30/12/15
Gli album del 2015 / 1
1. Sufjan Stevens Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty)
Uno che, badasse al portafoglio e all'ego, avrebbe capitalizzato da tempo su un talento enorme. E invece dal 2000 ha vagato fra progetti tanto affascinanti quanto improbabili (un album per ogni stato degli Usa: finora ne sono usciti due), divagazioni fra elettronica, classica e sperimentazione, messe a fuoco ripetute di uno stile già nitido da tempo. Quello che brilla in Carrie & Lowell, ridotto ai minimi termini di una voce, una chitarra acustica e poco altro. In undici canzoni intime e personali che ascoltate una volta non vi lasceranno più, nate da un'esigenza privata d'amore - Carrie è la madre, Lowell il suo compagno - e fattesi amore universale come capita solo con i fuoriclasse. (da Soundwall)
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29/12/15
Gli album del 2015 / 2
2. Mbongwana Star From Kinshasa (World Circuit)
From Kinshasa to the Moon, in realtà. Come il brano che apre, e come la sensazione che subito vince. Un viaggio verso l'ignoto che spaventa ed elettrizza, unico riferimento in cielo la stella del cambiamento, mbongwana in Lingala. Cambiamento in opera nei presupposti e nei fatti. Dopo lo scioglimento degli Staff Benda Bilili, senzatetto paraplegici diventati fenomeno pop globale, i cinquantenni Coco Ngambali e Theo Nzonza ricominciano con tre di cui potrebbero essere padri, e col parigino Liam Farrell. Scordare il passato: l'incontro fra generazioni e culture è dirompente, i confini si fanno sfocati. Farrell non solo produce senza il rispetto verista che di solito muove i suoi omologhi, ma entra nel gruppo a tutti gli effetti, suona, campiona, distorce, dà e riceve in un rapporto alla pari senza limiti. I congolesi portano materiale straordinario, energia umana e minacciosa in parti uguali: tradizione in odore di rumba e spinta in avanti che ingloba bassi post-punk, chitarre rumorose, intrecci vocali imprendibili, echi, ritmi elettronici pulsanti (fino all'assalto di Suzanna, mostruosa techno berlinese con dolce cantato gospel), gli immancabili likembe elettrificati (a cura dei Konono N°1 in Malukayi). Tutto insieme è qualcosa che non si era ancora sentito, ed è fantastico. Un disco che alza il livello Congotronics di tre tacche, il migliore uscito fin qui dalla Kinshasa odierna. Afrofuturismo, per usare un termine in voga. Ma sul serio. (da Rumore n. 282/283)
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28/12/15
Gli album del 2015 / 3
3. Sleater-Kinney No Cities To Love (Sub Pop)
Otto anni dopo, annunciate da un misterioso 7" inserito senza preavviso nel box antologico Start Together, le stesse Sleater-Kinney di sempre. Non suoni come una bocciatura, anzi. Come un'affermazione di identità e sicurezza dei propri mezzi, piuttosto. Come conferma di una cosa che è stata ben chiara fin da subito: il gruppo appartiene alla ristretta cerchia di chi fa musica perché deve, senza ragionare a tavolino su come questa musica debba suonare, lasciando che venga fuori e basta, e lì cominciando a lavorare per darle la miglior forma possibile. Nessuno ha nemmeno provato ad imitarle, in questi anni di pausa. Come se fossero qualcosa di intoccabile, una sfida persa in partenza. Come i Fugazi, altro gruppo della cerchia, altro gruppo ufficialmente in pausa.
Poi
certo, ci sono le sfumature. Rispetto alle bordate distorte di The
Woods,
questo No
Cities to Love
suona piuttosto come un ritorno al clima fresco e immediato degli
album precedenti,
ma con la potenza accumulata strada facendo come bonus. Brucia di
un'urgenza che ci piacerebbe trovare in ogni lavoro di un gruppo
riunito dopo tanto tempo, ed entra subito in testa. C'è
anche una netta intenzione funk, nella declinazione bianca
e tagliente nata con il post-punk, che emerge in modo più o meno
esplicito. Come se le tre avessero scoperto adesso, naturalmente a
modo loro, i Franz Ferdinand del primo album, che per quanto démodé
possa apparire la citazione restano una delle migliori ipotesi di
lavoro pop su quel suono. Ci sono anche quattro o cinque delle
migliori canzoni mai firmate dal trio, e una carica in fondo
prevedibile, ma non fino a questo punto. Di meglio non si poteva
sperare.
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27/12/15
Gli album del 2015 / 4
4. Insanlar/Ricardo Villalobos Kime Ne (Honest Jon's)
“Il
ritmo è un linguaggio universale, mentre le melodie appartengono a
culture specifiche”, diceva Ricardo
Villalobos
nel 2008, quando Rumore andò a Berlino a intervistarlo e la sua
faccia finì sulla copertina del numero 197, una delle più eretiche
della storia di questo giornale. Erano i giorni di tracce come
Enfants
o Primer
Encuentro Latino-Americano,
e di
album come Sei
Es Drum:
fenomenali. In
molti cominciavano a unire ritmiche house minimali e fonti
strumentali o vocali periferiche,
in pochi (vengono in mente i romeni Petre Inspirescu e Rhadoo, e il
turco Onur Özer) riuscivano ad andare oltre la semplice
giustapposizione e la ricerca dell'effetto esotico, forse lui solo
riusciva a trasformare il tutto in un discorso davvero organico e
coerente, evolvendosi senza limiti apparenti. Ricardo firmava tracce
sempre più lunghe, ipnotiche, slegate da qualunque dinamica dance
convenzionale, perfezionando anche dal punto di vista tecnico e
sonoro uno stile sempre più unico. Ecco, a quei giorni siamo tornati
improvvisamente ascoltando Kime
Ne,
doppio 12" (inciso su tre lati, sul quarto c'è un lavoro
dell'artista Katharina Immekus) pubblicato da Honest Jon's e
intestato al maestro cileno/berlinese e alla band turca Insanlar.
Trattasi
di un collettivo acustico/elettronico di Istanbul, radunato intorno
al DJ e produttore disco/psichedelico Barış K, al
polistrumentista e cantante Cem
Yıldız e
al percussionista Hogır.
Kime
Ne -
registrata dal vivo nel
2010 - esce
per la prima volta il 27 dicembre 2013, divisa sui due lati di un 12"
pubblicato dalla concittadina Aboov Plak. Il
testo
è un adattamento dei versi di due poeti e mistici ottomani del
sedicesimo e diciassettesimo secolo rispettivamente, Kul Nesîmî e
Pir Sultan Abdal, e la musica... beh, la musica è qualcosa di
sublime. Qualcosa di molto vicino al sogno bagnato del lettore-tipo
di questa umile pagina. Ventiquattro
minuti di Bosforo,
Baleari e Berlino in combinazione, una sinuosa pulsazione dubby a 100
bpm su cui volteggiano corde di chitarra acustica e di acidissima
bağlama,
cori epici e specie di scat
vocali velocissimi. Sullo sfondo, mentre il sole sorge o tramonta, i
minareti della Moschea Blu o la torre di Alexanderplatz, chi li
distingue più. Già introvabile l'originale, Honest Jon's ripara
ristampando e convocando appunto Villalobos, per due remix che al
confronto paiono quasi normali.
Velocità aumentata a 120, groove minimalista solido e multiforme,
dettagli che si rincorrono, vena più solare nel primo e più scura e
tesa nel secondo. Un'ora di musica in tutto, meravigliosa. (da Rumore n. 278)
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26/12/15
Gli album del 2015 / 5
5. Downtown Boys Full Communism (Don Giovanni)
In breve, quello che un gruppo punk deve essere. Dentro i propri tempi e i loro movimenti (vedi video di Wave of History). Senza paura di esporsi contro razzismo, sessismo, capitalismo e -ismi vari che per troppo tempo è stato figo tralasciare. Bruciante e spontaneo, come la California al passaggio fra punk e hardcore, o certa no wave. Creativo, perché con gli strumenti soliti pompano anche due sax. In più, ed è un punto di forza dei sei di Providence: fatto di sessi e culture diverse, e capace di fare della diversità un messaggio in forma (testi in spagnolo e inglese) e sostanza. Aggiungere una citazione di Yasiin Bey/Mos Def come manifesto, e una di quelle cover inattese che dopo un solo ascolto cambiano proprietà, Dancing in the Dark di Springsteen. Non puoi accendere un fuoco senza una scintilla, claro. (da Rumore n. 281)
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25/12/15
Gli album del 2015 / 6
6. Heroin In Tahiti Sun and Violence (Boring Machines)
Chiamatela psichedelia occulta italiana o chiamatela come vi pare, ma alcune cose vanno date per certe: parliamo di alcune delle cose migliori sentite nel nostro paese da un lustro circa in qua, e di un nome collettivo tanto artificiale e imposto (come tutti i nomi collettivi, peraltro: Viv Albertine nella sua splendida autobiografia scrive "punk", tra virgolette) quanto efficace nella sua inclusività, capace di rappresentare un'attitudine più che un suono preciso, e di calzare addosso a un insieme di gruppi in cui è davvero difficile pescarne due uguali.
Difficilissimo per gli Heroin In Tahiti, duo romano che dopo un album già notevole (Death Surf, 2012), uno altrettanto valido diviso con Ensemble Economique (No Highway/Black Vacation, 2013) e uno uscito solo su cassetta (Canicola, 2014) cala l'asso con questo monumentale doppio. Un lavoro che nasce proprio da quella cassetta, e dal suo lavoro ancora grezzo ma già interessantissimo su field recordings dell'Italia meridionale degli anni '50, raccolti da Diego Carpitella e Alan Lomax. Sun and Violence riprende quel lavoro con minore improvvisazione e più ragionamento, sviscerando l'anima cupa ed esoterica di quei luoghi e di quei tempi, con Sud e magia di Ernesto De Martino come testo di riferimento.
Ne esce un'ora di musica vibrante e ispirata, che allarga sensibilmente la visuale oltre la Spaghetti Wasteland di chitarre riverberate e ritmi narcotici ben nota a chi segue le gesta del gruppo, dilatandosi e complicandosi, muovendosi fra momenti di stasi bruciati dal sole e ipnotiche cavalcate kraute, frenesie psichedeliche e malinconie mediterranee.
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24/12/15
Gli album del 2015 / 7
7. SQUADRA OMEGA Altri occhi ci guardano (Sound Of Cobra/Macina Dischi)
A
chiusura della terna di dischi con cui ha inaugurato un 2015 fertile
a dir poco, la Squadra piazza il colpo del KO. Con quello che non
solo suona come il suo vero
secondo album, cinque anni dopo il debutto omonimo, ma diventa anche
pietra di paragone, apice di una carriera che da qui potrebbe
procedere con moltiplicato slancio. Altri
occhi ci guardano è
per ampiezza di sguardo, ambizione e dimensioni
- nove tracce in quasi settanta minuti, su vinile doppio o CD singolo
- il manifesto del trio veneto. Sintesi di quanto detto fin qui, di
pulsioni note e non, di plausibili direzioni future. Matura e
sorprendentemente accessibile.
Prima
facciata: Sospesi
nell'oblio,
otto minuti e mezzo di basso ossessivo e twang
chitarristico orientaleggiante, ritmo incalzante e melodia sul finale
che suona come un lampo beat dal passato remoto, tutto incastrato fra
la tensione rarefatta di Il
buio dentro
e la pace cosmica di La
nube di Oorth.
Seconda: Il
labirinto,
portata avanti per tredici minuti dal sax e da un'altra linea di
basso senza fine, con fase acida californiana e percussioni in coda,
prima che Sepolto
dalle sabbie del tempo
alzi la temperatura con tiro funk da blaxploitation.
Terza: acustiche arpeggiate in Hyoscyhamus,
e poi il prog folk a combustione lenta di Il
grande idolo,
altri undici minuti di viaggio. Quarta: altro funk e altro wah-wah,
con assolo elettrico a oltranza e sax protagonista della
decomposizone finale, nei dodici e mezzo della title
track,
e altre corde acustiche nella conclusiva Le
rovine circolari.
E
siamo appena a metà anno. (da Rumore n. 281)
23/12/15
Gli album del 2015 / 8
8. Roger Robinson Dis Side Ah Town (Jahtari)
Con i riflettori puntati sulla pregevole collaborazione fra Fennesz e quei King Midas Sound di cui è una delle due voci, rischiavamo di perderci l'entrata trionfale di Roger Robinson nel ristretto novero dei dub poet. Il pensiero va dritto al più grande fra loro, Linton Kwesi Johnson, alle sue cronache di ordinaria ingiustizia in pieno incubo thatcheriano, declamate con tono caldo e severo sul potente incedere della Dub Band di Dennis Bovell. Robinson restringe il campo, concentrandosi su un quartiere londinese. Uno solo, ma pesantissimo in quanto a portata simbolica, snodo fondamentale di ogni discorso sui mutamenti dell'Inghilterra urbana e multietnica: Brixton.
Nato ad Hackney e cresciuto a Trinidad, già residente della zona, il nostro passa da Brixton di ritorno da un tour nell'agosto del 2011, e si ritrova in mezzo ai disordini che stanno mettendo a ferro e fuoco quella e varie altre zone della città, e del paese. Subito comincia a prendere appunti, mentali e reali, registrati al volo sul suo dittafono, usati come punto di partenza per una sorta di documentario sul luogo, la sua gente, la sua storia, il suo futuro. Walk with Me, dice uno dei titoli. Ed è proprio quello facciamo, in un tour con la miglior guida possibile, che trova la miglior colonna sonora possibile nel reggae retro/futurista dello specialista Disrupt. Il suo lavoro è quello di un artigiano giamaicano, sepolto da campionatori di una volta, ampli valvolari ed effetti autocostruiti, ma con una sensibilità dub(step) moderna. La base perfetta per le cronache sporche e immediate - o per le rare, splendide melodie cantate - di Roger.
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22/12/15
Gli album del 2015 / 9
9. Black Zone Myth Chant Mane Thecel Phares (Editions Gravats)
Come
un oggetto volante non identificato, che dichiara fin dalla copertina
la sua devozione all'eterno Sun Ra, il secondo del francese High Wolf
come Black Zone Myth Chant piomba fra noi e lascia del tutto
spiazzati. Affascinati e impauriti in parti uguali. Pare di
riconoscere sembianze familiari, ma subito dopo appare altro.
Pare di essere avviati su una strada, e quando è
troppo tardi per tornare indietro ci si accorge che invece è
un'altra. Sono otto labirinti, ostici a prima vista, inebrianti una
volta dentro. E dentro c'è tutto:
footwork, ma distante anni luce da quasi tutto il footwork sentito
fin qua; un'Africa immaginata più che reale; amore per dub e jazz;
techno,
come attitudine all'esplorazione elettronica; beatmaking
astratto e dopato; l'esperienza del Lupo con droni e psichedelia.
Pazzesco. (da Rumore n. 280)
21/12/15
Gli album del 2015 / 10
10. Jamie xx In colour (Young Turks)
Non ha avuto fretta, Jamie Smith. Si era capito da subito, dall'epocale debutto dei suoi xx nel 2009, che in ballo c'era qualcosa di grosso, il talento puro di un giovane musicista britannico e la sua capacità di intrecciare generi e mondi. Ma nonostante la giovane età il ragazzo è riuscito a dosarsi perfettamente, a rilasciare esempi di quel talento con il contagocce, o quasi. Un album condiviso con la leggenda afroamericana Gil Scott-Heron, un altro con la band, qualche singolo, qualche remix. E oggi, finalmente, questo palpitante In Colour. Un lavoro che mantiene tutte le promesse, e oltre, virando in chiave dance le atmosfere rarefatte e le melodie intimiste per cui va famoso. Una dance delicata, estatica, fatta di campionamenti sorprendenti - su tutti, la magistrale interpolazione di Could Heaven Ever Be Like This di Idris Muhammad in Loud Places, con effetti da pelle d'oca - e trame di chitarra, beat fra il balearico e le tensioni garage/dub urbane londinesi, strizzate d'occhio al Four Tet più orecchiabile (che infatti collabora, insieme ai compagni di band Oliver Sim e Romy Madley Croft, e agli MC giamaicani Young Thug e Popcaan) e placide derive tropicali. In tutto, fanno tre quarti d'ora di musica serena ed empatica, che eleva lo spirito e scorre con naturalezza rara, pronta per ricominciare immediatamente. (da DJ Mag Italia n. 51)
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