Pensavo e speravo che questo momento non arrivasse mai, o quantomeno che tardasse e tardasse, ma alla fine non ce l’ho fatta. Fratelli e sorelle mi tocca finire qui. La vita prosegue incurante di questa misera paginetta, gli impegni si accumulano e diventano sempre più seri, il tempo è sempre lo stesso. Diventa indispensabile tagliare, e “Soul Food” non è l’unico ramo a farne le spese. Pensavo di potercela fare, per un po’ ce l’ho fatta, ma sotto sotto forse mi sbagliavo. Un “Soul Food” blando che timbra il cartellino non è il “Soul Food” che avevo in mente e che nei suoi migliori momenti è stato. Spero sarete d’accordo con me.
E ora? Potete rileggere gli archivi (fino a quando Blogger vorrà tenerli in piedi), potete continuare a scrivermi (forse ora avrò più tempo per rispondervi, chissà…), potete tenere d’occhio il sito della mia etichetta (Love Boat) e quello del mio gruppo (Disco Drive), potete -se proprio vi mancherò- leggermi in edicola su “Rumore” e online su “Sodapop”. Capito perché?
Ma potete, soprattutto, uscire di casa e andare a cercare dischi perché sentite che in quel momento è l’unica cosa che davvero volete fare. Tornare con nomi mai sentiti o titoli che cercavate da anni, offerte speciali inaspettate e mezzi pacchi da far fuori subito. “Soul Food” parlava anche e soprattutto di questo.
Andate e moltiplicatevi.
PS - Visto il consueto e spesso massiccio scarto temporale tra il giorno dell’acquisto e quello della pubblicazione, ci sono un po’ di titoli che attendevano pazientemente il loro turno. Per uno di questi mi ero portato avanti con il lavoro, degli altri vi bastino i dati essenziali.
32. VV.AA. In The Beginning There Was Rhythm
(Soul Jazz 2002, cd nuovo, € 20.60)
33. Antelope Antelope
(Dischord/Bug 2003, cd nuovo, € 10.00)
34. Measles Mumps Rubella Measles Mumps Rubella
(demo 2002, cd nuovo, € 5.00)
35. Measles Mumps Rubella Zusammen Mit Motown / Lighters Out
(M’alady’S 2003, 7” nuovo, € 5.00)
36. The Rolling Stones Singles Collection – The London Years
(Abkco 1986, 3cd usato, € 7.15)
Uno di quei colpi che ti fanno ridere a settantacinque denti. Leggendario cofanetto che ordina cronologicamente in tre cd, con note dettagliatissime su ogni singolo pezzo, tutti i singoli degli Stones usciti su London. Quindi: il periodo migliore. Quindi: la scaletta ideale, perché è sui singoli che si basa la discografia della band negli anni ’60. Quindi: a soli 15 euro, ulteriormente abbassati da un po’ di croste lasciate in cambio al negoziante, chi non lo prende è clinicamente morto. Chi lo vende, lasciamo perdere. Chi lo prezza 15 euro, magari pensandolo alla stregua delle raccoltazze doppie o triple che tutti conosciamo, lasciamo perdere. Archivi di ottobre e novembre 2002 per approfondire.
37. The Stranglers Rattus Norvegicus
(United Artists 1977, lp usato, € 2.85)
38. White Stripes Elephant
(XL 2003, cd nuovo, € 17.50)
39. Junior Kelly Bless
(Penitentiary 2003, cd nuovo, e 20.10)
40. Joe Bataan Latin Funk Brother
(Vampi Soul 2003, cd usato, € 10.33)
41. Massive Attack Special Cases
(EMI 2003, cds nuovo, € 5.60)
42. Painè Spontaneous
(Temposphere 2003, cd nuovo, € 16.90)
43. Bright Eyes Lifted or The Story Is In The Soil, Keep Your Ear To The Ground
(Saddle Creek/Wichita 2002, cd usato, € 10.33)
44. Amanda Woodward Ultramort
(autoprodotto 2002, cd nuovo, € 6.00)
45. Amanda Woodward Pleine De Grâce
(Waiting For An Angel 2003, cds nuovo, € 5.00)
46. Nusrat Fateh Ali Khan Mustt Mustt
(Real World 1990, lp usato, € 5.00)
47. Tsunami Deep End
(Simple Machines 1992, lp usato, € 5.00)
48. Beauty Pill The Cigarette Girl From The Future
(De Soto/Dischord 2001, cd nuovo, € 8.00)
49. VV.AA. We Are Getting Bad – The Sound Of Phase One
(Motion 2003, cd nuovo, € 20.00)
50. The Kills Black Rooster e.p.
(Domino 2002, mcd usato, € 5.00)
51. Broadcast Pendulum
(warp 2003, cds nuovo, € 5.50)
52. Il Balletto Di Bronzo Ys
(Polydor 1972/2993, cd nuovo, € 4.80)
53. VV.AA. Funk Drops – Breaks, Nuggets And Rarities
(Warner 2001, cd nuovo, € 12.85)
26/05/03
11/05/03
31. La Quiete/The Apoplexy Twist Orchestra split
(Heroine 2003, 7” nuovo, € 3.00)
Ho perso il contatto già da tempo con tutto quanto è screamo (leggi: scream+emo, leggi la strada che parte dell’hardcore punk ha preso dai tardi ’90 in poi), e faccio francamente fatica a orientarmi nella miriade di dischi usciti ed etichette attive in tutto il mondo. Non sono quindi la voce più attendibile in materia (se mai in qualche materia lo sia), ma vi dico lo stesso che secondo me i romagnoli La Quiete hanno i numeri per elevarsi. L’ingresso in formazione del boy wonder Roccu ha fatto alzare il tiro, rendendo più complicate ed epiche le trame chitarristiche melodiche appoggiate sul caos prodotto dal resto della band. Se devo trovare un punto debole, dirò che la voce mi sembra poco efficace, e che i pezzi dello split con i francesi Acrimonie avevano un’immediatezza maggiore. Sull’altro lato, la tedesca Orchestra Del Colpo Apoplettico suona al confronto molto più metallica e datata, e non mi dice molto.
30. Morrissey Bona Drag
(EMI 1990, lp nuovo, € 4.20)
Qui davvero non so da che parte cominciare.
Forse un giorno mi dilungherò sugli Smiths e sulla mia adolescenza. Bastino i segni indelebili che hanno lasciato, non solo fisicamente.
Quando si sciolsero, i seguaci presero più o meno due strade: chi continuò a seguire fedelmente Morrissey e chi invece lasciò perdere. Il sottoscritto appartiene (da solo?) alla seconda categoria. Uscì Suedehead e mi piacque, ma lasciai perdere. Non so bene perché. Oggi posso ripensarci per la prima volta. Gli Smiths erano una cosa, Morrissey un’altra. Certo i testi sono scritti dalla stessa persona, e non ricondurrei la fondamentale differenza alla sola chitarra di Marr o alla ritmica Joyce/Rourke, o alla più nitida forma pop delle prove soliste. È tutto ad essere diverso. Manca la violenza. Gli Smiths furono un’esperienza violenta, perché rivelatoria e cruda, perché inevitabile e indispensabile.
Morrissey è un’altra cosa, e chissà perché non mi ha mai coinvolto al di là dell’ascolto del singolo di turno. Non che non mi piacesse, semplicemente e involontariamente non mi interessava. Comprai Viva Hate usato qualche tempo fa, ma è inutile calcolare la frazione di ascolti che ha avuto in rapporto a qualunque vinile degli Smiths. Addirittura, non ero nemmeno sicuro che il mio unico disco di Morrissey non fosse proprio questo, prima di comprarlo e magari ritrovarmi in casa un doppione!
A mente fredda e molti anni dopo, ascolto Bona Drag con molta curiosità (e nonostante la copertina davvero orribile... è così bello il retro, non potevano invertire?). È una raccolta di singoli, uscita solo due anni dopo il suo esordio solista. Ma in quei due anni di singoli ce ne sono stati ben sette, due tratti dal suddetto esordio e ben cinque rimasti lì a riempire la lunga attesa per il seguito, il poco fortunato Kill Uncle. Si tratta, dicono gli esperti, di alcune tra le migliori cose a nome Morrissey. Si tratta, dico io, di un gran bel disco. I lati a sono ormai storici -Suedehead, Everyday Is Like Sunday, The Last Of The Famous International Playboys, Interesting Drug, Ouija Board, Ouija Board, November Spawned A Monster e Piccadilly Palare- e tra i lati b spuntano chicche come Hairdresser On Fire e Such A Little Thing Makes Such A Big Difference (oltre alla citazione/omaggio/ripoff di quel capolavoro assoluto che è How Soon Is Now? in Disappointed).
Ora però basta, o divento nostalgico.
29. Public Image Limited Paris In The Spring
(Virgin 1980, lp nuovo, € 4.20)
Sempre nei piani alti del negozietto, sempre in edizione italiana ancora incartata, trovo questo live dei Public Image Limited. Passo indietro: dei P.I.L. non ho nulla. Ricordo l’omonima Public Image Ltd. su una cassetta punk di quarta generazione doppiata dal fratello maggiore di un amico a quattordici anni circa, e ricordo come fu l’unico pezzo a piacermi quando ascoltai sconcertato l’intero First Issue. Capirete, spero: avevo appena scoperto i Sex Pistols e già mi toccavano i Public Image Limited! Ricordo anche, l’anno seguente, il disco che si chiamava Album su vinile, Compact Disc su cd e Cassette su cassetta, quello con il singolo che si vedeva anche in tv, e fui più volte sul punto di comprarlo in uno dei due negozi cittadini. Ma allora di dischi ne compravo uno o due al mese, e scelsi altirmenti.
Moltissimi anni dopo, memore dell’incitamento dell’ex collega pericolosamente simile all’Ozzy giovane a cui già accennai, trovo questo live e lo prendo a scatola chiusa. Tre pezzi dall’esordio e quattro dal successivo Metal Box/Second Edition. Il suono è immediatamente ostico, Theme piazzata in apertura non aiuta certo, ma presto vengono fuori le ritmiche dubbeggianti che Ozzy mi magnificava. La voce di Lydon è fastidiosa il giusto, i tempi sono caterpillar di basso e batteria (le quattro corde di Jah Wobble sono ancora della partita) percorsi da lancinanti sventagliate di chitarra a cura di Keith Levene. C’è spazio anche per accelerazioni dance mutanti (Bad Baby), timidi ricordi punk (Low Life) e sprazzi di pop (la finale Poptones). Mi piace.
10/05/03
28. Pete Shelley XL1
(Genetic/Island 1983, lp nuovo, € 4.20)
Ancora Buzzcocks. Pete Shelley ne era leader e autore principale, ma quello che doveva diventare il quarto album di una band unica e in continua progressione diventò in realtà il suo primo vero disco solista. Entrato in studio per registrare dei provini con il produttore Martin Rushent, ne uscì completamente flippato per l’elettronica e con in mano Homosapien, ovvero il suddetto quarto album dei Buzzcocks in verisone synth-pop. Gruppo sciolto a suon di avvocati, fans sconcertati.
XL1 segue di due anni, reintroducendo chitarre elettriche e ambientazioni più rock, ma ammorbidendo la verve punk-pop del suo autore (che del punk-pop può essere considerato tra gli inventori). Ecco, non si trattasse di Shelley difficilmente presterei attenzione al disco nella sua interezza. Qua e là affiora la consueta classe (l’iniziale Telephone Operator, la melodia tribale di What Was Heaven?, i ricordi di You Know Better Than I Know, la title-track), lì o altrove giurerei di aver sentito premonizioni di Subsonica quindici anni prima.
Ma per l’acquisto al buio, un’altra cosa mi ha convinto definitivamente: come annuncia un volantino confezionato con la copertina, XL1 “Contiene un programma per il computer ZX-Spectrum 48 K – istruzioni all’interno”! E dentro c’è proprio il foglietto con le istruzioni in italiano (anche qui, stampa Ricordi): “L’ultimo brano della facciata B è un programma adatto per il computer ZX Spectrum (48 K). COME FUNZIONA? Registrare il codice su una musicassetta, (…) caricare il Computer con il programma ora contenuto nella musicassetta, (…) sincronizzare l’inizio del programma con l’inizio del disco. mentre la musica suonerà, il Vostro televisore mostrerà non solo disegni grafici, ma anche i testi delle canzoni”.
Fantastico. Troppo avanti.
Per me poi, che fui un kid dello ZX particolarmente duro verso l’odiato Commodore! Ah, averlo adesso il mio amato parallelepipedo nero, piccolo e metallico, con il registratore e il televisore collegati! Ma ve lo immaginate? L’antenato della traccia cd rom sui cd odierni! Nel 1983! Se qualcuno tra voi ha ancora lo ZX batta un colpo.
27. Magazine Play
(Virgin 1980, lp nuovo, € 4.20)
Torno il giorno seguente, punto dritto alle mensole più alte e chiedo al baffetto titolare uno sgabello, una sedia. È incredulo. Sono probabilmente il primo ad avergli mai chiesto una cosa del genere. Deve essere piuttosto raro da queste parti uno che in un negozio di dischi vuole vedere… dei dischi. Chi altro passerà sulla via pedonale della ridente località e degnerà di uno sguardo due mensole di vinile irraggiungibili da terra? Forte di questo argomento, al momento di andarmene chiedo lo sconto sulla quantità. Lui -diviso tra “questo è pazzo e mi sta liberando delle croste” e “questo deve per forza essere uno che se ne intende”- inizialmente tentenna, poi accorda uno sconto pur se minimo. E io esco con poco ma buono vinile selezionato che mai avrei immaginato di trovare, ancora incellophanato, la domenica pomeriggio proprio lì.
Il live dei Magazine, ad esempio, che per il sottoscritto è un ritorno. L’avevo infatti ascoltato anni e anni fa grazie al prezioso consiglio dell’amico Franco (maximum respect al postino rock e alla sua collezione da me ampiamente saccheggiata quando ancora si facevano le c90, senza badare troppo all’accoppiamento tra i due lati), ma non mi era piaciuto. Forse non ero pronto, ho pensato prendendolo ora a scatola chiusa e dopo quasi dieci anni, ma ascoltandolo mi accorgo di non essere molto pronto nemmeno ora per il rock-wave teatrale e tastieristico dell’ex-Buzzcocks della primissima ora Howard Devoto e dei suoi accoliti (spicca Barry Adamson al basso). Forse Play non è il disco migliore per farsi un’idea sul gruppo, forse i suoni non sono esattamente quelli dei dischi in studio. Ma è anche vero che, in teoria, un live dalla scaletta più o meno rappresentativa dovrebbe bastare per farsi un’idea su un gruppo, no? Insomma, pollice verso. Ma il primo album Real Life lo ascolterei volentieri. Qualcuno lo ha?
09/05/03
25. Pigbag Favourite Things
(Y/Ricordi 1983, lp nuovo, € 5.00)
26. Pigbag Lend An Ear
(Y/Ricordi 1983, lp nuovo, € 5.00)
In fondo alla stanza, ecco invece il resto del vinile. È sparso tra scaffali a muro, uno scaffale centrale e un po’ di mensole che si arrampicano sulla parete. Comincio a rovistare e titoli familiari saltano fuori. Dischi che già ho (alla sensazione stranissima di questi particolari momenti bisognerebbe dedicare un altro paragrafo almeno… quando trovi dischi che già hai, nell’usato soprattutto, è come un preavviso che qualcosa d’altro arriverà, una conferma ed una speranza insieme…), dischi che ho registrati su cassetta e dischi di cui ricordo le recensioni ma che non ho mai preso, perlopiù roba indipendente inglese degli ’80. Il tutto, sarà bene ricordarlo, in mezzo alla merda. Il tutto a cinque euro al pezzo. Perché quel disco della Creation che ora non ricordo (Jasmine Minks, mi pare) e Liberty Belle And The Black Diamond Express dei Go-Betweens siano rimasti lì invece di tornare a casa con me non lo so, ma le mensole forse hanno la risposta. Il tempo stringe, e riesco a guardare solo l’unica raggiungibile senza ausilio di sedie o scale. Due album dei Pigbag ancora nel cellophane possono bastare? Stampa italiana Ricordi, vabbè… ma almeno all’epoca la Ricordi stampava in Italia i dischi dei Pigbag!
Chi erano? Sciolto il Pop Group, il bassista Simon Underwood forma i suddetti ed enfatizza il lato black e danzereccio della faccenda, con risultati sì debitori del passato ma anche più smaccatamente orecchiabili. Papa’s Got A Brand New Pigbag è il primo singolo successo più grosso, e non c’è da stupirsi: ritmo incalzante, frase di fiati memorabile, inserti schizzati di elettronica e fiati solisti, break percussivi frenetici. Buona parte del suono On-U nasce anche qui, per capirci. L’eccellente raccolta Favourite Things, in mancanza del 12”, è l’unica maniera per ascoltarla in tutto il suo splendore, insieme ad altre chicche uscite solo su singolo e a qualche brano edito su album.
Apre le danze Getting Up, dal primo lp, e le coordinate sono sempre quelle anche per Sunny Day, secondo singolo qui in versione estesa da 12” e Hit The ‘O’ Deck, con i toni jazz della voce di Angela Jaeger. Six Of One ne era il retro, e si dilata in direzione dub. La breve One Way Ticket To Cubesville chiude la facciata, assai jazzata. Sul retro, oltre al citato masterpiece, due altri brani dal primo album (Brazil Nuts e Wiggling) ed una versione 12” del singolo The Big Bean: eccitanti schegge afrobeat, percussioni vorticose e scansioni funk-dance nell’Inghilterra pop-wave dei primi ’80.
Se Favourite Things raggiunge come detto livelli notevoli, altrettanto non si può dire di Lend An Ear, secondo album della band. Di Hit The ‘O’ Deck e One Way Ticket To Cubesville abbiamo già detto, così come dell’ingresso in formazione della cantante Angela Jaeger. L’ispirazione dei primi singoli sembra calata, ed emergono spinte verso una maggiore orecchiabilità che rendono anonimo e un po’ spompato il tutto. C’è anche del buono, per carità. Weak At The Knees è la consueta jam strumentale tipicamente Pigbag. Ubud lo sarebbe pure lei, se non si perdesse per strada nei suoi eccessivi sette minuti e mezzo. Ma l’album nella sua interezza risulta molto meno interessante e molto più palloso di quello che sarebbe stato lecito aspettarsi. Peccato per l’inizio tagliente e molto white-funk di Jump The Line, poi annaquato strada facendo.
06/05/03
24. The Byrds The Notorious Byrd Brothers
(Columbia 1968/1997, cd nuovo, € 7.50)
Non è mai troppo tardi. All’ennesimo weekend sulla riviera ligure, scopro che la via pedonale sotto casa della morosa nasconde un negozio di dischi. Oddio, negozio di dischi forse è una parola grossa… diciamo che tra le pellicole fotografiche e le cazzate ci sono anche gli ultimi cd dei Linkin Park e Giorgia (il cui singolo più recente va peraltro considerato una delle migliori pagine del pop italiano degli ultimi anni, insieme a Luce (Tramonto A Nord-Est) di Elisa, ovviamente. Altre? La Mia Signorina di Neffa, La Descrizione Di Un Attimo dei Tiromancino e Non Mi Basta (Monologo) dei Madreblu almeno). Quello che attira la mia attenzione è uno scaffale di vinili smarzissimi in offerta messo fuori sul marciapiede. Lo frugo, e in mezzo alla merda qualcosa mi dice che potrebbe spuntare il fiore. Si entra, e si comincia con un bel mobiletto di cd a prezzi quasi stracciati, incluso il suddetto titolo dei Byrds.
È il quinto album della band californiana, il primo dopo la storica quadrilogia iniziale ed il primo anche senza Gene Clark. Ma anche un disco cominciato in quattro e finito in due, con David Crosby e Michael Clarke che se ne andranno durante le registrazioni rendendo il gruppo di fatto un duo Roger McGuinn/Chris Hillman. Vi ricordate cosa dissi a proposito di David Axelrod (archivio luglio 2001) e di quanto la sua musica mi comunicasse sopra ogni cosa un senso di classicità e di perfezione? Beh, per i Byrds vale più o meno lo stesso discorso, e lascio a chi ha tempo l’analisi della provenienza californiana di entrambi i nomi. I Byrds mi danno un senso di serenità, se vogliamo, ed è ancora più interessante il fatto che si tratti di una band dilaniata dalle tensioni. Ma quello che chi ascolta percepisce è solo suo, no? in questo quinto album non troviamo i folk-rockers cristallini di Mr. Tambourine Man e Turn! Turn! Turn!, e nemmeno quelli che cominciavano a sperimentare e viaggiare in Fifth Dimension (vedi archivio aprile 2003) e Younger Than Yesterday. Diciamo che ne troviamo un compendio, con in più una ricerca pop ambiziosa, barocca e senza limiti. E The Notorious Byrd Brothers è un altro album da avere, dai fiati e dagli effetti di Artificial Energy all'ibrido folk-spaziale di Space Odyssey. Dappertutto, melodie splendide e soluzioni strumentali perfette tra il passato e il futuro: Draft Morning e l’incubo della guerra in Vietnam, Tribal Gathering e il sogno hippie, Goin’ Back e l’infanzia. Eccetera eccetera.
Tra i sei bonus, suona un po’ ingenuo il tentativo di fondere musica indiana ed elettronica vintage di Moog Raga, mentre brilla la versione originale di Triad, gemma flemmatica firmata Crosby che il contenuto all’epoca scottante (un triangolo amoroso) contribuì forse ad escludere dalla tracklist, e che l’autore in rotta di collisione con i suoi soci donò quindi ai Jefferson Airplane. Illuminante la lunga ghost track: la band in studio scazza irrimediabilmente cercando di cominciare un pezzo e il produttore Gary Usher cerca di mantenere calma la situazione.
02/05/03
23. Mikey Dread African Anthem
(Dread At The Controls 1979/Big Cat 1996, cd nuovo, € 12.00)
Uno degli album dub fondamentali, African Anthem può essere considerato una possibile trasposizione su disco dei mitici show radiofonici con i quali Michael Campbell ridestò l’attenzione sul dub in un’epoca, la fine dei ’70, già orientata verso le nuove sensazioni dancehall. Su ritmi stesi da campioni come Sly Dunbar, Robbie Shakespeare, Augustus Pablo e Earl “Chinna” Smith e mixati da altrettanti campioni quali King Tubby, Prince Jammy (e lo stesso Campbell) il nostro abbozza incursioni deejay e interviene con effetti speciali tanto artigianali quanto efficaci, sirene, clacson, orologi a cucù e jingle originali della sua trasmissione. Piedi ben piantati a terra su basi profonde e solide, testa fuori a inventare: i marchi di fabbrica del migliore dub. Scarsa assai la confezione della ristampa Big Cat in mio possesso, giusto due noterelle e stop, ma la musica parla clamorosamente da sola. Massiccio.
(Per i rockers indefessi, lui è lo stesso Mikey Dread che collaborerà con i Clash per gemme punk-reggae immortali quali Bankrobber e One More Time).
24/04/03
Non so se vi ho mai spiegato i link qui a fianco.
Love Boat Records & Buttons è la mia etichetta. In catalogo ci sono dischi di Altro, A Modern Safari, Deep End, Frammenti, Giardini Di Mirò, J Church e Nuvolablu. C'è anche un sacco di altra roba nella sezione mailorder. Se poi vi interessa realizzare delle spillette con il logo del vostro gruppo o della vostra squadra di pallavolo, ve le faccio io!
Disco Drive è il gruppo in cui suono. Entro la fine di maggio uscirà il nostro primo 7". Sul sito trovate un mp3 e le date dei nostri concerti, per ora.
Sodapop è un'ottima webzine di musica indipendente con cui collaboro. In genere, per Sodapop mi occupo di musica nera in generale e reggae in particolare. Talvolta anche di altro (è online una lunga intervista con Ian MacKaye).
Love Boat Records & Buttons è la mia etichetta. In catalogo ci sono dischi di Altro, A Modern Safari, Deep End, Frammenti, Giardini Di Mirò, J Church e Nuvolablu. C'è anche un sacco di altra roba nella sezione mailorder. Se poi vi interessa realizzare delle spillette con il logo del vostro gruppo o della vostra squadra di pallavolo, ve le faccio io!
Disco Drive è il gruppo in cui suono. Entro la fine di maggio uscirà il nostro primo 7". Sul sito trovate un mp3 e le date dei nostri concerti, per ora.
Sodapop è un'ottima webzine di musica indipendente con cui collaboro. In genere, per Sodapop mi occupo di musica nera in generale e reggae in particolare. Talvolta anche di altro (è online una lunga intervista con Ian MacKaye).
23/04/03
21. The Byrds Fifth Dimension
(Columbia 1966/1996, cd nuovo, € 12.00)
Sempre nello stesso negozio, il resto del catalogo è abbassato tutto a 12 euro. Ottima occasione per completare la quadrilogia dei primi Byrds con il terzo dei titoli in questione, l’unico ancora su cassetta registrata e non sostituito da questa splendida serie di ristampe a medio prezzo, complete di pezzi bonus, foto e grafiche di lusso, note interessantissime e commento track-by-track denso di aneddoti e curiosità.
Ci voleva, perché Fifth Dimension, oltre a essere uno dei dischi chiave della storia del rock, è l’album della maggiore età per i Byrds, il disco nel quale infiltrazioni acide cominciano a farsi strada prepotenti nel folk-rock già predisposto alla psichedelia dei primi due album. È un passaggio non traumatico e netto ma sostanziale: Eight Miles High ne è portabandiera, uno dei massimi esempi di trip rock (anche se la band sostenne sempre la versione del viaggio in aereo), spalleggiata da I See You, John Riley, What’s Happening? e dalla cover del superclassico Hey Joe. La title-track ravviva il marchio di fabbrica jingle-jangle chitarristico dei cinque, mentre Captain Soul e 2-4-2 Fox Trot (The Lear Jet Song) hanno influenze quasi soul-funk, I Come And Stand At Every Door è una scura e inquietante cantilena a tema post-atomico e Wild Mountain Thyme e Mr. Spaceman hanno due modi diversi di suonare tradizionali e bucoliche.
I sei bonus rivelano una band sempre più incline a continuare sulla strada delle sperimentazioni, ma allo stesso tempo già avanti sui tempi. È il 1965, Turn, Turn, Turn ancora spopola in classifica e loro incidono le prime versioni di Why (poi su Younger Than Yesterday, ma molto più acida e temeraria nelle due takes presenti qui) ed Eight Miles High (anch’essa più grezza e fedele alle intenzioni della band). Scusate se è poco. Il traditional I Know My Rider (I Know You Rider) è una meravigliosa fusione di potenza jingle-jangle orientaleggiante e echi beatlesiani, mentre Psychodrama City una sorta di disincantato blues acido e la variazione finale sul tema di John Riley una improvvisata e velocizzata escursione in terreni jazzati.
Perché i Byrds non siano oggi famosi quanto i Beatles resta un mistero.
22. Oasis Definitely Maybe
(Sony 1994, cd nuovo, € 12.00)
Un. Fottuto. Classico.
22/04/03
20. Mandrill Fencewalk: The Anthology
(Polydor 1997, dcd nuovo, € 5.00)
Ma il colpaccio, nel negozio di cui ho detto, è questo. Un gruppo introvabile se non sparso qua e là su compilation (vedi Pulp Fusion: Return To The Tough Side, archivio di maggio 2002), un doppio antologico fatto come dio comanda, cinque euro totali. Soul Mate #65 vince ancora.
Newyorkesi multirazziali guidati dai fratelli di origine panamense Carlos, Lou e “Doctor” Ric Wilson, ed attivi lungo tutti gli anni ’70 principalmente come settetto, i Mandrill furono una delle band che definirono l’era, unendo funk, soul, jazz, psichedelia, rock e musica latina in un calderone bollente, all’insegna della massima libertà creativa, dell’ibridazione tra generi e della positività. Nei sette minuti e trentotto secondi di Rollin’ On c’è tutto, così come nei quattro e trenta di Git It All, e se siete già fans dei più famosi War, Funkadelic ed Earth, Wind & Fire sappiate che i Mandrill stanno lassù con loro, e che anzi i tre colossi citati spesso e volentieri aprivano i concerti dei Mandrill! Guardateli sulla copertina di Just Outside Of Town del 1973: abiti al limite del kitsch -e oltre- portati con orgoglio, palazzoni di periferia sullo sfondo, sguardi fieri di uomini neri consapevoli di essere nel bel mezzo di un epoca irripetibile. In trentuno pezzi e due ore e mezza di musica questo doppio cd ce li fa conoscere ed apprezzare a fondo, ed è una goduria.
La scarsa predisposizione al singolo radiofonico e alcune scelte poco fortunate impedirono purtroppo alla band di diventare popolare come i suddetti, ma se setacciate il mondo hip-hop vi imbatterete in molti campioni dei Mandrill, garantito.
21/04/03
18. Roots Manuva Brand New Second Hand
(Big Dada/Ninja Tune 1999, cd nuovo, € 5.00)
19. Roots Manuva Run Come Save Me
(Big Dada 2001, cd nuovo, € 5.00)
Nello stesso suddetto negozio e per gli stessi 5 euro a pezzo, mi guadagno la discografia quasi completa di Roots Manuva, ovvero quello che è stato unanimemente descritto come il migliore rapper inglese di tutti i tempi. Alcuni staranno pensando a George Weah o a Jari Litmanen, e a quanto sia relativamente facile essere il miglior calciatore di tutti i tempi in Liberia o in Finlandia, ma il paragone per quanto azzardato pare reggere: primo, non si ricordano grandi exploit britannici in campo hip-hop; secondo, Rodney Smith è un rapper di levatura mondiale. Scuro e severo, spesso produttore oltre che rimatore, ha cose da dire e le dice sicuro su basi che fondono hip-hop newyorkese, fumosa battuta bassa come Ninja Tune comanda e influenze jamaicane da buon londinese.
Brand New Second Hand (lo esaltarono all’epoca “Mixmag”, “NME” ed “Echoes”) è un esordio che colpisce, dall’iniziale Movements alle wutangiche Sinking Sands e Juggle Tings Proper, dalle movenze dub di Inna e Strange Behaviour a quelle ragga di Big Tings Gwidarn. Forse solo un po’ troppo lungo e faticoso nella sua parte finale, piazza comunque in chiusura una Motion 5000 degna di nota. Bellissima l’idea grafica, così come quella del successivo Run Come Save Me, entrambe molto poco riconducibili all’iconografia hip-hop tradizionale.
Run Come Save Me è l’album della maggiore età. Dopo un breve interludio di archi e voci eteree, che anticipa la conclusiva e splendida Dreamy Days, è subito il momento della spezzettata Bashment Boogie e del potente singolo Witness (1 Hope), guidato da una vibrazione electro-dub che anima anche la seguente Join The Dots in compagnia di Chali 2na dei Jurassic Five. Dub Styles ha un ritmo reggae trasfigurato stranissimo, ed anche Ital Visions e Highest Grade riverberano echi isolani. Swords In The Dirt è una jam corale con sei amici ospiti, Sinny Sin Sins una lucida autobiografia religiosa.
Non tutto il disco è all’altezza degli episodi citati, anche qui un po’ di pezzi meno fantasiosi appesantiscono il tutto, ma non cambia la sostanza: non sottovalutate Roots Manuva.
19/04/03
17. The Heptones Dub Dictionary
(Trenchtown 2002, cd nuovo, € 5.00)
La musica in mano a chi non la merita.
Allora, c’è questo negozio vicino a casa mia, a due passi dalla stazione ferroviaria. Ha cambiato diverse gestioni, peggiorando di volta in volta. Cominciò (almeno per noi provinciali in cerca di vinili) con una buona selezione rock indipendente a prezzi concorrenziali, e con Dirty dei Sonic Youth in doppio vinile acchiappato dal Musso appena uscito. Continuò con sempre maggior enfasi sul lato black, e mai lo ringrazierò abbastanza per avere avuto quella copia di Jesus Dread, doppio monumentale e pietra miliare del reggae firmata Yabby You. Insomma, uno di quei negozi dedicati al passaggio ma dove rischi spesso e volentieri di trovare la chicca.
Fatto sta che i due tipi mollano, e i nuovi gestori si presentano così: “Offerta black music: tutto a 5 euro” strilla il cartello in vetrina, circondato da dischi che avvicinandosi paiono sempre più interessanti. Ci sono gli Heptones, c’è Tony Allen, il mitico batterista di Fela Kuti, c’è altra roba potenzialmente interessante. Entro, e scopro che quella in vetrina è solo una selezione. Questi vogliono svendere, e non so come ma si respira aria di negozio super pacco in arrivo. Frugo nello scaffaletto e trovo due o tre titoli succosi di cui leggerete, li metto da parte e chiedo di vedere quelli in vetrina. Esco con la commessa/padrona munita di chiave, che mi chiede quali deve prendere. Io vado sicuro: “Mi fai vedere gli Heptones e Tony Allen?”. Lei appare sorpresa e assolutamente fuori posto, ma nondimeno desiderosa di compiacere il cliente: “Però! Te ne intendi eh? Li conosci proprio tutti!”. Io effettivamente li conosco, non quei dischi evidentemente ma i loro autori. Di fronte all’idiozia però ammicco imbarazzato un “Eh… ma… mica tanto…” e intanto penso: “Mah, veramente non li ho mai sentiti. Te l’ho detto per aiutarti a trovarli, visto che i nomi sono scritti grandi così in copertina. che cazzo volevi, che ti facessi quello là col dito e ti dicessi terza fila, quarto da sinistra, copertina verdina con la foto di loro un po’ sfocata? E poi quell’altro là col dito e seconda fila, quinto da destra, di fianco al cartello, copertina nera con le foto messe in riquadri con gli angoli arrotondati. Ma sei cretina o cosa?”.
Lo so, sono un maniaco. Ma la musica in mano a chi non la merita mi fa diventare bastardo. In ogni caso, gli Heptones vengono via con me e Tony Allen no. Anche se Dub Dictionary sembra a prima vista e anche ad un esame più approfondito poco più della classica ristampa reggae smarza che detesto: nel montaggio fotografico in copertina Earl Morgan e Barry Llewellyn sono a fuoco, mentre Leroy Sibbles è sfocatissimo e addirittura sbagliato in Sibblies; il sottotitolo “The backbone inside the Studio 1 catalogue” ha il nome della leggendaria etichetta gigantesco, ancora più grande di quello del gruppo stesso, quando è evidente che Coxsone Dodd nulla ha a che fare con questo disco; le note dicono con incredibile approssimazione che “il 50% dei pezzi è stato registrato e mixato allo Studio One, e l’altro 50% (segue elenco)”, ma subito dopo ci ricordano che la Jamaica è la terra del mare e del sole, e che la maggior parte dei musicisti coinvolti entrerà presto nella Reggae Hall Of Fame; poco più sopra, in calce all’interminabile elenco degli stessi musicisti, il curatore si dice stupito del fatto che alcuni membri dei Wailers agli inizi abbiano suonato in qualcuno di questi pezzi; le note interne, formate dallo stesso Earl Morgan, sono tanto interessanti e toccanti quanto slegate e a tratti quasi deliranti. Tutto sembra messo dove è apposta per convincerci a comprare il disco. Ma dico io, stiamo parlando di una leggenda del reggae, non c’è bisogno di insistere! Leggo però un “Made in Jamaica”, e decido di fidarmi. Di solito i pacchi sono europei o americani.
Vengo poi a sapere sul forum della Blood & Fire che la Trenchtown è l’etichetta semi-bootleg messa in piedi proprio da Earl Morgan, e che Leroy Sibbles (senza tema di smentite, la vera anima del gruppo, per la voce e per il talento di bassista che prestò anche a numerosi altri nomi dell’epoca) sembra non essere troppo felice della sua esistenza. Un’autoproduzione alla jamaicana, insomma, di un uomo che giustamente vuole raccogliere anche un po’ di soldini per se. Il 50% fa tenerezza, l’altro 50% francamente un po’ pena per il modo di vendersi. Ma tutto questo non ha a che vedere con la musica che nel cd è contenuta. Come detto, gli Heptones sono stati una colonna portante del reggae dalla fine dei ’60 alla metà dei ’70, dagli inizi appunto targati Studio One alle prove adulte sotto l’egida di Lee “Scratch” Perry. Queste ventisei tracce –ci sono più versioni strumentali che dub, in realtà… ma la parolina “dub” di questi tempi funziona…- seguono le suddette fasi, ripescando vecchi retri di singoli mai usciti su cd e svelando tesori nascosti (Ivy’s Dub Special su tutti) della carriera del fantastico trio vocale.
Questa telefonata è di nicchia, ma chi capirà apprezzerà.
Lui (che chissà come si spaccia per macrobiotico old school): “Avete dello shoyu?”
Io: “Sì”
Lui: “Ma proprio shoyu, eh! Non salsa di soia. Che non ci sia scritto salsa di soia!”
16. Soledad Brothers Steal Your Soul And Dare Your Spirit To Move
(Estrus 2002, cd usato, € 8.00)
Cristo, ho comprato la quinta e la sesta facciata di Exile On Main Street? È il blues revival baby, e i Fratelli Di Soledad (ebbene sì…) ci stanno in pieno, pur essendo uno di troppo rispetto all’obbligatoria formazione a due: Johhny Walker (era quello con l’etichetta storta, o sbaglio?) è il leader, Oliver Henry e Ben Swank i due guardiaspalle.
A metà tra il puro revival e la sua reinterpretazione sta questo loro secondo album: se suoni, energia e un certo lasciarsi andare rivelano un approccio punk alla materia, l’impressione più forte è quella del devoto alle prese con i classici, teso a replicarne oltre allo spirito anche l’estetica. Ma tutto questo non vuol dire che Steal Your Soul And Dare Your Spirit To Move sia un brutto disco, fatto di cavalcate elettriche che sferragliano a destra e sinistra e litanie scure, arricchito da sax, piano e armonica, e da testi niente affatto da buttare. Che dire ancora? “My name is Johhny, you deal with me now”.
Lui (che chissà come si spaccia per macrobiotico old school): “Avete dello shoyu?”
Io: “Sì”
Lui: “Ma proprio shoyu, eh! Non salsa di soia. Che non ci sia scritto salsa di soia!”
16. Soledad Brothers Steal Your Soul And Dare Your Spirit To Move
(Estrus 2002, cd usato, € 8.00)
Cristo, ho comprato la quinta e la sesta facciata di Exile On Main Street? È il blues revival baby, e i Fratelli Di Soledad (ebbene sì…) ci stanno in pieno, pur essendo uno di troppo rispetto all’obbligatoria formazione a due: Johhny Walker (era quello con l’etichetta storta, o sbaglio?) è il leader, Oliver Henry e Ben Swank i due guardiaspalle.
A metà tra il puro revival e la sua reinterpretazione sta questo loro secondo album: se suoni, energia e un certo lasciarsi andare rivelano un approccio punk alla materia, l’impressione più forte è quella del devoto alle prese con i classici, teso a replicarne oltre allo spirito anche l’estetica. Ma tutto questo non vuol dire che Steal Your Soul And Dare Your Spirit To Move sia un brutto disco, fatto di cavalcate elettriche che sferragliano a destra e sinistra e litanie scure, arricchito da sax, piano e armonica, e da testi niente affatto da buttare. Che dire ancora? “My name is Johhny, you deal with me now”.
18/04/03
15. All Saints Saints & Sinners
(London 2000, cd usato, € 4.00)
Il resto è poca roba, ma credetemi quando vi dico che Pure Shores e Black Coffe sono due capolavori pop che fermano il tempo, nonché due tra le mie canzoni preferite in assoluto.
Fra venti anni, riascoltandole come fosse la prima volta, ringrazierò quel negoziante di Macerata per avermi finalmente convinto con la forza di un’offerta speciale a comprare Saints & Sinners (il cd singolo di e Black Coffe già lo avevo, ma qui ci sono tutte e due insieme…). Sai che me ne frega di un jewel case rotto.
16/04/03
Rieccoci qua, dopo molto tempo. Un po' è colpa mia, un po' di questo benedetto Blogger che fa scherzi. In ogni caso, I'm back muthafuckas.
12. Desiderata Desiderata
(Dischord/Desiderata 1991, 7” usato, € 6.00)
Volendo seguire l’evoluzione della scena di Washington DC e delle varie direzioni in cui il suo suono è andato, sono di enorme aiuto le cosidette half-label releases, ovvero i dischi che la grande mamma Dischord decide di produrre in collaborazione con etichette cittadine più piccole, fornendo supporto e moneta. Il settore giovanile, insomma, della prima squadra.
Sono uscite difficilissime da trovare, qui. i distributori importano solo le uscite 100% Dischord, e per il resto tocca affidarsi ai gruppi in tour o alla carta di credito. Come sarà arrivato qui questo singolo dei Desiderata, per esempio?
Chi segue l’hardcore si ricorderà di loro in apertura della storica compilation Give Me Back edita da Ebullition all’inizio degli anni ’90, dedicata alla violenza sessuale e intitolata come un verso degli Embrace di Ian MacKaye. Alla voce c’è la sorella di Ian, Amanda, e questo è un po’ l’altro motivo per cui tutti si ricordano dei Desiderata. Non avendo mai visto la band dal vivo, il loro unire energia punk e ricordi di rock duro non mi ha fatto impazzire, così come la voce di Amanda non mi sembra niente di trascendentale. Non male il break percussivo di Walking In My Sleep, comunque. Insomma, una band minore nel panorama DC, ma sempre una testimonianza di una scena fondamentale.
13. Cadallaca Out West
(Rough Trade/Kill Rock Stars 1999, cds usato, € 3.50)
Corin Tucker (spero di non dovervi dire in che gruppo suona), STS (Haggard) e Sarah Dougher sono -erano?- Cadallaca. Un album su K nel 1998 e questo ep le uniche testimonianze reperibili, entrambe poco distanti dai territori battuti da Sleater-Kinney (ecco, ve l’ho detto) e dai brani più movimentati della stessa Dougher. Ricordo che all’epoca rimasi impressionato dall’album, e che cercai invano questo ep quando seppi della sua uscita. Ora, perdipiù con le suddette Sleater-Kinney diventate il miglior gruppo rock del pianeta, suona meno essenziale di quanto immagino avrebbe suonato all’epoca. E mancano pure i testi, tra l’altro. Ma per la collezione andrà benissimo, e si fa pure ascoltare con piacere (soprattutto quando Sarah Dougher prevale).
14. Bright Eyes 3 More Hit Songs By Bright Eyes
(Wichita 2002, cds usato, € 3.50)
Singolo europeo per l’enfant prodige Conor Oberst, che a dir la verità conosco poco o nulla. Mi prestarono Fevers & Mirrors al tempo, ma al primo ascolto non mi dissero molto, e mi toccò passare oltre. A sentire Lover I Don’t Have To Love -legittima quanto un po’ trita ode alla promiscuità condita da alcool e droghe, quelle cose che ai giovani piace raccontare quanto fare, ma che alle mie orecchie vecchie e ciniche suonano un po’ così…- su pop epico di derivazione Radiohead, mi devo ricredere: il giovanotto è meno pizzoso di quanto ricordassi. Completano il singolo due brani tratti dall’ep americano There Is No Beginning To The Story: una verisone live di Out On The Weekend di Neil Young e l’acustica e casalinga Amy In The White Coat (peccato manchi il testo).
Insomma, se qualcuno me lo masterizza e mi fotocopia il booklet posso ricambiare.
12. Desiderata Desiderata
(Dischord/Desiderata 1991, 7” usato, € 6.00)
Volendo seguire l’evoluzione della scena di Washington DC e delle varie direzioni in cui il suo suono è andato, sono di enorme aiuto le cosidette half-label releases, ovvero i dischi che la grande mamma Dischord decide di produrre in collaborazione con etichette cittadine più piccole, fornendo supporto e moneta. Il settore giovanile, insomma, della prima squadra.
Sono uscite difficilissime da trovare, qui. i distributori importano solo le uscite 100% Dischord, e per il resto tocca affidarsi ai gruppi in tour o alla carta di credito. Come sarà arrivato qui questo singolo dei Desiderata, per esempio?
Chi segue l’hardcore si ricorderà di loro in apertura della storica compilation Give Me Back edita da Ebullition all’inizio degli anni ’90, dedicata alla violenza sessuale e intitolata come un verso degli Embrace di Ian MacKaye. Alla voce c’è la sorella di Ian, Amanda, e questo è un po’ l’altro motivo per cui tutti si ricordano dei Desiderata. Non avendo mai visto la band dal vivo, il loro unire energia punk e ricordi di rock duro non mi ha fatto impazzire, così come la voce di Amanda non mi sembra niente di trascendentale. Non male il break percussivo di Walking In My Sleep, comunque. Insomma, una band minore nel panorama DC, ma sempre una testimonianza di una scena fondamentale.
13. Cadallaca Out West
(Rough Trade/Kill Rock Stars 1999, cds usato, € 3.50)
Corin Tucker (spero di non dovervi dire in che gruppo suona), STS (Haggard) e Sarah Dougher sono -erano?- Cadallaca. Un album su K nel 1998 e questo ep le uniche testimonianze reperibili, entrambe poco distanti dai territori battuti da Sleater-Kinney (ecco, ve l’ho detto) e dai brani più movimentati della stessa Dougher. Ricordo che all’epoca rimasi impressionato dall’album, e che cercai invano questo ep quando seppi della sua uscita. Ora, perdipiù con le suddette Sleater-Kinney diventate il miglior gruppo rock del pianeta, suona meno essenziale di quanto immagino avrebbe suonato all’epoca. E mancano pure i testi, tra l’altro. Ma per la collezione andrà benissimo, e si fa pure ascoltare con piacere (soprattutto quando Sarah Dougher prevale).
14. Bright Eyes 3 More Hit Songs By Bright Eyes
(Wichita 2002, cds usato, € 3.50)
Singolo europeo per l’enfant prodige Conor Oberst, che a dir la verità conosco poco o nulla. Mi prestarono Fevers & Mirrors al tempo, ma al primo ascolto non mi dissero molto, e mi toccò passare oltre. A sentire Lover I Don’t Have To Love -legittima quanto un po’ trita ode alla promiscuità condita da alcool e droghe, quelle cose che ai giovani piace raccontare quanto fare, ma che alle mie orecchie vecchie e ciniche suonano un po’ così…- su pop epico di derivazione Radiohead, mi devo ricredere: il giovanotto è meno pizzoso di quanto ricordassi. Completano il singolo due brani tratti dall’ep americano There Is No Beginning To The Story: una verisone live di Out On The Weekend di Neil Young e l’acustica e casalinga Amy In The White Coat (peccato manchi il testo).
Insomma, se qualcuno me lo masterizza e mi fotocopia il booklet posso ricambiare.
30/03/03
Un altro brano scritto e realizzato appositamente contro la guerra di occupazione angloamericana in Iraq.
Assalti Frontali Il Mio Miglior Inganno (Baghdad Baghdad)
10. Against Me! The Disco Before The Breakdown
(No Idea 2003, 7” nuovo, € 3.50)
11. Against Me! Against Me!
(Sabot 2001, 7” nuovo, € 3.00)
Dopo nove dischi black, i primi due acquisti non black portano ben chiaro il marchio del migliore hardcore punk, genere e scena a cui ho dedicato gli anni migliori della mia vita, ma del quale ben raramente acquisto dischi ormai (chi legge “Soul Food” lo sa). Parlo, ovviamente, del punk come genere musicale universalmente o quasi riconosciuto. Altra cosa è dire che i primi due posti della mia top ten 2002 sono occupati da gruppi e da dischi che ritengo punk al 100%. Anzi, che ritengo due tra le migliori declinazioni odierne della magica parolina, ovvero Sleater-kinney e Q And Not U.
Non è un caso quindi che i due titoli in questione siano firmati quindi agli Against Me!, perché era veramente da tempo che un gruppo punk non mi dava queste sensazioni e questo senso di imprescindibilità, qui e ora. The Disco Before The Breakdown è il nuovo singolo del quartetto di Gainesville, segue il fenomenale Reinventing Axl Rose (vedi archivio di febbraio 2003) e precede il passaggio della band in casa Fat Wreck Chords.
Tom Gabel è come al solito capace di scrivere testi decisamente sopra la media, e altrettanto come al solito il folk-punk anthemico e viscerale della band è capace di commuovere. La title-track è spedita e sottolineata da una inedita sezione fiati. Tonight We’re Gonna Give It 35% è uno slow che si infiamma nel finale. Beginning In An Ending un numero acustico non trascendentale.
Mancano un po’ l’effetto singalong e i cori immediatamente memorizzabili, e forse per questo i brani ci mettono un po’ a farsi apprezzare del tutto, ma il 7” porta cose nuove, è il presente della band, e in questo senso è preferibile alle certezze. Se però le certezze sono come quelle che porta l’omonimo singoletto nero, allora vanno bene pure quelle: quattro pezzi acustici, tre dei quali già conosciuti in verisone elettrica sul citato album. Riascoltare Jordan’s First Choice, reinventing Axl Rose e soprattutto Those Anarcho Punks Are Mysterious così nude e ridotte all’essenziale -l’essenziale di grandi Canzoni Di Protesta- è un piacere.
Assalti Frontali Il Mio Miglior Inganno (Baghdad Baghdad)
10. Against Me! The Disco Before The Breakdown
(No Idea 2003, 7” nuovo, € 3.50)
11. Against Me! Against Me!
(Sabot 2001, 7” nuovo, € 3.00)
Dopo nove dischi black, i primi due acquisti non black portano ben chiaro il marchio del migliore hardcore punk, genere e scena a cui ho dedicato gli anni migliori della mia vita, ma del quale ben raramente acquisto dischi ormai (chi legge “Soul Food” lo sa). Parlo, ovviamente, del punk come genere musicale universalmente o quasi riconosciuto. Altra cosa è dire che i primi due posti della mia top ten 2002 sono occupati da gruppi e da dischi che ritengo punk al 100%. Anzi, che ritengo due tra le migliori declinazioni odierne della magica parolina, ovvero Sleater-kinney e Q And Not U.
Non è un caso quindi che i due titoli in questione siano firmati quindi agli Against Me!, perché era veramente da tempo che un gruppo punk non mi dava queste sensazioni e questo senso di imprescindibilità, qui e ora. The Disco Before The Breakdown è il nuovo singolo del quartetto di Gainesville, segue il fenomenale Reinventing Axl Rose (vedi archivio di febbraio 2003) e precede il passaggio della band in casa Fat Wreck Chords.
Tom Gabel è come al solito capace di scrivere testi decisamente sopra la media, e altrettanto come al solito il folk-punk anthemico e viscerale della band è capace di commuovere. La title-track è spedita e sottolineata da una inedita sezione fiati. Tonight We’re Gonna Give It 35% è uno slow che si infiamma nel finale. Beginning In An Ending un numero acustico non trascendentale.
Mancano un po’ l’effetto singalong e i cori immediatamente memorizzabili, e forse per questo i brani ci mettono un po’ a farsi apprezzare del tutto, ma il 7” porta cose nuove, è il presente della band, e in questo senso è preferibile alle certezze. Se però le certezze sono come quelle che porta l’omonimo singoletto nero, allora vanno bene pure quelle: quattro pezzi acustici, tre dei quali già conosciuti in verisone elettrica sul citato album. Riascoltare Jordan’s First Choice, reinventing Axl Rose e soprattutto Those Anarcho Punks Are Mysterious così nude e ridotte all’essenziale -l’essenziale di grandi Canzoni Di Protesta- è un piacere.
Not In Our Name
9. Joe Gibbs & The Professionals No Bones For The Dogs
(Pressure Sounds 2002, cd nuovo, € 11.00)
Mannaggia alle mie malandate finanze, ma la bonanza Pressure Sounds si ferma qui. Con un pezzo da novanta. Parlare di Joe Gibbs & The Professionals vuol dire in realtà parlare dei Mighty Two, ovvero lo stesso Joe Gibbs ed Errol Thompson: un team produttore/fonico di prim’ordine che contribuì come pochi all’esplosione reggae di metà ’70. Dubs From The Migthy Two 1974 To 1979 è infatti sottotitolata questa raccolta.
Già collaboratore di mammasantissima come Lee Perry, Niney The Observer e Bunny Lee, ma in qualche modo escluso dai circoli chiusi di Kingston per il suo essere forestiero di Montego Bay, il nostro si costruì una salda reputazione di produttore capace nei suoni e puntuale nei pagamenti. Al suo fianco, il genio del signor E.T. a manovrare con lui manopole e cursori. Gibbs con effetti speciali e Errol padrone del ritmo.
Il materiale su cui i due lavorano è di primissimo ordine, equamente diviso fra tracce vocali, strumentali e deejay. Spadroneggiano i Culture: I Am Not Ashamed, Jah Jah See Them A Come (trasfigurata in Informer Version), London Bridge Is Falling Down (altrettanto trasfigurata in Baldhead Bridge tra drumming incalzante e echi ovunque) e l’immortale Two Sevens Clash nella versione deejay di Bo Jangles, con memorabile e declamatoria intro a citare le parole di Marcus Garvey. Vibrazioni serissime percorrono la scarna C/W Burning Version (Burn Babylon di Sylford Walker) e l’altrettanto scarna War Is Over (dall’iperclassico Tribal War di Little Roy). Il ritmo Real Rock su cui poggerà Armagideon Time guida Alan: Hit By A. Larry. Tutte le diciotto tracce sanno fino al midollo del reggae che piace a me. È musica strumentale alla quale l’assenza di voci (in verità nemmeno assenti, anzi… il loro eco la caratterizza eccome…) non toglie un grammo della carica militante, anzi enfatizzandola. Non so spiegare come, ma è così. Valgono anche in questo caso le azzeccatissime parole contenute nelle note di In The Dub Zone di Ja-Man All Stars (Blood & Fire), che chi legge Sodapop spero abbia colto nella mia recensione: "The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon. I produced one with Junior Byles and Rupert Reid, others are by Bob, Yabby You, Burning Spear etc. and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass (…). The range of emotions reflected in reggae varies from sad, hopeful, defiance, vengeance, redemption, thanks and praise, comfort, and happiness. You name it - and reggae reveal and expose that emotion".
Bella la grafica e ottimo il booklet. Senza dubbio una delle migliori collezioni dub in mio possesso. Parola.
9. Joe Gibbs & The Professionals No Bones For The Dogs
(Pressure Sounds 2002, cd nuovo, € 11.00)
Mannaggia alle mie malandate finanze, ma la bonanza Pressure Sounds si ferma qui. Con un pezzo da novanta. Parlare di Joe Gibbs & The Professionals vuol dire in realtà parlare dei Mighty Two, ovvero lo stesso Joe Gibbs ed Errol Thompson: un team produttore/fonico di prim’ordine che contribuì come pochi all’esplosione reggae di metà ’70. Dubs From The Migthy Two 1974 To 1979 è infatti sottotitolata questa raccolta.
Già collaboratore di mammasantissima come Lee Perry, Niney The Observer e Bunny Lee, ma in qualche modo escluso dai circoli chiusi di Kingston per il suo essere forestiero di Montego Bay, il nostro si costruì una salda reputazione di produttore capace nei suoni e puntuale nei pagamenti. Al suo fianco, il genio del signor E.T. a manovrare con lui manopole e cursori. Gibbs con effetti speciali e Errol padrone del ritmo.
Il materiale su cui i due lavorano è di primissimo ordine, equamente diviso fra tracce vocali, strumentali e deejay. Spadroneggiano i Culture: I Am Not Ashamed, Jah Jah See Them A Come (trasfigurata in Informer Version), London Bridge Is Falling Down (altrettanto trasfigurata in Baldhead Bridge tra drumming incalzante e echi ovunque) e l’immortale Two Sevens Clash nella versione deejay di Bo Jangles, con memorabile e declamatoria intro a citare le parole di Marcus Garvey. Vibrazioni serissime percorrono la scarna C/W Burning Version (Burn Babylon di Sylford Walker) e l’altrettanto scarna War Is Over (dall’iperclassico Tribal War di Little Roy). Il ritmo Real Rock su cui poggerà Armagideon Time guida Alan: Hit By A. Larry. Tutte le diciotto tracce sanno fino al midollo del reggae che piace a me. È musica strumentale alla quale l’assenza di voci (in verità nemmeno assenti, anzi… il loro eco la caratterizza eccome…) non toglie un grammo della carica militante, anzi enfatizzandola. Non so spiegare come, ma è così. Valgono anche in questo caso le azzeccatissime parole contenute nelle note di In The Dub Zone di Ja-Man All Stars (Blood & Fire), che chi legge Sodapop spero abbia colto nella mia recensione: "The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon. I produced one with Junior Byles and Rupert Reid, others are by Bob, Yabby You, Burning Spear etc. and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass (…). The range of emotions reflected in reggae varies from sad, hopeful, defiance, vengeance, redemption, thanks and praise, comfort, and happiness. You name it - and reggae reveal and expose that emotion".
Bella la grafica e ottimo il booklet. Senza dubbio una delle migliori collezioni dub in mio possesso. Parola.
26/03/03
8. The Royals Pick Up The Pieces
(Wambesi 1977/Pressure Sounds 2002, cd nuovo, € 11.00)
Ancora Pressure Sounds alla scoperta del reggae perduto di qualche decennio fa. E questo è reggae davvero perduto, perché i Royals di Roy Cousins e dei vari compagni di avventura che al suo fianco si sono succeduti sono esistiti dal 1967 al 1979, lasciando in eredità soltanto dei singoli e un paio di album. Il primo dei due viene riesumato ora con aggiunta di bonus tracks e versioni alternative (ma nessun dub, purtroppo).
Nome apprezzato quanto marginale e sfortunato commercialmente, i Royals erano un gruppo vocale, nella migliore tradizione americana prima ed isolana poi. Ramo laterale di quell’immaginario albero genealogico che lega Drifters e Temptations a Pioneers, Paragons e Wailers prima, Congos, Abyssinians ed Heptones dopo. Una voce solista, le altre a sostenerla con armonie vocali perfette, e a battere sotto il ritmo del reggae più soulful.
Soulful anche quando i temi sono chiari e forti, introdotti da titoli come Ghetto Man, Blacker Black, Leave Out Of Babylon, Sufferer Of The Ghetto. Proprio questo, a pensarci bene, è quello che spiazza ad un primo ascolto: leggi queste cose e ti immagini l’apocalisse in levare, il dramma su basso e batteria, non tre o quattro voci di seta e melodie celestiali. Ma Roy Cousins è questo, e fin da quando si faceva il culo con i pacchi delle poste jamaicane (insieme a Barry Llewellyn degli Heptones, Tommy Thomas dei Chantells e Don Carlos, giusto per la cronaca, oltre ai futuri Royals Errol Davis e Lloyd Forrest… ma ve lo immaginate quel magazzino? Roba da pagare per lavorarci!) per poi investire i pochi guadagni nel suo gruppo e nelle sue etichette, ci ha sempre creduto. E le atmosfere più tese alla fine ci sono lo stesso, nella citata Blacker Black come in Facts Of Life, If You Want Good, Make Believe. Insomma, tocca consigliare anche questo.
Notevoli la confezione e il booklet, forse solo un po’ vago sulla provenienza dei venti brani (quale è la scaletta originale? Quali i bonus? Quale l’anno di ogni pezzo?).
24/03/03
7. Burning Spear Spear Burning
(Pressure Sounds 2001, cd nuovo, € 11.00)
Parlando di Winston Rodney parliamo di uno dei Campioni con la C maiuscola. Uno dei pochi artisti jamaicani ad aver realizzato con successo il crossover verso un enormemente più vasto pubblico internazionale, ma senza compromettere i suoi ideali e la sua visione di mezzo centimetro.
Voce tonante ed inconfondibile forgiata come molte a Studio One, temi religiosi e soprattutto politici affrontati in maniera seria e diretta, brani spesso slegati dalla formula strofa/ritornello ma nondimeno capaci di farsi ricordare, la scelta dell’indipendenza culturale dalla scena cittadina di Kingston (lui è un uomo di St. Ann, costa nord, che nella capitale ci andava solo a registrare…), un carisma imponente a cominciare dallo pseudonimo scelto: signor*, Burning Spear.
Fresco di un contratto con la Island che ne farà quello che tuttora è (se non avete ancora approfittato di Marcus Garvey/Garvey’s Ghost in serie economica, album e relativa versione dub su un unico cd, fatelo immediatamente o sparite. Altrimenti approfittate della medesima offerta per il seguente Man In The Hills), il nostro comincia a produrre singoli con la sua etichetta, la Spear, per sé e per amici e collaboratori come Philip Fulwood soprattutto.
E proprio la voce dolce ma ferma di quest’ultimo è una delle sorprese che questa seminale raccolta -a queste produzioni dedicata- riserva: le sue Thanks & Praises e I Gave You My Word stanno all’altezza del miglior Burning Spear, la seconda soprattutto. Idem con patate per On That Day di Burning Junior, meno dipendente dal modello di quanto il nome scelto non porterebbe a credere. Il deejay originale Big Joe impreziosisce The Prophet, ed è una delle purtroppo poche occasioni per sentirlo.
E lui, Winston Rodney? Beh, questi singoli completano ed integrano in maniera perfetta i due album succitati come testimonianza di un grande del reggae in stato di grazia. Versioni dub scintillanti accompagnano quasi ogni traccia, ed uno dei migliori booklet visti ultimamente completa l’opera rendendola fondamentale.
(Poche note aggiunte qui in cima, ma a posteriori: la tracotanza e la menzogna sono sotto gli occhi di tutti, così come l'orrore, ed è davvero poca la voglia di dire la mia. L'impero colpisce ancora, tutto lascia pensare che sia solo l'inizio e tutto sembra andare come deve andare che noi lo vogliamo o no. Preferisco invitarvi, ma sono sicuro che non avete bisogno del mio invito, a cercare informazioni contaminate il meno possibile e a boicottare il più possibile. STOP THE SON OF A BUSH!!!)
Trattandosi del quinto titolo reggae su sei (ed essendocene molti altri già in coda) mi pare sensato ribadire un paio di cosa già dette e ormai sperdute da qualche parte negli archivi.
Mi raffiguro la maggior parte dei lettori di “Soul Food” come fruitori di rock indipendente in senso lato, e come tali me li immagino soprassedere di fronte alla spesso schiacciante maggioranza black dei dischi di cui mi trovo a parlare. Soprassedere non tanto in sede di lettura del weblog, quanto in sede di approfondimento successivo. Almeno fino a quando qualche bianco non si metterà a fare musica direttamente influenzata da questa e noi la compreremo. Quella, ovviamente, non questa.
Chi legge Sodapop mi avrà già sentito blaterare di queste cose (e di altre, vedi la non-differenza tra dub e reggae). Chi non la legge farebbe bene a leggerla: un manipolo di valorosi si occupa con competenza e rigore che mi sono sconosciuti di rock indipendente in senso lato. Il sottoscritto si occupa di reggae. Se volete leggere le mie recensioni, cliccate sui nomi che non conoscete
Se state cominciando a capire che la musica è tutta bella ma il reggae lo è un po’ di più, e desiderate ulteriori e ben più seri approfondimenti, vi consiglio l’acquisto immediato di “The Rouch Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton. La si trova piuttosto facilmente, ed è qualcosa di imprescindibile.
6. Phil Pratt Phil Pratt Thing
(Pressure Sounds 2000, cd nuovo, € 11.00)
Da tempo avevo messo gli occhi su questo tributo alle produzioni del misconosciuto Phil Pratt, produttore non kingstoniano e quindi per certi versi al di fuori del caotico music-biz della capitale. Beh, non mi sbagliavo. Pratt aveva stile, gusto ed esperienza degni dei più illustri contemporanei, e lavorò con nomi di primissimo piano.
Ken Boothe, per esempio. Campione del pop-reggae, inaugura le danze da par suo con I’m Not For Sale, per cedere subito la scena a Big Youth ed alla sua drammatica Keep Your Dread, senza dubbio uno dei vertici di Manley Buchanan. Di seguito, due versioni strumentali del pezzo, una accreditata a Bobby Kalphat ed alle sue tastiere, l’altra dubbata a dovere.
Ancora roots & culture per continuare, e del migliore: ascoltate Going The Wrong Way di Al Campbell –o il trattamento deejay maestoso che ancora Big Youth le riserva- e ditemi se non è al livello dei grandi classici del reggae. Dello stesso Al Campbell Take These Shackles ed Every Man Say, ma quei livelli restano ineguagliati. Party Time è una versione precedente a quella che decretò la fama definitiva degli Heptones sotto l’egida di Lee Perry.
Verso la fine, si torna a temi più rilassati e terra terra: Who Gets Your Love è una delle tante prove della classe di Ken Boothe, una delle migliori (peccato non sia presente qui nella spettacolare verisone estesa con deejay contenuta nell’omonimo album). Talk About Love di un suadente Pat Kelly sul quale irrompe un Dillinger in forma smagliante è una versione discomix da manuale. Let Love In è l’unico contributo del principe Dennis Brown alla compilation, ma è più che sufficiente. Big Score, infine, è di nuovo Dillinger sulla suddetta.
PS- Per approfondimenti ulteriori sulla figura di Phil Pratt e sulle sue produzioni, impossibile non citare la web radio/zine australiana Fire Corner: lo speciale intitolato come questo cd è una meraviglia.
Trattandosi del quinto titolo reggae su sei (ed essendocene molti altri già in coda) mi pare sensato ribadire un paio di cosa già dette e ormai sperdute da qualche parte negli archivi.
Mi raffiguro la maggior parte dei lettori di “Soul Food” come fruitori di rock indipendente in senso lato, e come tali me li immagino soprassedere di fronte alla spesso schiacciante maggioranza black dei dischi di cui mi trovo a parlare. Soprassedere non tanto in sede di lettura del weblog, quanto in sede di approfondimento successivo. Almeno fino a quando qualche bianco non si metterà a fare musica direttamente influenzata da questa e noi la compreremo. Quella, ovviamente, non questa.
Chi legge Sodapop mi avrà già sentito blaterare di queste cose (e di altre, vedi la non-differenza tra dub e reggae). Chi non la legge farebbe bene a leggerla: un manipolo di valorosi si occupa con competenza e rigore che mi sono sconosciuti di rock indipendente in senso lato. Il sottoscritto si occupa di reggae. Se volete leggere le mie recensioni, cliccate sui nomi che non conoscete
Se state cominciando a capire che la musica è tutta bella ma il reggae lo è un po’ di più, e desiderate ulteriori e ben più seri approfondimenti, vi consiglio l’acquisto immediato di “The Rouch Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton. La si trova piuttosto facilmente, ed è qualcosa di imprescindibile.
6. Phil Pratt Phil Pratt Thing
(Pressure Sounds 2000, cd nuovo, € 11.00)
Da tempo avevo messo gli occhi su questo tributo alle produzioni del misconosciuto Phil Pratt, produttore non kingstoniano e quindi per certi versi al di fuori del caotico music-biz della capitale. Beh, non mi sbagliavo. Pratt aveva stile, gusto ed esperienza degni dei più illustri contemporanei, e lavorò con nomi di primissimo piano.
Ken Boothe, per esempio. Campione del pop-reggae, inaugura le danze da par suo con I’m Not For Sale, per cedere subito la scena a Big Youth ed alla sua drammatica Keep Your Dread, senza dubbio uno dei vertici di Manley Buchanan. Di seguito, due versioni strumentali del pezzo, una accreditata a Bobby Kalphat ed alle sue tastiere, l’altra dubbata a dovere.
Ancora roots & culture per continuare, e del migliore: ascoltate Going The Wrong Way di Al Campbell –o il trattamento deejay maestoso che ancora Big Youth le riserva- e ditemi se non è al livello dei grandi classici del reggae. Dello stesso Al Campbell Take These Shackles ed Every Man Say, ma quei livelli restano ineguagliati. Party Time è una versione precedente a quella che decretò la fama definitiva degli Heptones sotto l’egida di Lee Perry.
Verso la fine, si torna a temi più rilassati e terra terra: Who Gets Your Love è una delle tante prove della classe di Ken Boothe, una delle migliori (peccato non sia presente qui nella spettacolare verisone estesa con deejay contenuta nell’omonimo album). Talk About Love di un suadente Pat Kelly sul quale irrompe un Dillinger in forma smagliante è una versione discomix da manuale. Let Love In è l’unico contributo del principe Dennis Brown alla compilation, ma è più che sufficiente. Big Score, infine, è di nuovo Dillinger sulla suddetta.
PS- Per approfondimenti ulteriori sulla figura di Phil Pratt e sulle sue produzioni, impossibile non citare la web radio/zine australiana Fire Corner: lo speciale intitolato come questo cd è una meraviglia.
19/03/03
Visto “8 Mile”. Freestyle entusiasmante.
5. Lee Perry Voodooism
(Pressure Sounds 1996, cd nuovo, € 11.00)
Il suo distributore italiano saluta l’anno nuovo con un bel 20% di sconto su tutto il catalogo e, dentista permettendo, come posso non tuffarmi su Pressure Sounds, o quantomeno sull’essenziale della label londinese non ancora in mio possesso? L’ho già detto ma farà bene ripeterlo, a livello di ristampe reggae siamo appena un dito sotto l’Inarrivabile.
Cominciamo come meglio non si potrebbe con il benemerito Scratch e con una portentosa raccolta di ultrararità periodo Black Ark, il suo apice: banzai! Come prevedevo, abbondano meraviglie in rapida sequenza. Che dio o qualcuno al suo posto benedica Errol Walker, per esempio: se Voodooism dovesse servire a una cosa soltanto, che sia il raccolto di gloria postuma che Better Future e il suddetto meritano. Ma è solo una delle venti citazioni possibili: grossomodo dieci originali con relativa geniale versione dub a cura dell’inarrivabile Upsetter. Siamo nella prima metà dei ’70, e da questi studi e queste mani sta uscendo a getto continuo roots music della migliore specie, dai campioni riconosciuti come dalle seconde e terze linee a cui il cd è dedicato. Altissimo livello.
5. Lee Perry Voodooism
(Pressure Sounds 1996, cd nuovo, € 11.00)
Il suo distributore italiano saluta l’anno nuovo con un bel 20% di sconto su tutto il catalogo e, dentista permettendo, come posso non tuffarmi su Pressure Sounds, o quantomeno sull’essenziale della label londinese non ancora in mio possesso? L’ho già detto ma farà bene ripeterlo, a livello di ristampe reggae siamo appena un dito sotto l’Inarrivabile.
Cominciamo come meglio non si potrebbe con il benemerito Scratch e con una portentosa raccolta di ultrararità periodo Black Ark, il suo apice: banzai! Come prevedevo, abbondano meraviglie in rapida sequenza. Che dio o qualcuno al suo posto benedica Errol Walker, per esempio: se Voodooism dovesse servire a una cosa soltanto, che sia il raccolto di gloria postuma che Better Future e il suddetto meritano. Ma è solo una delle venti citazioni possibili: grossomodo dieci originali con relativa geniale versione dub a cura dell’inarrivabile Upsetter. Siamo nella prima metà dei ’70, e da questi studi e queste mani sta uscendo a getto continuo roots music della migliore specie, dai campioni riconosciuti come dalle seconde e terze linee a cui il cd è dedicato. Altissimo livello.
15/03/03
4. Black Eyes Some Boys/Shut Up I Never
(Ruffian/Release The Bats 2002, 7” nuovo, € 3.00)
Fra pochi giorni li conosceremo tutti per il loro imminente stupefacente incredibile album di debutto su Dischord, e se tanto mi dà tanto saranno già tra i nomi nuovi di molti per il 2003. Da Washington, va da sé, arrivano i Black Eyes con la loro formazione che dire atipica è poco: Dan Caldas (batteria e basso), Daniel Martin McCormick (chitarra e percussioni), Hugh McElroy (basso, tastiere e percussioni), Jacob Long (basso, chitarra e percussioni), Mike Kanin (batteria). E tutti cantano.
Ma è solo parzialmente l’ascolto ostico che ci si potrebbe aspettare. Se Shut Up I Never sul lato b è infatti un esemplare caotico e tribale di suoni nuovi, con i vari ritmi post-punk inglesi come vago sfondo ed un approccio creativo e libero, Some Boys sul lato a è un piccolo capolavoro di post-punk moderno che entra in testa al volo. Signori, Black Eyes. Segnatevi questo nome.
05/03/03
3. Gil Scott-Heron Pieces Of A Man
(Flying Dutchman/Bmg 1971, cd usato, € 6.00)
The Revolution Will Not Be Televised, tanto per togliersi il pensiero. Già ascoltata un anno prima in versione solo vocale nell’album di esordio del Nostro (Small Talk at 125th and Lenox, disco appunto spoken-word con solo sporadici accompagnamenti percussivi), è chiamata ad aprire anche Pieces Of A Man, sostanzialmente il primo album “musicale” del poeta di Chicago. Basterà ascoltarla una volta sola per capire come sia diventata il manifesto del suo autore e uno dei brani simbolo per la controcultura di ogni dove: linea di basso ipnotica, testo di acuta denuncia declamato con sarcasmo e stile, urgenza.
Non avrà la stessa carica epocale e la stessa peculiarità, ma anche il resto dell’album risulta notevole: siamo dalle parti di un soul-funk piuttosto raffinato dal retrogusto jazz, guidato dal basso e dal pianoforte e perfetto per mettere in mostra le doti non solo recitative ma anche e soprattutto canore di Scott-Heron, sempre combinate con una lucidità politica e sociale rara. Almeno Lady Day And John Coltrane, Home Is Where The Hatred Is e la conclusiva, scura The Prisoner meritano la citazione, ma è il livello medio ad essere alto. L’importanza e la coesione dell’opera fanno il resto.
Stupisce ben poco, quindi, come l’uomo in questione resti tuttora una delle icone più forti della consapevolezza nera, e uno dei più credibili modelli di uomo nuovo afroamericano emersi dalle bollenti stagioni a cavallo tra i ’60 ed i ’70.
03/03/03
2. Dillinger CB 200
(Island 1976, cd usato, € 7.00)
Uno che invece mainstream lo è diventato più per caso che per scelte artistiche o produttive è Lester Bullocks a.k.a. Dillinger: la sua Cocaine In My brain l’avrete sentita anche solo nominare almeno una volta, ed è il classico specchietto per le allodole, per farvi un’idea non propriamente esatta del personaggio e del reggae in generale. Come potrebbero d’altronde opinione pubblica da un lato e sballoni assortiti dall’altro non gettarsi a corpo morto su una canzone intitolata così?
Beh, sappiate che in questo album di debutto -registrato a Channel One con i meglio musicisti e prodotto da Jo Jo Hookim- Cocaine In My brain è il pezzo meno bello, pur mostrando però uno stile vocale atipico e facilmente riconoscibile come progenitore del rap a tutti gli effetti. Gli altri nove sono invece esemplari di superbo deejay style su memorabili ritmi dubbati, pescati negli infiniti archivi dei suddetti studi (Might Diamonds soprattutto). Dall’iniziale title-track alla conclusiva Crankface, in cui il più giovane amico Trinity gli si affianca per la prima di una serie di fortunate combinations a venire, attraverso No Chuck It, Plantation Heights e Buckingham Palace, con l’urgenza e lo stile che lo resero uno dei dj più amati dai punk dell’epoca, oltre che ovviamente dai connazionali in patria. Album immancabile in una discografia reggae che voglia dirsi tale.
02/03/03
Comincia marzo e cominciano i dischi comprati nel nuovo anno. Due mesi di ritardo suonano male, ma non temete: con i pochi soldi che girano da queste parti ultimamente dovrei riuscire a mettermi in pari in breve tempo. Olè!
1. Peter Tosh Bush Doctor
(Rolling Stones 1978/Emi 2002, cd usato, € 7.75)
I lettori fedeli già sapranno della mia innata e in qualche maniera irrazionale diffidenza verso il reggae più mainstream. È difficile da spiegare, e la maggior parte dei dread in ascolto potrà credermi pazzo, ma dopo aver ascoltato Yabby You, Lopez Walker o Trinity è difficile passare (o tornare) a Peter Tosh e per certi versi persino allo stesso Bob Marley.
Forse dipende dai suoni, chissà. Dice bene Manzie Swaby nelle note alla recente ristampa Blood & Fire di due suoi dub album dei ’70: “The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon (…) and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass”.
Forse dipende anche dalla ricerca di un mercato più vasto di quello jamaicano, fondamentalmente impostato sui singoli, o forse dagli stessi artisti scelti per il grande salto, fatto sta che in buona parte delle produzioni mainstream, ahimè, Babilonia ha poco da temere.
Prendiamo questo terzo album solista di Peter Tosh dopo la sua fuoriuscita dai Wailers: prodotto da Tosh stesso e da Robbie Shakespeare sotto la supervisione di Mick Jagger e Keith Richards impazziti per il più militante e rigoroso dei tre, è evidentemente un tentativo di break presso il grande pubblico, in parte anche riuscito. Per carità, Bush Doctor è un gran pezzo, Stand Firm e I’m The Toughest pure, e le sei bonus tracks aggiunte in questa edizione rimasterizzata dello scorso anno (bello anche il booklet) ci permettono di ascoltare versioni estese e inedite, ma lasciatemi dire che la voce di Tosh non è davvero nulla di speciale e che questo Bush Doctor non è tra i primi dischi che consiglierei a chi volesse avvicinarsi al reggae.
1. Peter Tosh Bush Doctor
(Rolling Stones 1978/Emi 2002, cd usato, € 7.75)
I lettori fedeli già sapranno della mia innata e in qualche maniera irrazionale diffidenza verso il reggae più mainstream. È difficile da spiegare, e la maggior parte dei dread in ascolto potrà credermi pazzo, ma dopo aver ascoltato Yabby You, Lopez Walker o Trinity è difficile passare (o tornare) a Peter Tosh e per certi versi persino allo stesso Bob Marley.
Forse dipende dai suoni, chissà. Dice bene Manzie Swaby nelle note alla recente ristampa Blood & Fire di due suoi dub album dei ’70: “The lyrics of lots of reggae songs are well known, the feeling of the music that complement the lyrics is sometimes taken for granted. It is hard for me to explain, but try this... there are many different songs titled Chant Down Babylon (…) and in every one of those songs you can actually feel the instruments chanting down Babylon, especially the drum and bass”.
Forse dipende anche dalla ricerca di un mercato più vasto di quello jamaicano, fondamentalmente impostato sui singoli, o forse dagli stessi artisti scelti per il grande salto, fatto sta che in buona parte delle produzioni mainstream, ahimè, Babilonia ha poco da temere.
Prendiamo questo terzo album solista di Peter Tosh dopo la sua fuoriuscita dai Wailers: prodotto da Tosh stesso e da Robbie Shakespeare sotto la supervisione di Mick Jagger e Keith Richards impazziti per il più militante e rigoroso dei tre, è evidentemente un tentativo di break presso il grande pubblico, in parte anche riuscito. Per carità, Bush Doctor è un gran pezzo, Stand Firm e I’m The Toughest pure, e le sei bonus tracks aggiunte in questa edizione rimasterizzata dello scorso anno (bello anche il booklet) ci permettono di ascoltare versioni estese e inedite, ma lasciatemi dire che la voce di Tosh non è davvero nulla di speciale e che questo Bush Doctor non è tra i primi dischi che consiglierei a chi volesse avvicinarsi al reggae.
28/02/03
Per chiudere in bellezza il primo anno di “Soul Food”, un po’ di statistiche.
Come intuibile dal numero progressivo che precede ogni titolo, nel 2002 ho comprato 156 dischi.
110 nuovi e 46 usati. Molti di quelli nuovi, va detto, erano offerte speciali (ricordate l’invasione di raccolte Motown?).
137 hanno come supporto il CD, 9 il vinile 12”, 2 il vinile 10” e 8 il vinile 7”. Segno dei tempi. Ma chissà che i prezzi e i pochi soldi in tasca non mi facciano tornare al vinile?
Per quanto riguarda la provenienza degli autori, stravincono nettamente come prevedibile gli Stati Uniti d’America (108). Secondo posto all’Inghilterra (15) che supera di strattissima misura l’amata Jamaica (13, ma se tutti quei promo avessi dovuto comprarli sarebbero molti di più… e queste statistiche sarebbero meno inutili e più indicative del sottoscritto). Seguono Italia (6, avrei detto di più, ma anche qui molte cose le ho scambiate o sono promozionali), Irlanda (5), Scozia (2) e a parimerito Australia, Germania, Giappone e Svezia (1). 3 le raccolte con artisti di diversa nazionalità.
Per quanto riguarda invece gli anni d’uscita, una piccola precisazione prima del dettaglio: vista l’abbondanza di ristampe, ho considerato l’anno originale di uscita del materiale.
Anni ’50: 1 (1 del 1952).
Anni ’60: 36 (2 del 1964, 2 del 1965, 4 del 1966, 3 del 1967, 2 del 1968, 5 del 1969, 18 vari).
Vari ‘60/’70: 14.
Anni ’70: 30 (4 del 1970, 1 del 1971, 2 del 1972, 4 del 1973, 3 del 1974, 3 del 1975, 2 del 1978, 2 del 1979, 9 vari).
Vari ‘70/’80: 1.
Anni ’80: 13 (6 del 1980, 3 del 1981, 1 del 1986, 1 del 1989, 2 vari).
Anni ’90: 16 (2 del 1992, 1 del 1993, 2 del 1994, 1 del 1996, 2 del 1997, 1 del 1998, 5 del 1999, 2 vari).
Vari ‘90/’00: 1.
Anni ’00: 42 (7 del 2000, 13 del 2001, 22 del 2002).
Vari (più di due decenni rappresentati): 2.
La spesa totale? 1414.22 euro, fratelli e sorelle. Circa 117.85 al mese in media.
Se mi lavassi i denti meglio avrebbero potuto essere anche di più. Se non abitassi in un appartamento enorme con soffitti altissimi e riscaldamento centralizzato idem (se facesse veramente caldo, poi…).
Se non ne avessi comprato nessuno ora avrei l’Ampeg testata e cassa per basso che sogno di notte, ma non avrei tutti i dischi che ho e non avrei scritto tutte queste cose.
1414.22 euro, fratelli e sorelli, ma ricordatevi che non fumo, non mi drogo, non mangio carne e pesce e non leggo fumetti.
Come intuibile dal numero progressivo che precede ogni titolo, nel 2002 ho comprato 156 dischi.
110 nuovi e 46 usati. Molti di quelli nuovi, va detto, erano offerte speciali (ricordate l’invasione di raccolte Motown?).
137 hanno come supporto il CD, 9 il vinile 12”, 2 il vinile 10” e 8 il vinile 7”. Segno dei tempi. Ma chissà che i prezzi e i pochi soldi in tasca non mi facciano tornare al vinile?
Per quanto riguarda la provenienza degli autori, stravincono nettamente come prevedibile gli Stati Uniti d’America (108). Secondo posto all’Inghilterra (15) che supera di strattissima misura l’amata Jamaica (13, ma se tutti quei promo avessi dovuto comprarli sarebbero molti di più… e queste statistiche sarebbero meno inutili e più indicative del sottoscritto). Seguono Italia (6, avrei detto di più, ma anche qui molte cose le ho scambiate o sono promozionali), Irlanda (5), Scozia (2) e a parimerito Australia, Germania, Giappone e Svezia (1). 3 le raccolte con artisti di diversa nazionalità.
Per quanto riguarda invece gli anni d’uscita, una piccola precisazione prima del dettaglio: vista l’abbondanza di ristampe, ho considerato l’anno originale di uscita del materiale.
Anni ’50: 1 (1 del 1952).
Anni ’60: 36 (2 del 1964, 2 del 1965, 4 del 1966, 3 del 1967, 2 del 1968, 5 del 1969, 18 vari).
Vari ‘60/’70: 14.
Anni ’70: 30 (4 del 1970, 1 del 1971, 2 del 1972, 4 del 1973, 3 del 1974, 3 del 1975, 2 del 1978, 2 del 1979, 9 vari).
Vari ‘70/’80: 1.
Anni ’80: 13 (6 del 1980, 3 del 1981, 1 del 1986, 1 del 1989, 2 vari).
Anni ’90: 16 (2 del 1992, 1 del 1993, 2 del 1994, 1 del 1996, 2 del 1997, 1 del 1998, 5 del 1999, 2 vari).
Vari ‘90/’00: 1.
Anni ’00: 42 (7 del 2000, 13 del 2001, 22 del 2002).
Vari (più di due decenni rappresentati): 2.
La spesa totale? 1414.22 euro, fratelli e sorelle. Circa 117.85 al mese in media.
Se mi lavassi i denti meglio avrebbero potuto essere anche di più. Se non abitassi in un appartamento enorme con soffitti altissimi e riscaldamento centralizzato idem (se facesse veramente caldo, poi…).
Se non ne avessi comprato nessuno ora avrei l’Ampeg testata e cassa per basso che sogno di notte, ma non avrei tutti i dischi che ho e non avrei scritto tutte queste cose.
1414.22 euro, fratelli e sorelli, ma ricordatevi che non fumo, non mi drogo, non mangio carne e pesce e non leggo fumetti.
25/02/03
Mi ha fatto piacere leggere quello che hai scritto a proposito di "Front Porch Stories". Non per gli Avail, ovviamente.
E sottoscrivo tutto.
È che anch'io ho ripensato alle tue stesse cose in questi giorni, anche se poi alla fine non ho avuto la voglia di scrivere niente. Mi sembrava di fare della nostalgia a buon mercato.
Ma non è una questione di nostalgia, me ne sono reso conto leggendoti; è che "quei giorni" (forse è tipico accorgersene in queste occasioni) sono una parte di me con cui faccio i conti tutti i giorni, una questione di radici, di storia che si evolve e cambia forma, ma è qui adesso. Non nostalgia, quindi.
Mi sento diverso, non cambiato.
emi.
E sottoscrivo tutto.
È che anch'io ho ripensato alle tue stesse cose in questi giorni, anche se poi alla fine non ho avuto la voglia di scrivere niente. Mi sembrava di fare della nostalgia a buon mercato.
Ma non è una questione di nostalgia, me ne sono reso conto leggendoti; è che "quei giorni" (forse è tipico accorgersene in queste occasioni) sono una parte di me con cui faccio i conti tutti i giorni, una questione di radici, di storia che si evolve e cambia forma, ma è qui adesso. Non nostalgia, quindi.
Mi sento diverso, non cambiato.
emi.
23/02/03
156. Avail “Front Porch Stories” 2002. (cd nuovo, Fat Wreck Chords, € 18.00).
È uno strano e maledetto caso quello che mi porta a parlare del nuovo album degli Avail –l’ultimo disco da me acquistato nel 2002- proprio in questi giorni, funestati dalla terribile notizia che qualche giorno fa come me avrà scosso tutti coloro che animavano o semplicemente frequentavano la scena hardcore-punk degli anni ’90. Una scena profondamente diversa da quella attuale, ammesso e non concesso che la stragrande maggioranza dei suoi partecipanti odierni non si vergogni a chiamarla tale, preferendo usare termini assai più in voga e molto più cool quali rock’n’roll o indie. Una scena in cui bastava un’occhiata per riconoscere nello sconosciuto un fratello. Pibe era giovanissimo, ma c’era eccome. Ed era uno di noi. Ecco, forse non è del tutto un caso. Per ragioni pubbliche e private insieme.
Ragioni pubbliche perché gli anni in cui conobbi Pibe e le cose che faceva sono gli stessi anni in cui gli Avail vennero in Italia per tre volte e il sottoscritto organizzò i loro concerti, concerti bellissimi e completamente estranei a un circuito commerciale che di lì a poco avrebbe cominciato a rovistare in casa nostra e che non avrebbe risparmiato nemmeno gli Avail stessi. Guadagnarono forse qualche lira di meno, i nostri amici di Richmond, ma vissero le cose vere, strinsero rapporti, furono presenti in un momento in cui, per me e spero per tanti altri, la sensazione di partecipare a qualcosa di forte fu netta e precisa. Chi c’era sicuramente capirà di cosa sto parlando. Chi mi conosce sa che considero la nostalgia l’antitesi del punk, ma per questa volta perdonatemi. Non ha a che fare con computer e cellulari, o ne ha in minima parte. Ha a che fare piuttosto con il rischio, la necessità, la voglia.
Ragioni private perché, se la memoria non mi tradisce, la prima volta che vidi Pibe di persona dopo contatti postali fu proprio a un concerto degli Avail. Uno di quei concerti che non dimenticherò mai.
Anche per questo, non appena ho saputo che era in uscita un nuovo cd della band, a quasi tre anni di distanza dal precedente e poco convincente “One Wrench”, mi sono precipitato a prenotarlo. Perché li ho tutti, perché con gli Avail ho vissuto momenti per me fondamentali, e perché in cuor mio temevo che una storia ormai bordeggiante pericolosamente con la routine fosse giunta al termine. L’inizio di “Front Porch Stories”, invece, mi smentisce in maniera clamorosa. Non saranno più la cosa indispensabile del 1994 e del 1996, il gruppo che unisce tutti, ma “Black And Red”, “Blue Times Two” e “West Wye” mi hanno ricordato quegli Avail, e mi è bastato. Poi il disco cala leggermente, cerca strade nuove (più melodia, più feeling sudista) per un sound ormai scolpito nella pietra e ci riesce forse solo in parte, ma va bene così. Va bene lo stesso.
Grandi Avail, grande Pibe, grandi Antisgammo, grandi tutti noi.
Fanculo, merda.
“No time for rest no
Rise
When it happens friend
No, don’t let them break you
Rise
No matter what they say
No, don’t let them break you”
È uno strano e maledetto caso quello che mi porta a parlare del nuovo album degli Avail –l’ultimo disco da me acquistato nel 2002- proprio in questi giorni, funestati dalla terribile notizia che qualche giorno fa come me avrà scosso tutti coloro che animavano o semplicemente frequentavano la scena hardcore-punk degli anni ’90. Una scena profondamente diversa da quella attuale, ammesso e non concesso che la stragrande maggioranza dei suoi partecipanti odierni non si vergogni a chiamarla tale, preferendo usare termini assai più in voga e molto più cool quali rock’n’roll o indie. Una scena in cui bastava un’occhiata per riconoscere nello sconosciuto un fratello. Pibe era giovanissimo, ma c’era eccome. Ed era uno di noi. Ecco, forse non è del tutto un caso. Per ragioni pubbliche e private insieme.
Ragioni pubbliche perché gli anni in cui conobbi Pibe e le cose che faceva sono gli stessi anni in cui gli Avail vennero in Italia per tre volte e il sottoscritto organizzò i loro concerti, concerti bellissimi e completamente estranei a un circuito commerciale che di lì a poco avrebbe cominciato a rovistare in casa nostra e che non avrebbe risparmiato nemmeno gli Avail stessi. Guadagnarono forse qualche lira di meno, i nostri amici di Richmond, ma vissero le cose vere, strinsero rapporti, furono presenti in un momento in cui, per me e spero per tanti altri, la sensazione di partecipare a qualcosa di forte fu netta e precisa. Chi c’era sicuramente capirà di cosa sto parlando. Chi mi conosce sa che considero la nostalgia l’antitesi del punk, ma per questa volta perdonatemi. Non ha a che fare con computer e cellulari, o ne ha in minima parte. Ha a che fare piuttosto con il rischio, la necessità, la voglia.
Ragioni private perché, se la memoria non mi tradisce, la prima volta che vidi Pibe di persona dopo contatti postali fu proprio a un concerto degli Avail. Uno di quei concerti che non dimenticherò mai.
Anche per questo, non appena ho saputo che era in uscita un nuovo cd della band, a quasi tre anni di distanza dal precedente e poco convincente “One Wrench”, mi sono precipitato a prenotarlo. Perché li ho tutti, perché con gli Avail ho vissuto momenti per me fondamentali, e perché in cuor mio temevo che una storia ormai bordeggiante pericolosamente con la routine fosse giunta al termine. L’inizio di “Front Porch Stories”, invece, mi smentisce in maniera clamorosa. Non saranno più la cosa indispensabile del 1994 e del 1996, il gruppo che unisce tutti, ma “Black And Red”, “Blue Times Two” e “West Wye” mi hanno ricordato quegli Avail, e mi è bastato. Poi il disco cala leggermente, cerca strade nuove (più melodia, più feeling sudista) per un sound ormai scolpito nella pietra e ci riesce forse solo in parte, ma va bene così. Va bene lo stesso.
Grandi Avail, grande Pibe, grandi Antisgammo, grandi tutti noi.
Fanculo, merda.
“No time for rest no
Rise
When it happens friend
No, don’t let them break you
Rise
No matter what they say
No, don’t let them break you”
21/02/03
Lui: "Avete del farro?"
Io (se non si è capito, lavoro in un negozio di alimenti naturali e biologici): "Sì, decorticato o perlato?"
Lui: "Ah... quale è meglio?"
(come ogni volta, potrebbe bastare. Ma non basta)
Io: "Tutti e due e nessuno dei due... dipende da cosa ci deve fare"
Lui (serio e assolutamente non strafottente): "Beh, devo cucinarlo..."
Io (se non si è capito, lavoro in un negozio di alimenti naturali e biologici): "Sì, decorticato o perlato?"
Lui: "Ah... quale è meglio?"
(come ogni volta, potrebbe bastare. Ma non basta)
Io: "Tutti e due e nessuno dei due... dipende da cosa ci deve fare"
Lui (serio e assolutamente non strafottente): "Beh, devo cucinarlo..."
16/02/03
155. Against Me! “Reinventing Axl Rose” 2002. (cd nuovo, No Idea, € 11.00).
Residenza in Florida e cuore ovunque ci siano ingiustizie e qualcuno disposto a combatterle, gli Against Me! Sono la migliore novità in campo punk da anni a questa parte. Parola. È country-folk dentro ancora prima che fuori, musica del popolo che purtroppo per il popolo non lo è più da tempo, affidata a chitarre elettriche e irresistibili cori irish.
“Reinventing Axl Rose”, loro secondo album, è commovente nel gettare le proprie carte sul tavolo senza indugi, rauco e urgente. Nei petti dei suoi autori brucia il fuoco ribelle e polemico del primo Billy Bragg, degli Stiff Little Fingers, degli (Young) Pioneers, dei migliori Avail e dei Propagandhi, un fuoco personale e politico, un’America nascosta. “Reinventing Axl Rose”, la canzone, è un piccolo manuale. Un modello alternativo e perfettamente praticabile di scena, di uomini e donne nuove, alla faccia dei tanti Axl non solo mainstream.
“Pints Of Guinness Make You Strong” è una toccante storia familiare di amore e di orgoglio, “We Laugh At Danger (And Break All The Rules)” ha un coro che probabilmente mi ritroverò a cantare ai miei nipotini, “Those Anarcho Punx Are Mysterious…” è l’autocritica (“We rock because it’s us against them we found our own reason to sing, and it’s so much less confusing when lines are drawn like that”), “Baby, I’m An Anarchist” la ballata che sintetizza il tutto come meglio non si potrebbe, con sarcasmo e passione (e come difficilmente riusciranno a fare tanti portabandiera del movimento no-global):
“through the best of times, through the worst of times. through nixon and through bush. do you remember '36, we went our separate ways, you fought for stalin and i fought for freedom. you believe in authority, i believe in myself. i'm a molotov cocktail, you're the dom perignon. baby, what's that confused look in your in your eye? what i'm trying to say is that i'll burn down buildings while you sit on a shelf inside of them. you call the cops on the looters and pie-throwers. they call it class war, i call them co-conspirators. 'cuz baby, i'm an anarchist and you're a spineless liberal. we marched together for the 8-hour day and held hands in the streets of seattle. but when it came time to throw bricks through that starbucks window you left me all alone. you watched in awe at the red, white & blue on the 4th of july. but while those fireworks were exploding i was burning that fucker and stringing my black flag high. eating the peanuts that the parties have tossed you. in the back seat of your father's new ford you believe in the ballot, you believe in reform. you have faith in the elephant and jackass. and to you solidarity is a four-letter word. we're all hypocrites, but you're a patriot. you thought i was only joking when i was screaming, "kill whitey" at the top of my lungs at the cops in their cars and the men in their suits. no i won't take your hand and marry the state.”
Fantastici.
Residenza in Florida e cuore ovunque ci siano ingiustizie e qualcuno disposto a combatterle, gli Against Me! Sono la migliore novità in campo punk da anni a questa parte. Parola. È country-folk dentro ancora prima che fuori, musica del popolo che purtroppo per il popolo non lo è più da tempo, affidata a chitarre elettriche e irresistibili cori irish.
“Reinventing Axl Rose”, loro secondo album, è commovente nel gettare le proprie carte sul tavolo senza indugi, rauco e urgente. Nei petti dei suoi autori brucia il fuoco ribelle e polemico del primo Billy Bragg, degli Stiff Little Fingers, degli (Young) Pioneers, dei migliori Avail e dei Propagandhi, un fuoco personale e politico, un’America nascosta. “Reinventing Axl Rose”, la canzone, è un piccolo manuale. Un modello alternativo e perfettamente praticabile di scena, di uomini e donne nuove, alla faccia dei tanti Axl non solo mainstream.
“Pints Of Guinness Make You Strong” è una toccante storia familiare di amore e di orgoglio, “We Laugh At Danger (And Break All The Rules)” ha un coro che probabilmente mi ritroverò a cantare ai miei nipotini, “Those Anarcho Punx Are Mysterious…” è l’autocritica (“We rock because it’s us against them we found our own reason to sing, and it’s so much less confusing when lines are drawn like that”), “Baby, I’m An Anarchist” la ballata che sintetizza il tutto come meglio non si potrebbe, con sarcasmo e passione (e come difficilmente riusciranno a fare tanti portabandiera del movimento no-global):
“through the best of times, through the worst of times. through nixon and through bush. do you remember '36, we went our separate ways, you fought for stalin and i fought for freedom. you believe in authority, i believe in myself. i'm a molotov cocktail, you're the dom perignon. baby, what's that confused look in your in your eye? what i'm trying to say is that i'll burn down buildings while you sit on a shelf inside of them. you call the cops on the looters and pie-throwers. they call it class war, i call them co-conspirators. 'cuz baby, i'm an anarchist and you're a spineless liberal. we marched together for the 8-hour day and held hands in the streets of seattle. but when it came time to throw bricks through that starbucks window you left me all alone. you watched in awe at the red, white & blue on the 4th of july. but while those fireworks were exploding i was burning that fucker and stringing my black flag high. eating the peanuts that the parties have tossed you. in the back seat of your father's new ford you believe in the ballot, you believe in reform. you have faith in the elephant and jackass. and to you solidarity is a four-letter word. we're all hypocrites, but you're a patriot. you thought i was only joking when i was screaming, "kill whitey" at the top of my lungs at the cops in their cars and the men in their suits. no i won't take your hand and marry the state.”
Fantastici.
154. The Polyphonic Spree “The Beginning Stages Of…” 2002. (cd usato, 679/Good, € 9.50).
Della band in questione lessi su un numero estivo di “Mojo” –l’unico che posso vantarmi di citare, essendo l’unico che io abbia mai letto- a proposito di un concerto londinese, del quale era pubblicata anche una foto, e la mia attenzione fu subito catturata. Un’accolita di ventiquattro indie-rockers in tunica bianca, guidati da un leader quasi capellone che sotto la tunica indossava New Balance e pareva mosso da uno spirito meno pacchiano di quanto le caratteristiche dell’operazione lasciassero immaginare.
Ecco i Polyphonic Spree, quindi, ed ecco il loro album di esordio che in poco tempo ha raggiunto status di classico e fatto impazzire mezzo mondo. L’idea è indubbiamente affascinante: pop orchestrale e sognante, solare e rilassante sulla scia dei Beach Boys di “Pet Sounds”, ma anche di Beatles, Flaming Lips et similia, tutto pompato da un coro di una ventina di persone che innalza il tutto verso paesaggi celestiali. E per nulla pacchiani.
“The Beginning Stages Of…” si prende un po’ di tempo in più del previsto, ma quando finalmente entra in circolo immerge l’ascoltatore in un’atmosfera positiva e calorosa, per nulla appesantita dall’imponenza della formazione. Le sue prime nove sezioni sono una più bella dell’altra, e persino la decima -trentasei minuti abbondanti di rumori di fondo elettronici, detta così rischia di essere l’incubo che rovina quanto di bello è successo in precedenza- si fa ascoltare e sembra una conclusione sensata e pertinente per questo piccolo capolavoro.
Della band in questione lessi su un numero estivo di “Mojo” –l’unico che posso vantarmi di citare, essendo l’unico che io abbia mai letto- a proposito di un concerto londinese, del quale era pubblicata anche una foto, e la mia attenzione fu subito catturata. Un’accolita di ventiquattro indie-rockers in tunica bianca, guidati da un leader quasi capellone che sotto la tunica indossava New Balance e pareva mosso da uno spirito meno pacchiano di quanto le caratteristiche dell’operazione lasciassero immaginare.
Ecco i Polyphonic Spree, quindi, ed ecco il loro album di esordio che in poco tempo ha raggiunto status di classico e fatto impazzire mezzo mondo. L’idea è indubbiamente affascinante: pop orchestrale e sognante, solare e rilassante sulla scia dei Beach Boys di “Pet Sounds”, ma anche di Beatles, Flaming Lips et similia, tutto pompato da un coro di una ventina di persone che innalza il tutto verso paesaggi celestiali. E per nulla pacchiani.
“The Beginning Stages Of…” si prende un po’ di tempo in più del previsto, ma quando finalmente entra in circolo immerge l’ascoltatore in un’atmosfera positiva e calorosa, per nulla appesantita dall’imponenza della formazione. Le sue prime nove sezioni sono una più bella dell’altra, e persino la decima -trentasei minuti abbondanti di rumori di fondo elettronici, detta così rischia di essere l’incubo che rovina quanto di bello è successo in precedenza- si fa ascoltare e sembra una conclusione sensata e pertinente per questo piccolo capolavoro.
06/02/03
Lei (non ho ancora capito se è convinta di darmi del Tu o del Lei): "Signore scusi... questa marmellata di mirtilli è senza zucchero?"
Io: "Sì, sì... tutte le marmellate che abbiamo sono senza zucchero"
Lei (avvicinandosi con un vasetto di malto al mirtillo, le cui differenze seppure minime dalla marmellata di mirtilli non ho voglia di spiegarle): "...sa, perchè ...non c'è scritto"
Io: "Che cosa non c'è scritto?"
Lei: "Che è senza zucchero"
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Potrebbe bastare, ma come spesso succede e come i lettori fedeli ben sanno, non basta.
Io: "Basta leggere l'elenco degli ingredienti... vede? C'è lo zucchero?"
Lei: "...no"
Io: "Allora è senza zucchero, signora"
Lei: "Eh, ma chi lo sa... perchè una volta in un negozio tipo il vostro ne ho presa una... c'era scritto "Senza Zucchero" ma invece c'era lo zucchero!"
E alè, due a zero.
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno. Potere di un cervello a mezzo servizio.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Anche se l'ultima volta hai verificato il contrario (dando per buona l'improbabile testimonianza).
Meravigliosa.
Io: "Sì, sì... tutte le marmellate che abbiamo sono senza zucchero"
Lei (avvicinandosi con un vasetto di malto al mirtillo, le cui differenze seppure minime dalla marmellata di mirtilli non ho voglia di spiegarle): "...sa, perchè ...non c'è scritto"
Io: "Che cosa non c'è scritto?"
Lei: "Che è senza zucchero"
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Potrebbe bastare, ma come spesso succede e come i lettori fedeli ben sanno, non basta.
Io: "Basta leggere l'elenco degli ingredienti... vede? C'è lo zucchero?"
Lei: "...no"
Io: "Allora è senza zucchero, signora"
Lei: "Eh, ma chi lo sa... perchè una volta in un negozio tipo il vostro ne ho presa una... c'era scritto "Senza Zucchero" ma invece c'era lo zucchero!"
E alè, due a zero.
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno. Potere di un cervello a mezzo servizio.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Anche se l'ultima volta hai verificato il contrario (dando per buona l'improbabile testimonianza).
Meravigliosa.
05/02/03
Inizia febbraio, e con un ritardo tutto sommato accettabile “Soul Food” si appresta a chiudere i conti con il 2002. Ancora tre titoli, e potremo tirare le somme con una serie di inutili statistiche, prima di dedicarci ad un 2003 che ha già portato in casa Soul Mate #65 una decina di dischetti (maledette offerte di gennaio alla Wide, e maledetti soprattutto il dentista ed il riscaldamento di condominio che si sono frapposti tra me e il catalogo Pressure Sounds da completare approfittando dell’occasione). Il numero 156 è vicino, crediamoci.
Per i nuovi lettori che si fossero ritrovati qui per la prima volta, un paio di dritte su “Soul Food”. La Musica è il mio Cibo per l’Anima. Semplice no? Scrivo dal cuore della città, non ho cinque minuti liberi e spendo fortune in musica cercando il Sound Verite. Non mi piace quel genere piuttosto di quell’altro. Mi piace ciò che è Vero, tutto il resto forse non è un caso.
Queste non sono recensioni. Siamo io e i miei dischi. Parlo dei dischi che mi compro -esclusivamente di quelli- in ordine cronologico, numerati a crescere dall’inizio dell’anno. Voi fatene cosa volete. Se qualche titolo vi incuriosisse e ve lo andaste a cercare, ne sarei felice. Se mi faceste sapere cosa ne pensate, ne sarei altrettanto felice. Quello che non si conosce è più bello di quello che si conosce.
153. The Black Sea “The Black Sea” 2002. (mcd nuovo, Lovitt, € 8.00).
Shelby Cinca (voce, chitarra) e Jason Hamacher (batteria) erano due terzi dei Frodus, band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso tutto quello che è venuto dopo, con energia da vendere. A qualche anno di distanza dallo scioglimento (con Shelby nel frattempo diventato titolare dei Cassettes, i due si ritrovano e ricominciano a fare musica insieme, in compagnia di un terzo che è sufficiente citare soltanto per nome e cognome: Joe Lally.
L’omonimo debutto dei Black Sea, purtroppo soltanto tre brani, è costruito su atmosfere scure come la sua copertina, che coniugano la sempiterna lezione di Washington DC con sprazzi di lirismo quasi hard-rock e melodie epiche. “Wingless Fire” chiude con chitarra acustica, voce e rumori di vento, in un’atmosfera folk gotica da brividi. Non vedo l’ora di sentire l’album, che i bene informati danno in uscita per l’estate.
Per i nuovi lettori che si fossero ritrovati qui per la prima volta, un paio di dritte su “Soul Food”. La Musica è il mio Cibo per l’Anima. Semplice no? Scrivo dal cuore della città, non ho cinque minuti liberi e spendo fortune in musica cercando il Sound Verite. Non mi piace quel genere piuttosto di quell’altro. Mi piace ciò che è Vero, tutto il resto forse non è un caso.
Queste non sono recensioni. Siamo io e i miei dischi. Parlo dei dischi che mi compro -esclusivamente di quelli- in ordine cronologico, numerati a crescere dall’inizio dell’anno. Voi fatene cosa volete. Se qualche titolo vi incuriosisse e ve lo andaste a cercare, ne sarei felice. Se mi faceste sapere cosa ne pensate, ne sarei altrettanto felice. Quello che non si conosce è più bello di quello che si conosce.
153. The Black Sea “The Black Sea” 2002. (mcd nuovo, Lovitt, € 8.00).
Shelby Cinca (voce, chitarra) e Jason Hamacher (batteria) erano due terzi dei Frodus, band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso tutto quello che è venuto dopo, con energia da vendere. A qualche anno di distanza dallo scioglimento (con Shelby nel frattempo diventato titolare dei Cassettes, i due si ritrovano e ricominciano a fare musica insieme, in compagnia di un terzo che è sufficiente citare soltanto per nome e cognome: Joe Lally.
L’omonimo debutto dei Black Sea, purtroppo soltanto tre brani, è costruito su atmosfere scure come la sua copertina, che coniugano la sempiterna lezione di Washington DC con sprazzi di lirismo quasi hard-rock e melodie epiche. “Wingless Fire” chiude con chitarra acustica, voce e rumori di vento, in un’atmosfera folk gotica da brividi. Non vedo l’ora di sentire l’album, che i bene informati danno in uscita per l’estate.
27/01/03
150. Simple Minds “Sons And Fascination” 1981.(lp usato, Virgin, € 3.00).
151. Simple Minds “Sister Feelings Call” 1981.(lp usato, Virgin, € 3.00).
Come i lettori di più vecchi adata sanno, sono cresciuto a pane e U2 (vedi archivio di maggio). E non solo, non mi sono negato nemmeno i vari altri rappresentanti di quello che le riviste dell’epoca definirono più o meno rock dei sentimenti. Ero giovane e idealista, cercate di capire. Vai quindi di Alarm, Big Country e Simple Minds, soprattutto.
Non frequentando Jim Kerr e soci da moltissimo tempo (all’incirca dal singolone “Ballad Of The Streets”, quello con “Mandela Day” e le cover di “Belfast Child” e “Biko”), la mia cognizione della loro discografia è diventata assai vaga. So che “New Gold Dream (81-82-83-84)” ha un titolo da compilation ma è un album vero (A&M, 1982) ed è il loro top. So che nei dischi precedenti, di cui conosco i titoli ma non l’ordine, ci sono varie belle cose perché da qualche parte a casa dei miei genitori ci sono delle c90 scrause a testimoniarlo.
Quando vedo i due titoli di cui sopra nello scaffale a questo prezzo, quindi, li estraggo senza indugiare, scoprendo solo in seguito che si tratta dei due episodi forse meno significativi della prima parte di carriera della band scozzese. Se infatti il buon esordio “Life In A Day” e i seguenti “Real To Real Cacophony” e “Empires And Dance” passarono con disinvoltura dal post-punk alla sperimentazione alla disco, questi due virano verso il pop, preparando la strada per il citato “New Gold Dream (81-82-83-84)” ma senza la verve e le canzoni che lo resero grande.
Non mancano i momenti validi, ok. Ma forse ho fatto troppo affidamento sugli anni che passano e sulla mia sempre crescente (ma non ancora completa, anzi…) capacità di accostarmi all’ascolto di qualunque cosa. Forse per queste tastiere onnipresenti e per la voce di Jim Kerr è ancora troppo presto. Forse bisognerà attendere il prossimo speciale estivo di “Blow Up”. Forse avrei fatto meglio a tralasciare questi e a non abbandonare nello stesso scaffale “New Gold Dream (81-82-83-84)”. Di cui ho la cassetta originale, peraltro.
O forse avrei fatto meglio a tralasciare i Simple Minds in generale, e a prendere “Court And Spark” di Joni Mitchell e “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder per quattro monete da uno in più.
152. AA.VV. “Studio One Story” 2002. (cd+dvd nuovo, Soul Jazz, € 35.60).
Un cd con sedici pezzi, per forza di cose limitativo -e Horace Andy? E Burning Spear? E Ken Boothe? E i Wailers?- ma nondimeno esaltante. Un libretto extralusso di novanta pagine. Soprattutto, un DVD di quattro ore che ripercorre la storia della prima e forse migliore etichetta reggae mai esistita e del suo leggendario fondatore Clement “Coxsone” Dodd, con interviste illuminanti ed immagini fantastiche. Inutile aggiungere altro. Se amate il reggae, non esitate. Se volete amarlo, idem. Se non lo amate, peggio per voi.
151. Simple Minds “Sister Feelings Call” 1981.(lp usato, Virgin, € 3.00).
Come i lettori di più vecchi adata sanno, sono cresciuto a pane e U2 (vedi archivio di maggio). E non solo, non mi sono negato nemmeno i vari altri rappresentanti di quello che le riviste dell’epoca definirono più o meno rock dei sentimenti. Ero giovane e idealista, cercate di capire. Vai quindi di Alarm, Big Country e Simple Minds, soprattutto.
Non frequentando Jim Kerr e soci da moltissimo tempo (all’incirca dal singolone “Ballad Of The Streets”, quello con “Mandela Day” e le cover di “Belfast Child” e “Biko”), la mia cognizione della loro discografia è diventata assai vaga. So che “New Gold Dream (81-82-83-84)” ha un titolo da compilation ma è un album vero (A&M, 1982) ed è il loro top. So che nei dischi precedenti, di cui conosco i titoli ma non l’ordine, ci sono varie belle cose perché da qualche parte a casa dei miei genitori ci sono delle c90 scrause a testimoniarlo.
Quando vedo i due titoli di cui sopra nello scaffale a questo prezzo, quindi, li estraggo senza indugiare, scoprendo solo in seguito che si tratta dei due episodi forse meno significativi della prima parte di carriera della band scozzese. Se infatti il buon esordio “Life In A Day” e i seguenti “Real To Real Cacophony” e “Empires And Dance” passarono con disinvoltura dal post-punk alla sperimentazione alla disco, questi due virano verso il pop, preparando la strada per il citato “New Gold Dream (81-82-83-84)” ma senza la verve e le canzoni che lo resero grande.
Non mancano i momenti validi, ok. Ma forse ho fatto troppo affidamento sugli anni che passano e sulla mia sempre crescente (ma non ancora completa, anzi…) capacità di accostarmi all’ascolto di qualunque cosa. Forse per queste tastiere onnipresenti e per la voce di Jim Kerr è ancora troppo presto. Forse bisognerà attendere il prossimo speciale estivo di “Blow Up”. Forse avrei fatto meglio a tralasciare questi e a non abbandonare nello stesso scaffale “New Gold Dream (81-82-83-84)”. Di cui ho la cassetta originale, peraltro.
O forse avrei fatto meglio a tralasciare i Simple Minds in generale, e a prendere “Court And Spark” di Joni Mitchell e “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder per quattro monete da uno in più.
152. AA.VV. “Studio One Story” 2002. (cd+dvd nuovo, Soul Jazz, € 35.60).
Un cd con sedici pezzi, per forza di cose limitativo -e Horace Andy? E Burning Spear? E Ken Boothe? E i Wailers?- ma nondimeno esaltante. Un libretto extralusso di novanta pagine. Soprattutto, un DVD di quattro ore che ripercorre la storia della prima e forse migliore etichetta reggae mai esistita e del suo leggendario fondatore Clement “Coxsone” Dodd, con interviste illuminanti ed immagini fantastiche. Inutile aggiungere altro. Se amate il reggae, non esitate. Se volete amarlo, idem. Se non lo amate, peggio per voi.
26/01/03
Questa è capitata in un altro negozio, ma è cugina delle mie (magari i miei picchiatelli si limitassero a prendere roma per toma, come si dice qui...).
Vorrei soltanto avere la metà della prontezza e dello spirito di Blatter, invece di somatizzzare all'istante.
Lui: "Cercavo il primo di Jaco Pastorius..."
Blatter: "Quale è?"
Lui: "Il primo, non ha titolo... è inedito"
Blatter: "Omonimo?"
Lui: "No no, inedito!"
Blatter: "Ah... allora non ce l'ho"
149. The La’s “The La’s” 2001.(cd nuovo, € 12.00).
Hanno quelle facce insopportabili e pure un po’ tristi dei gruppi inglesi osannati per un anno e scomparsi presto, ed una fama apparentemente sproporzionata per un gruppo esistito a sprazzi di pochi mesi, autore di qualche singolo ed un solo album e legato nel bene e nel male agli estri di un solo songwriter/cantante/chitarrista/leader chiamato Lee Mavers e a innumerevoli cambi di formazione.
“The La’s” è l’unico album in questione, uscito nel 1990 e ristampato nel 2001 con l’aggiunta di cinque brani, e comincia come cominciano solo i grandi album: con un tris che stende. In “Son Of A Gun”, “I Can’t Sleep” e “Timeless Melody” (nomen omen) il quartetto sciorina scintillante guitar-pop dall’indelebile impronta sixties (primi Beatles, primi Who, Small Faces) e dal piglio moderno di certi R.E.M. o degli indimenticabili Chesterfield Kings di “Don’t Open ‘Till Doomsday” (a tratti la somiglianza è davvero sorprendente, non solo per la somiglianza tra la voce di Mavers e quella di Greg Prevost).
“Liberty Ship” abbassa solo di poco il ritmo, con il suo Bo Diddley beat semiacustico che non esplode mai, e subito il singolone d’epoca “There She Goes” si fa largo con un jingle-jangle vicino agli Smiths più spensierati (e un testo molto facilmente interpretabile in chiave junkie con la Lei a cui state pensando… che qualcuno mi soccorra e mi spieghi dove stava ancora nel 1990 -e dove sta tuttora e dove è mai stato, se è per questo- il glamour dell’eroina, grazie). “Doledrum” riprende in mano le acustiche per un pimpante ritmo quasi bluegrass, mentre “Feeling”, “Way Out” e “I.O.U.” tornano a spingere.
“Freedom Song” introduce amarezza su atmosfere quasi cabarettistiche, ma subito “Failure” torna su quello che è ormai stile La’s al 100% con la faccia tosta degli Stones di metà ’60. “Looking Glass” sono i sette minuti finali che cominciano e continuano acustici e finiscono in rumore. I cinque bonus non sono da meno, dalla rarefatta “All By Myself” alla versione alternativa di “I.O.U.” (ancora più Chesterfield Kings!), passando per l’urgente “Clean Prophet”, la classica “Knock Me Down” e la grezza registrazione live di “Over”.
Fama meritata.
Vorrei soltanto avere la metà della prontezza e dello spirito di Blatter, invece di somatizzzare all'istante.
Lui: "Cercavo il primo di Jaco Pastorius..."
Blatter: "Quale è?"
Lui: "Il primo, non ha titolo... è inedito"
Blatter: "Omonimo?"
Lui: "No no, inedito!"
Blatter: "Ah... allora non ce l'ho"
149. The La’s “The La’s” 2001.(cd nuovo, € 12.00).
Hanno quelle facce insopportabili e pure un po’ tristi dei gruppi inglesi osannati per un anno e scomparsi presto, ed una fama apparentemente sproporzionata per un gruppo esistito a sprazzi di pochi mesi, autore di qualche singolo ed un solo album e legato nel bene e nel male agli estri di un solo songwriter/cantante/chitarrista/leader chiamato Lee Mavers e a innumerevoli cambi di formazione.
“The La’s” è l’unico album in questione, uscito nel 1990 e ristampato nel 2001 con l’aggiunta di cinque brani, e comincia come cominciano solo i grandi album: con un tris che stende. In “Son Of A Gun”, “I Can’t Sleep” e “Timeless Melody” (nomen omen) il quartetto sciorina scintillante guitar-pop dall’indelebile impronta sixties (primi Beatles, primi Who, Small Faces) e dal piglio moderno di certi R.E.M. o degli indimenticabili Chesterfield Kings di “Don’t Open ‘Till Doomsday” (a tratti la somiglianza è davvero sorprendente, non solo per la somiglianza tra la voce di Mavers e quella di Greg Prevost).
“Liberty Ship” abbassa solo di poco il ritmo, con il suo Bo Diddley beat semiacustico che non esplode mai, e subito il singolone d’epoca “There She Goes” si fa largo con un jingle-jangle vicino agli Smiths più spensierati (e un testo molto facilmente interpretabile in chiave junkie con la Lei a cui state pensando… che qualcuno mi soccorra e mi spieghi dove stava ancora nel 1990 -e dove sta tuttora e dove è mai stato, se è per questo- il glamour dell’eroina, grazie). “Doledrum” riprende in mano le acustiche per un pimpante ritmo quasi bluegrass, mentre “Feeling”, “Way Out” e “I.O.U.” tornano a spingere.
“Freedom Song” introduce amarezza su atmosfere quasi cabarettistiche, ma subito “Failure” torna su quello che è ormai stile La’s al 100% con la faccia tosta degli Stones di metà ’60. “Looking Glass” sono i sette minuti finali che cominciano e continuano acustici e finiscono in rumore. I cinque bonus non sono da meno, dalla rarefatta “All By Myself” alla versione alternativa di “I.O.U.” (ancora più Chesterfield Kings!), passando per l’urgente “Clean Prophet”, la classica “Knock Me Down” e la grezza registrazione live di “Over”.
Fama meritata.
22/01/03
146. The Allman Brothers Band “Brothers & Sisters” 1973.(cd usato, Unicorn, € 6.00).
Non sono granchè pratico della discografia della band, e tra i vari album che la bancarella ha scelgo questo. Perché tempo fa è uscito allegato all’Espresso nella collana sui classici del rock (ogni tanto toppano, ma di solito il titolo scelto è realmente il più significativo nella carriera dell’artista), ma soprattutto perché ha una copertina splendida che pare preannunciarne il contenuto. Ed una foto di gruppo sul retro che è qualcosa di fantastico: quelli che intuisco essere i membri della band ritratti insieme a donne, bambini, amici e cani in un pomeriggio autunnale, di fronte ad una casa nel bosco, sereni e sorridenti nonostante le traversie che ne avevano già segnato l’esistenza (la morte dei fondatori Duane Allman e Berry Oakley, due incidenti motociclistici a un anno e a pochi metri di distanza). Una foto di gruppo, probabilmente scattata nella casa di Macon dove la band viveva, che spande una sensazione di relax e di America primi ’70. America sudista, ovvio, ma quella America sudista che fece dell’integrazione e della commistione di stili e razze una ricchezza. Come nella foto vediamo bianchi e neri, nel suono sentiamo il blues e il rock’n’roll fondersi con il country in quello che fu celebrato come southern rock.
“Brothers And Sisters” è però, appunto, più rilassato rispetto agli esordi del gruppo e ai contemporanei Lynyrd Skynyrd. La chitarra solista di Dickey Betts e il piano di Chuck Leavell duettano a meraviglia in jam che dal vivo venivano dilatate oltremisura per il puro piacere di farlo, mentre le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe stendono il ritmo insieme al basso di Berry Oakley (nei due pezzi registrati prima di morire) o Lamar Williams.
147. Blur “The Great Escape” 1995.(cd usato, Food/EMI, € 7.00).
Chiedo venia, ma i Blur prima dell’eccezionale album omonimo del 1997 li conosco solo dai singoli, e qui di singoli ce ne sono tre di memorabili: “Country House”, più british della regina, la gloriosa “The Universal” e la scoppiettante “Charmless Man”. E forse anche “Stereotypes”, chissà. Il resto dell’album lo scopro ora ai medesimi livelli, forse solo un po’ troppo lungo con i suoi quindici brani in tutto, spesso impostati sullo stesso canovaccio.
Sorta di concept a 360° su splendori e miserie della classe media inglese –che fa molto Kinks, ma lo si è già detto- “The Great Escape” è l’ultimo atto dei Blur prima parte, l’apice della popolarità in chiave brit-pop e la prova che lo spessore del quartetto andava e va ben oltre i singoli da classifica. Nello stesso tempo, la gran parte dei pezzi avrebbe potuto esserlo, ma senza per questo perdere un grammo di inventiva, complessità, significato.
Loro vestiti da manager, nella foto sul retro, sono raccapriccianti (o forse raccapricciante è soltanto l’effetto che fanno quattro manager inglesi vestiti come otto anni fa), ma il progetto grafico dell’album è davvero notevole.
148. The Untold Fables “Aesop’s Apocalypse” 1989.(lp nuovo, Dionysus, € 5.16).
Oh, un disco che mi riporta indietro di una quindicina di anni, ai tempi di “Lost Trails” e dell’esplosione garage di metà ’80, di “Rockerilla” e dei viaggi in città una o due volte al mese per comprare (uno o due) dischi, di “Do The Pop” e dei concerti allo Studio Due o al vecchio Hiroshima (a trenta metri dal quale, guarda un po’ il destino, sono finito ad abitare molti anni dopo). Concerti ai quali noi teenagers di provincia con l’ultimo treno utile a mezzanotte e mezza ci facevamo accompagnare da mio papà, che inizialmente si spinse fin dentro i locali (citando ancora adesso con destrezza Husker Du e Died Pretty) e successivamente optò per un più consono cinema.
Uno tra i più memorabili di questi concerti, in ogni caso, fu quello dei Miracle Workers. Era da poco uscito “Overdose”, lo strepitoso album della svolta punk/hard, e come nuovo bassista presentavano in formazione tale Robert Butler. Il capellone non ci mise molto a diventare il nostro idolo, più che per la maglietta con enormi falce e martello che indossava quella sera, per la sua orgogliosa militanza nelle schiere beach punk losangelene che all’epoca adoravamo senza riserve. Bassista di un nome di punta del revival garage-rock appena affrancatosi dagli stilemi revivalisti ormai ripetuti a memoria del genere, citava Circle Jerks e Black Flag come sue influenze primarie, ricollegando così idealmente il punk dei ’60, quello delle miriadi di garage bands da un singolo e via, con quello dei ’70 e dei primi ’80.
Suo biglietto da visita -oltre ai Miracle Workers- il suo primo gruppo, gli Untold Fables. Anche loro partiti dal revival, ma fin da subito animati da un fuoco punk (vedi il chitarrista John Niederbrach in maglietta Ramones) e hardcore, irruppero sulla scena con un album (“Every Mother’s Nightmare”, Dionysus 1985, registrato al Westbeach da Brett Gurewitz, tanto per capirci) da allora considerato tra i fondamentali del garage rock anni ’80. Oltre che tra i più grossi rimpianti del sottoscritto, che lo ha visto una volta sola intorno a quegli anni e non lo ha comprato.
Uscito postumo nel 1989, “Aesop’s Apocalypse” comprende undici brani registrati in due sessioni nel 1986 e nel 1987. Due -“Wendylyn” e la memorabile ballata “The Man And The Wooden God”- avevano già visto la luce su un 7” del 1987 per Dionysus (insieme a “For My Woman” e alla grandissima cover di “When The Night Falls” degli inglesi Eyes), tutto proveniente dalle sessions del 1986. Altre cinque, dalle sessions seguenti e sempre più frenetiche e veloci, su un 7” del 1988 per la tedesca Mystery Scene e su una compilation (“Dimensions Of Sound”, 1987) per la stessa etichetta. Dischi che ho tutti, a scanso di equivoci. Fesso una volta sì, due no.
Onore quindi al solito Blatter, che mette una copia ancora sigillata di “Aesop’s Apocalypse” nello scomparto delle super-offerte e mi fa tuffare nel passato, con quattro inedite: il selvaggio stomp di “I Think” e le cover di “Shot Down” (Sonics), “Cry In The Night” (Q65) e “By My Side” (non so di chi sia), quest’ultima però mai selvaggia come la versione dei Morlocks sul loro primo, introvabile, inascoltabile, meraviglioso primo album “Emerge”. Olè!
E oggi? Robert Butler ha ritrovato un altro Miracle Worker, il cantante Gerry Mohr, nei Get Lost. Il cantante Paul Carey ha militato nei Witch Doctors (esistono ancora?). Di John Niederbrach e del batterista Paul Sakry nessuna traccia. Ma occhio, si parla di un cd riepilogativo in uscita prima o poi!
Non sono granchè pratico della discografia della band, e tra i vari album che la bancarella ha scelgo questo. Perché tempo fa è uscito allegato all’Espresso nella collana sui classici del rock (ogni tanto toppano, ma di solito il titolo scelto è realmente il più significativo nella carriera dell’artista), ma soprattutto perché ha una copertina splendida che pare preannunciarne il contenuto. Ed una foto di gruppo sul retro che è qualcosa di fantastico: quelli che intuisco essere i membri della band ritratti insieme a donne, bambini, amici e cani in un pomeriggio autunnale, di fronte ad una casa nel bosco, sereni e sorridenti nonostante le traversie che ne avevano già segnato l’esistenza (la morte dei fondatori Duane Allman e Berry Oakley, due incidenti motociclistici a un anno e a pochi metri di distanza). Una foto di gruppo, probabilmente scattata nella casa di Macon dove la band viveva, che spande una sensazione di relax e di America primi ’70. America sudista, ovvio, ma quella America sudista che fece dell’integrazione e della commistione di stili e razze una ricchezza. Come nella foto vediamo bianchi e neri, nel suono sentiamo il blues e il rock’n’roll fondersi con il country in quello che fu celebrato come southern rock.
“Brothers And Sisters” è però, appunto, più rilassato rispetto agli esordi del gruppo e ai contemporanei Lynyrd Skynyrd. La chitarra solista di Dickey Betts e il piano di Chuck Leavell duettano a meraviglia in jam che dal vivo venivano dilatate oltremisura per il puro piacere di farlo, mentre le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe stendono il ritmo insieme al basso di Berry Oakley (nei due pezzi registrati prima di morire) o Lamar Williams.
147. Blur “The Great Escape” 1995.(cd usato, Food/EMI, € 7.00).
Chiedo venia, ma i Blur prima dell’eccezionale album omonimo del 1997 li conosco solo dai singoli, e qui di singoli ce ne sono tre di memorabili: “Country House”, più british della regina, la gloriosa “The Universal” e la scoppiettante “Charmless Man”. E forse anche “Stereotypes”, chissà. Il resto dell’album lo scopro ora ai medesimi livelli, forse solo un po’ troppo lungo con i suoi quindici brani in tutto, spesso impostati sullo stesso canovaccio.
Sorta di concept a 360° su splendori e miserie della classe media inglese –che fa molto Kinks, ma lo si è già detto- “The Great Escape” è l’ultimo atto dei Blur prima parte, l’apice della popolarità in chiave brit-pop e la prova che lo spessore del quartetto andava e va ben oltre i singoli da classifica. Nello stesso tempo, la gran parte dei pezzi avrebbe potuto esserlo, ma senza per questo perdere un grammo di inventiva, complessità, significato.
Loro vestiti da manager, nella foto sul retro, sono raccapriccianti (o forse raccapricciante è soltanto l’effetto che fanno quattro manager inglesi vestiti come otto anni fa), ma il progetto grafico dell’album è davvero notevole.
148. The Untold Fables “Aesop’s Apocalypse” 1989.(lp nuovo, Dionysus, € 5.16).
Oh, un disco che mi riporta indietro di una quindicina di anni, ai tempi di “Lost Trails” e dell’esplosione garage di metà ’80, di “Rockerilla” e dei viaggi in città una o due volte al mese per comprare (uno o due) dischi, di “Do The Pop” e dei concerti allo Studio Due o al vecchio Hiroshima (a trenta metri dal quale, guarda un po’ il destino, sono finito ad abitare molti anni dopo). Concerti ai quali noi teenagers di provincia con l’ultimo treno utile a mezzanotte e mezza ci facevamo accompagnare da mio papà, che inizialmente si spinse fin dentro i locali (citando ancora adesso con destrezza Husker Du e Died Pretty) e successivamente optò per un più consono cinema.
Uno tra i più memorabili di questi concerti, in ogni caso, fu quello dei Miracle Workers. Era da poco uscito “Overdose”, lo strepitoso album della svolta punk/hard, e come nuovo bassista presentavano in formazione tale Robert Butler. Il capellone non ci mise molto a diventare il nostro idolo, più che per la maglietta con enormi falce e martello che indossava quella sera, per la sua orgogliosa militanza nelle schiere beach punk losangelene che all’epoca adoravamo senza riserve. Bassista di un nome di punta del revival garage-rock appena affrancatosi dagli stilemi revivalisti ormai ripetuti a memoria del genere, citava Circle Jerks e Black Flag come sue influenze primarie, ricollegando così idealmente il punk dei ’60, quello delle miriadi di garage bands da un singolo e via, con quello dei ’70 e dei primi ’80.
Suo biglietto da visita -oltre ai Miracle Workers- il suo primo gruppo, gli Untold Fables. Anche loro partiti dal revival, ma fin da subito animati da un fuoco punk (vedi il chitarrista John Niederbrach in maglietta Ramones) e hardcore, irruppero sulla scena con un album (“Every Mother’s Nightmare”, Dionysus 1985, registrato al Westbeach da Brett Gurewitz, tanto per capirci) da allora considerato tra i fondamentali del garage rock anni ’80. Oltre che tra i più grossi rimpianti del sottoscritto, che lo ha visto una volta sola intorno a quegli anni e non lo ha comprato.
Uscito postumo nel 1989, “Aesop’s Apocalypse” comprende undici brani registrati in due sessioni nel 1986 e nel 1987. Due -“Wendylyn” e la memorabile ballata “The Man And The Wooden God”- avevano già visto la luce su un 7” del 1987 per Dionysus (insieme a “For My Woman” e alla grandissima cover di “When The Night Falls” degli inglesi Eyes), tutto proveniente dalle sessions del 1986. Altre cinque, dalle sessions seguenti e sempre più frenetiche e veloci, su un 7” del 1988 per la tedesca Mystery Scene e su una compilation (“Dimensions Of Sound”, 1987) per la stessa etichetta. Dischi che ho tutti, a scanso di equivoci. Fesso una volta sì, due no.
Onore quindi al solito Blatter, che mette una copia ancora sigillata di “Aesop’s Apocalypse” nello scomparto delle super-offerte e mi fa tuffare nel passato, con quattro inedite: il selvaggio stomp di “I Think” e le cover di “Shot Down” (Sonics), “Cry In The Night” (Q65) e “By My Side” (non so di chi sia), quest’ultima però mai selvaggia come la versione dei Morlocks sul loro primo, introvabile, inascoltabile, meraviglioso primo album “Emerge”. Olè!
E oggi? Robert Butler ha ritrovato un altro Miracle Worker, il cantante Gerry Mohr, nei Get Lost. Il cantante Paul Carey ha militato nei Witch Doctors (esistono ancora?). Di John Niederbrach e del batterista Paul Sakry nessuna traccia. Ma occhio, si parla di un cd riepilogativo in uscita prima o poi!
19/01/03
145. AA.VV. “Warp:Routine” 2001. (cd nuovo, Warp, € 10.00).
Ultimo arrivato, la nota testata a cui collaboro mi destina al report della tappa torinese del carrozzone Warp, nonché all’intervista con il capoccia dell’etichetta in questione. Mi reco sul luogo con il fido Bati, che di elettronica in genere ne sa ben più di me, e ad intervista fatta la mancata (quanto attesa) munificità del suddetto boss in quanto a cd promozionali e gadgets vari mi costringe all’acquisto di questo sampler di materiale edito, perché da bravo cronista mi tocca documentarmi (io marchiato Warp ho soltanto “Out Of Nowhere” di Jimi Tenor, che pur se molto bello non penso rappresenti l’essenza dell’etichetta). Edito e nemmeno nice price, tra l’altro.
Passata la serata (invero piuttosto dura per un neofita, con quattro live act e tre deejay set ad alternarsi), mi avvicino timoroso all’ascolto. E se fosse una palla pazzesca? Non lo è, e se non riesco a parlarvene in modo competente, sappiate che fa un buon ascolto di sottofondo e che qua e là qualche passetto di danza parte spontaneo. Niente male Plaid, Two Lone Swordsmen, Squarepusher, Jamie Lidell, Nightmares On Wax e Boards Of Canada, quindi più o meno tutti. Mi aspettavo un po’ di più da Prefuse 73, che in molti mi avevano indicato come possibile mio favorito. Amen.
Ultimo arrivato, la nota testata a cui collaboro mi destina al report della tappa torinese del carrozzone Warp, nonché all’intervista con il capoccia dell’etichetta in questione. Mi reco sul luogo con il fido Bati, che di elettronica in genere ne sa ben più di me, e ad intervista fatta la mancata (quanto attesa) munificità del suddetto boss in quanto a cd promozionali e gadgets vari mi costringe all’acquisto di questo sampler di materiale edito, perché da bravo cronista mi tocca documentarmi (io marchiato Warp ho soltanto “Out Of Nowhere” di Jimi Tenor, che pur se molto bello non penso rappresenti l’essenza dell’etichetta). Edito e nemmeno nice price, tra l’altro.
Passata la serata (invero piuttosto dura per un neofita, con quattro live act e tre deejay set ad alternarsi), mi avvicino timoroso all’ascolto. E se fosse una palla pazzesca? Non lo è, e se non riesco a parlarvene in modo competente, sappiate che fa un buon ascolto di sottofondo e che qua e là qualche passetto di danza parte spontaneo. Niente male Plaid, Two Lone Swordsmen, Squarepusher, Jamie Lidell, Nightmares On Wax e Boards Of Canada, quindi più o meno tutti. Mi aspettavo un po’ di più da Prefuse 73, che in molti mi avevano indicato come possibile mio favorito. Amen.
18/01/03
143. Tragedy “Can We Call This Life?” 2002. (7” nuovo, Tragedy, € 3.00).
Due chitarre, due casse Marshall per ciascuna chitarra, volumi allucinanti. Ci sanguinavano le orecchie quando uscimmo nel cortiletto della casa occupata, appena finito il concerto. Tre di loro erano gli His Hero Is Gone, fondamentali. Ripeto, fondamentali. Tre di loro e un quarto che stava nei From Ashes Rise (anche loro da non farsi scappare) sono ora i Tragedy. Che rispetto agli His Hero Is Gone hanno rallentato un po’ e dato una sterzata decisa verso territori crust con sprazzi di oi (e non a caso dal vivo coverizzano i Blitz), ma con progressioni chitarristiche super melodiche (quasi Bad Religion). La voce è il solito urlo e l’immaginario è sempre quello da declino della società occidentale. Con questi tre brani si attende il secondo album, ma l’effetto-nostalgia rischia di fare capolino.
144. Q And Not U “Different Damage” 2002. (cd nuovo, Dischord, € 10.00).
Non di solo passato vive la Dischord, chi la conosce lo sa. Se il box antologico di cui diciamo altrove è cruciale, il presente lo è di più: in esso sta da sempre la ragion d’essere dell’etichetta di Washington, e se qui ed ora ci sono i Q And Not U, come darle torto? “Different Damage” li consacra campioni, enfatizzando le potenzialità melodiche intraviste in “No Kill no Beep Beep” (per chi scrive nella top ten Dischord di sempre) e scarnificandone contemporaneamente l’impianto sonoro, complice la dipartita del bassista Matt Borlik.
I rimanenti John Davis, Harris Klahr e Chris Richards, più maturi e ancora di più disposti ad osare, guardano verso l’Inghilterra di 20 anni fa e ne escono con qualcosa che è loro soltanto. Quando tirano il fiato (“Snow Pattern”), subito si lasciano andare in entusiasmanti sfuriate pop-wave da due minuti (“Everybody Ruins”, una “When the Lines Go Down” che tanto sarebbe piaciuta ai primi Cure). L’uno/due iniziale, con il dub giocattolo di “Soft Pyramids” ad impennarsi nell’adrenalinica “So Many Animal Calls”, è istantanea attendibile di un grande album, costruito su ritmi tribali irresistibili e melodie sghembe ma immediate.
Due chitarre, due casse Marshall per ciascuna chitarra, volumi allucinanti. Ci sanguinavano le orecchie quando uscimmo nel cortiletto della casa occupata, appena finito il concerto. Tre di loro erano gli His Hero Is Gone, fondamentali. Ripeto, fondamentali. Tre di loro e un quarto che stava nei From Ashes Rise (anche loro da non farsi scappare) sono ora i Tragedy. Che rispetto agli His Hero Is Gone hanno rallentato un po’ e dato una sterzata decisa verso territori crust con sprazzi di oi (e non a caso dal vivo coverizzano i Blitz), ma con progressioni chitarristiche super melodiche (quasi Bad Religion). La voce è il solito urlo e l’immaginario è sempre quello da declino della società occidentale. Con questi tre brani si attende il secondo album, ma l’effetto-nostalgia rischia di fare capolino.
144. Q And Not U “Different Damage” 2002. (cd nuovo, Dischord, € 10.00).
Non di solo passato vive la Dischord, chi la conosce lo sa. Se il box antologico di cui diciamo altrove è cruciale, il presente lo è di più: in esso sta da sempre la ragion d’essere dell’etichetta di Washington, e se qui ed ora ci sono i Q And Not U, come darle torto? “Different Damage” li consacra campioni, enfatizzando le potenzialità melodiche intraviste in “No Kill no Beep Beep” (per chi scrive nella top ten Dischord di sempre) e scarnificandone contemporaneamente l’impianto sonoro, complice la dipartita del bassista Matt Borlik.
I rimanenti John Davis, Harris Klahr e Chris Richards, più maturi e ancora di più disposti ad osare, guardano verso l’Inghilterra di 20 anni fa e ne escono con qualcosa che è loro soltanto. Quando tirano il fiato (“Snow Pattern”), subito si lasciano andare in entusiasmanti sfuriate pop-wave da due minuti (“Everybody Ruins”, una “When the Lines Go Down” che tanto sarebbe piaciuta ai primi Cure). L’uno/due iniziale, con il dub giocattolo di “Soft Pyramids” ad impennarsi nell’adrenalinica “So Many Animal Calls”, è istantanea attendibile di un grande album, costruito su ritmi tribali irresistibili e melodie sghembe ma immediate.
10/01/03
(Scena Uno)
Lei: "Avete del lievito di birra in scaglie?"
Io: "Sì, abbiamo queste tre marche. Questa costa (...) quest'altra costa (...) e la terza costa (...)"
Lei: "E che differenza c'è?"
Io: "La marca"
Lei: "Quanto ce n'è?"
Io: "In questa 200 grammi... in quest'altra anche 200 grammi e nella terza... aspetti che guardo... 200 grammi anche in questa"
Lei: "Allora prendo questa, che mi sembra ce ne sia un po' di meno"
(Scena Due)
Io: "Sono 8 euro e 99"
Lei (mi porge una banconota da 10 euro): "Di moneta cosa le serve? Uno?"
Tutto vero, amici. Tutto vero.
Lei: "Avete del lievito di birra in scaglie?"
Io: "Sì, abbiamo queste tre marche. Questa costa (...) quest'altra costa (...) e la terza costa (...)"
Lei: "E che differenza c'è?"
Io: "La marca"
Lei: "Quanto ce n'è?"
Io: "In questa 200 grammi... in quest'altra anche 200 grammi e nella terza... aspetti che guardo... 200 grammi anche in questa"
Lei: "Allora prendo questa, che mi sembra ce ne sia un po' di meno"
(Scena Due)
Io: "Sono 8 euro e 99"
Lei (mi porge una banconota da 10 euro): "Di moneta cosa le serve? Uno?"
Tutto vero, amici. Tutto vero.
01/01/03
Anno nuovo, dischi vecchi. L’utopia di chiudere il 2002 parlando di tutti i dischi che ho acquistato nel 2002, come vedete, utopia è rimasta. Ma sono molto meno indietro di quanto mi sono ritrovato a temere qualche settimana fa (gli aggiornamenti continui dei giorni scorsi hanno fatto al differenza). Solo una quindicina di titoli ed è fatta, insomma. In attesa delle statistiche complete, vi dico che il totale è 158.
E il 2003? Purtroppo, mi tocca lasciare voi fedeli lettori nel dubbio. Sto riconsiderando i miei impegni, e se riuscirò a tagliare dove è necessario potrebbe anche esserci un futuro per SOUL FOOD così come la conosciamo. Altrimenti? Weblog classico? Ci penserò.
Mi piacerebbe però sentire cosa ne pensate, se questo esperimento vi è piaciuto, se siete andati a cercare qualcuno dei dischi citati, se siete stati d’accordo o meno con me una volta ascoltatolo. So che siete tanti, spesso più di quelli che immaginavo, ma raramente vi sento. Io sono qua.
142. J Church/Minority Blues Band - split - 2002. (7” nuovo, Snuffy Smile, € 3.00).
Dio benedica i J Church. Ne ha passate più di molti di noi messi insieme, il buon Lance Hahn, ma ogni volta si è rialzato, si è dato una spolverata alla felpa nera col cappuccio ed ha ricominciato a fare quello che ha sempre fatto: scrivere canzoni, suonare, fare uscire dischi suoi, fare uscire dischi di altri gruppi sulla sua etichetta Honey Bear, scrivere imperdibili newsletters per gli iscritti alla mailing list del gruppo (contattatelo qui. L’ultima sventura in ordine di tempo è un incendio che ha quasi completamente distrutto la sua casa e tutte le sue cose.
Ma i J Church, come detto, non si fermano davanti a nulla. Attivi da una decina d’anni e titolari di album capolavoro quali “Prophylaxis” o “The Drama Of Alienation”, sono conosciuti per essere una delle band più prolifiche al mondo. Date un’occhiata alla loro discografia e ve ne renderete conto. Se non li avete mai ascoltati, il loro è un ormai riconoscibilissimo incrocio di pop-punk ed indie-rock, con testi in media molto belli ed un’attitudine splendida.
In questo split, Lance e soci offrono un live radiofonico di due cover, due classici minori di quel punk politico a loro così caro: “People Are Scared” dei Subhumans (non è specificato quali Subhumans, a naso direi quelli inglesi) e “Petrograd” dei Cringer (grandissima band californiana di cui Lance stesso fu il cantante/chitarrista). Sull’altro lato, i giapponesi Minority Blues Band suonano due brani con l’invidiabile adrenalina che da sempre contraddistingue il punk-rock del sol levante. “Metaphisical Burst” è più melodica e pop, “Running” decisamente più cattiva. Carini.
Non sono questi comunque i dischi che hanno fatto e fanno grandi i J Church, o quelli da cui cominciare se non li conoscete. Partite piuttosto dagli album, o da questo singolo (he he he).
E il 2003? Purtroppo, mi tocca lasciare voi fedeli lettori nel dubbio. Sto riconsiderando i miei impegni, e se riuscirò a tagliare dove è necessario potrebbe anche esserci un futuro per SOUL FOOD così come la conosciamo. Altrimenti? Weblog classico? Ci penserò.
Mi piacerebbe però sentire cosa ne pensate, se questo esperimento vi è piaciuto, se siete andati a cercare qualcuno dei dischi citati, se siete stati d’accordo o meno con me una volta ascoltatolo. So che siete tanti, spesso più di quelli che immaginavo, ma raramente vi sento. Io sono qua.
142. J Church/Minority Blues Band - split - 2002. (7” nuovo, Snuffy Smile, € 3.00).
Dio benedica i J Church. Ne ha passate più di molti di noi messi insieme, il buon Lance Hahn, ma ogni volta si è rialzato, si è dato una spolverata alla felpa nera col cappuccio ed ha ricominciato a fare quello che ha sempre fatto: scrivere canzoni, suonare, fare uscire dischi suoi, fare uscire dischi di altri gruppi sulla sua etichetta Honey Bear, scrivere imperdibili newsletters per gli iscritti alla mailing list del gruppo (contattatelo qui. L’ultima sventura in ordine di tempo è un incendio che ha quasi completamente distrutto la sua casa e tutte le sue cose.
Ma i J Church, come detto, non si fermano davanti a nulla. Attivi da una decina d’anni e titolari di album capolavoro quali “Prophylaxis” o “The Drama Of Alienation”, sono conosciuti per essere una delle band più prolifiche al mondo. Date un’occhiata alla loro discografia e ve ne renderete conto. Se non li avete mai ascoltati, il loro è un ormai riconoscibilissimo incrocio di pop-punk ed indie-rock, con testi in media molto belli ed un’attitudine splendida.
In questo split, Lance e soci offrono un live radiofonico di due cover, due classici minori di quel punk politico a loro così caro: “People Are Scared” dei Subhumans (non è specificato quali Subhumans, a naso direi quelli inglesi) e “Petrograd” dei Cringer (grandissima band californiana di cui Lance stesso fu il cantante/chitarrista). Sull’altro lato, i giapponesi Minority Blues Band suonano due brani con l’invidiabile adrenalina che da sempre contraddistingue il punk-rock del sol levante. “Metaphisical Burst” è più melodica e pop, “Running” decisamente più cattiva. Carini.
Non sono questi comunque i dischi che hanno fatto e fanno grandi i J Church, o quelli da cui cominciare se non li conoscete. Partite piuttosto dagli album, o da questo singolo (he he he).
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