3. Sleater-Kinney No Cities To Love (Sub Pop)
Otto anni dopo, annunciate da un misterioso 7" inserito senza preavviso nel box antologico Start Together, le stesse Sleater-Kinney di sempre. Non suoni come una bocciatura, anzi. Come un'affermazione di identità e sicurezza dei propri mezzi, piuttosto. Come conferma di una cosa che è stata ben chiara fin da subito: il gruppo appartiene alla ristretta cerchia di chi fa musica perché deve, senza ragionare a tavolino su come questa musica debba suonare, lasciando che venga fuori e basta, e lì cominciando a lavorare per darle la miglior forma possibile. Nessuno ha nemmeno provato ad imitarle, in questi anni di pausa. Come se fossero qualcosa di intoccabile, una sfida persa in partenza. Come i Fugazi, altro gruppo della cerchia, altro gruppo ufficialmente in pausa.
Poi
certo, ci sono le sfumature. Rispetto alle bordate distorte di The
Woods,
questo No
Cities to Love
suona piuttosto come un ritorno al clima fresco e immediato degli
album precedenti,
ma con la potenza accumulata strada facendo come bonus. Brucia di
un'urgenza che ci piacerebbe trovare in ogni lavoro di un gruppo
riunito dopo tanto tempo, ed entra subito in testa. C'è
anche una netta intenzione funk, nella declinazione bianca
e tagliente nata con il post-punk, che emerge in modo più o meno
esplicito. Come se le tre avessero scoperto adesso, naturalmente a
modo loro, i Franz Ferdinand del primo album, che per quanto démodé
possa apparire la citazione restano una delle migliori ipotesi di
lavoro pop su quel suono. Ci sono anche quattro o cinque delle
migliori canzoni mai firmate dal trio, e una carica in fondo
prevedibile, ma non fino a questo punto. Di meglio non si poteva
sperare.
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