile. O fuorviante. Ospiti famosi o meno, è Andrea Appino che scrive e canta, sono gli insostituibili Ufo e Karim che chiudono il cerchio. Ed è questa, poche storie, la via per gli Zen Circus del futuro. Che non vediamo l'ora di ascoltare.
PS - Consigliata l'edizione in vinile, con copertina gatefold e la cover di My Heart & the Real World dei Minutemen come gradito bonus.

28/11/08



14. Portishead Third (Universal).
Sei anni di pausa completa, e quindi tre anni di lavorazione per un terzo disco che si temeva non uscisse più, ormai. Invece esce, ed è il più coraggioso che i Portishead abbiano mai fatto. Il più sperimentale e rischioso. Difficile che piaccia ai nostalgici del trippop, per esempio: certo la splendida voce di Beth Gibbons è sempre quella, e anche se mancano quasi del tutto le atmosfere fumose che hanno reso famoso il gruppo, i brani più pacati sono comunque grossomodo quella cosa lì. Solo costruita su basi più scarne e minimali, e percorse a tratti da una sotterranea vena rumorista.
A rubare la scena è però l'altra metà scarsa di Third, cinque pezzi in cui davvero i tre sparigliano: l'iniziale Silence, cupa e poi incalzante con ipnotico ritmo breakbeat e chitarre elettriche, e la voce che non entra fino a quando la tensione non è al massimo; The Rip, che parte solo con voce e arpeggio, e diventa spedita e quasi serena; la conclusiva Threads, litania quasi sabbathiana, l'hard-rock psichedelico secondo i Portishead. Ma soprattutto il treno kraut-rock inarrestabile di We Carry on e la spettrale Machine Gun, accompagnamento marziale e duro come da titolo, essenziale e sempre uguale per quasi cinque minuti. Due delle loro cose migliori di sempre, che illuminano un grande ritorno.

27/11/08



15. AA.VV. Como Now (Daptone).
La consacrazione della Daptone come grande etichetta dei nostri tempi arriva con una raccolta che ha un valore antropologico pari, se non superiore, a quello puramente musicale. Con i Dap-Kings richiestissimi e il loro suono soul-funk sulla cresta dell’onda, cosa fanno Roth e Sugarman? Pubblicano un album di gospel a cappella, cantato da perfetti sconosciuti. Teatro degli eventi è la cittadina di Como, contea di Panola, Mississippi. Nell’estate del 2006 appare un annuncio sui giornali locali: tutti coloro che amano cantare sono invitati in chiesta, per registrare. I sedici focosi inni di Como Now, almeno uno per ogni cantante o gruppo vocale presentatosi, sono il commovente risultato: materiale di una purezza disarmante, originale o tradizionale che sia, giovani o anziani che siano i suoi interpreti. Affrontato con una gioia e un trasporto che la presa diretta rende lampanti, e in più di un caso (ascoltate ad esempio Help Me to Carry on di Brother and Sister Walker, marito e moglie in realtà) di valore assoluto. (da Rumore #200)

26/11/08



16. Le Luci Della Centrale Elettrica Canzoni da spiaggia deturpata (La Tempesta).
Ferrarese, ventiquattrenne, i riferimenti culturali alti e bassi di chi si è informato con cura, l’aria di chi ha già fatto in tempo a vederne tante, una urgenza comunicativa che sconfina nella logorrea: Le Luci Della Centrale Elettrica è Vasco Brondi, ed è una delle novità più originali del cantautorato indipendente italiano. Registrato da Giorgio Canali, Canzoni da spiaggia deturpata è il suo album di debutto, ed è una mezz’ora abbondante grezza e assai monotona (due i modelli di canzone disponibili: quello rabbioso e quello un po’ meno rabbioso), ma piena di tensione e vita. Nonostante la provincia raccontata nelle sue cronache visionarie paia davvero cupa e senza speranze, paranoica proprio come l’Emilia di quei CCCP che cita fra i suoi numi tutelari insieme a Moltheni e Cesare Basile. Ma nella rabbia di Vasco si odono anche echi del Nick Cave selvaggio dei primi tempi (Sere feriali, Fare i camerieri) e di Rino Gaetano (citato anche esplicitamente, nella coda di Nei garage a Milano nord). E si perdoni la banalità, ma quando sale il ritornello di Produzioni seriali di cieli stellati, è un attimo pensare alle pagine più riflessive di quell’altro cantautore emiliano di nome Vasco. (da Il Giornale della Musica #248)


17. Benga Diary of an Afro Warrior (Tempa).
Conquistato dalla sua esibizione di poche settimane fa a Club To Club - davvero travolgente, con cambi frenetici di vinile e capacità di tenere la pista in fermento dall'inizio alla fine - oltre che dalla sua pettinatura e dalle sue sembianze fumettistiche, trovo un posto nei migliori venti dell'annata per l'esordio di Beni Uthman, in arte Benga. Già uno dei pialstri della scena dubstep, avendo cominciato intorno al 2002 alla tenera età di sedici anni, incarna in pieno la natura stessa del genere come stile mutante, aperto a numerose influenze e difficilmente inquadrabile in regole precise. Fatta eccezione per gli echi e i bassi, ovviamente. Diary of an Afro Warrior - ok afrocentrismo e compagnia, ma che sia forse un titolo leggermente eccessivo, soprattutto per un album praticamente strumentale? - conferma le impressioni destate dal suo artefice in prima persona: c'è voglia di superare i confini del genere, quali essi siano, ma c'è soprattutto uno sguardo alla pista da ballo superiore alla media del genere. In Night ovviamente, portentoso singolo del 2007 realizzato in coppia con il collega Coki e qui incluso, che entra in testa e non se ne va. Ma anche nel resto, che pur non raggiungendo tali altezze (saremmo altrimenti nelle prime dieci posizioni) riesce sempre ad accoppiare tonalità profondissime, sporche linee electro e ganci melodici notevoli. In The Cut e 26 Basslines, in cose acide e quasi house (E Trips, Pleasure), in cose più notturne e jazzate (Zero M2, Crunked up, B4 the Dual), in fresche puntate cosmiche.

22/11/08



18. Bonnie “Prince” Billy Lie Down in the Light (Domino).
Un altro disco di Will Oldham, uscito all’improvviso. Lo ascolti tre volte, non colpisce particolarmente. Poi ti trovi in un negozio di dischi qualche giorno dopo. Sta suonando, e ne canti tutte le canzoni chiedendoti cosa diavolo sia. E lì cogli la grandezza del barbuto. La conoscevi già, ma mai si era manifestata in modo così semplice e profondo: le stesse qualità che rendono Lie Down In The Light un dei suoi dischi più belli di sempre. Violino, pedal steel, banjo, trombone e clarinetto (che entrata in For Every Field There’s a Mole!) spuntano sempre al momento giusto, così come la bella voce campagnola di Ashley Webber, o il brevissimo coro che chiude in gloria I’ll Be Glad, e il disco. Un album americano tradizionale, ma illuminato da uno stato di grazia lampante. Sereno e placido nella sua decisa impronta fra country e West Coast, anche quando le atmosfere si fanno più meditative e scure. Maestoso nell’avere bisogno di poco (ma in realtà è tantissimo) per incantare. (da Rumore #198/199)

21/11/08



19. Dead Meadow Old Growth (Matador).
Che bellezza. Li si aspettava da tempo i Dead Meadow, le orecchie e i cuori ancora storditi dallo splendido Feathers (2005), e come previsto non tradiscono. Si sono trasferiti da Washington a Los Angeles nel frattempo, e la mossa non può non aver avuto effetto sul suono del gruppo. Old Growth evoca infatti sia i boschi della copertina, come sempre, sia immagini assolate e pomeridiane che sono pura Citta degli Angeli. Sentite la meravigliosa What Needs Must Be, per esempio: Crosby, Stills, Nash e soprattutto Young in jam con i Black Sabbath più pacati. O la coda molto Riders on the Storm di The Queen of All Returns. Ma è tutto un procedere gentile e cantilenante, fatto di riff al rallentatore e poesia, lungo il quale si incontrano altre bellezze come ‘Till Kingdom Come, galoppante e luminosa, con wah wah e fuzz che si abbracciano e finale d’archi. O l’acustica Down Here, che pare un pezzo mai ritrovato di Elliott Smith. O i 13th Floor Elevators che incontrano i Creedence in I’m Gone, con Dream Syndicate e Green On Red ad osservare. Forse saranno stati superati a sinistra, in campo rock psichedelico, dalle evoluzioni dei Black Mountain. Ma i Dead Meadow compensano con scrittura e tocco rarissimi, e il dono del saper commuovere in un’istante. (da Rumore #193)

20/11/08

I miei dischi dell'anno

Come ormai abitudine - il secondo anno consecutivo fa già abitudine? - di questo blog che non legge nessuno, siamo alle classifiche di fine anno. I giornali per cui scrivo le vogliono molto presto.
Come sempre, ci saranno dischi dimenticati, dischi che ascolterò dopo e dischi che ascolterò meglio, ma così ci tocca fare.
Come sempre, dei dischi che durante l'anno ho avuto modo di recensire io stesso pubblicherò innanzitutto la recensione stessa, ed eventualmente qualche aggiornamento o rettifica o mea culpa.
Si dia quindi il via all'avvincente countdown, non sto nella pelle nemmeno io.



20. Bugo Contatti (Universal).

Buone notizie da Bugo: dopo un’irruzione da apripista underground nel mondo stantio della grande discografia nostrana di inizio decade, il menestrello di origine novarese – un Celentano post-punk, per semplificare e scansare l’abusata definizione di “Beck delle risaie” – pareva destinato ad una aurea mediocritas senza troppi alti o bassi. E invece, Contatti lo rilancia in grande stile. Grosso merito, va detto, è da ascrivere al produttore Stefano Fontana, che dà al disco i tratti elettronici, la misura e il gusto delle sue uscite a nome Stylophonic. E forse anche per questo Bugo suona ispirato e quasi nuovo, pur essendo in sostanza il Bugo di sempre: spesso geniale e bruciante, talvolta troppo fisso nella ricerca della rima a prescindere, con il senso che non sempre arriva, o se arriva non pare così cruciale. Ma sono dettagli, di fronte al groove rilassato di piano elettrico del singolo C’è crisi, al Battisti mezzo Mogol e mezzo Panella di Love Boat, al vecchio amore Beck spedito a 140 bpm di Nel giro giusto, a una bomba funk-house come La mano mia. Sodalizio fortunato insomma, che fossimo in Cristian Bugatti faremmo di tutto per rendere permanente. (da Il Giornale Della Musica #248)

10/11/08

"No, meglio fermarsi qua"

Un Emilio Fede guardonissimo e perversamente crooner, e una lezione magistrale di Tecniche di Costruzione della Paura dal Nulla.

07/11/08

"Totally freaking out, headbanging like every tune he is playing is written by himself"

E ora, qualcosa di completamente diverso.
Cinque alto per BRRRLN, che oltre a postare spesso ottime tracce non ha paura di andare controcorrente e spiegare come mai, secondo lui, il re è nudo. Steve Aoki, che avevate capito?

06/11/08

Mai dire gatto...

Una di quelle cose che solo gli statunitensi riuscirebbero a fare, persino in un momento epocale come questo? Anzi, proprio in un momento epocale come questo?
Esiste da qualche ora, incredibile ma vero, un gruppo di Flickr chiamato "Cats Celebrate Obama's Victory".
Come faccio a saperlo? Potenza delle tags, anche la mia Nina è stata chiamata a farne parte. Ccon una foto di qualche giorno precedente le elezioni, a dire il vero, ma non sottilizziamo.

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