Soul Food va in vacanza, fratelli e sorelle.
La prima vera vacanza degna di essere definita tale da tre anni circa a questa parte. In attesa di risentirci intorno ai primi di settembre dopo qualche settimana di vip-watching, un aggiornamento più corposo del solito.
Aloha!
67. Yabby You “Dub It To the Top 1976-1979” 2002. (cd nuovo, Blood And Fire, € 20.66).
Premessa: un appassionato di reggae non può dirsi tale se non conosce Vivian “Yabby You” Jackson. Avete guardato oltre Bob Marley e Peter Tosh ed avete scoperto King Tubby, Lee Perry ed Augustus Pablo. Bene. Ora zoomate ulteriormente.
Seconda premessa: “Jesus Dread”, doppio edito sempre da Blood & Fire, è una delle pietre miliari del reggae tutto ed è l’episodio indispensabile nella sua discografia. Fiati tonanti, carica mistica impressionante, pathos puro. Non comincio nemmeno a parlarne in modo approfondito altrimenti ci passo quel che resta della giornata. Se vi fidate di me, non andate a dormire stasera senza averlo trovato.
“Dub It To the Top 1976-1979”: non è “Jesus Dread”, il primo pensiero che emerge è questo. Yabby è cresciuto, e si dedica all’attività di produttore più che a quella di interprete. Il giovane Michael Prophet è una delle sue scoperte: con lui realizza due album, sviluppandone il materiale in tre ulteriori set dub. Questo è uno, uscito originariamente nel 1977 con il titolo di “Yabby You Meets Michael Prophet: Vocal & Dub” e qui arricchito da ben otto brani lati b di singoli dell’epoca.
Lo stile è più fluido rispetto agli esordi documentati nel suddetto doppio, meno aspro e più attento ai dettami dancehall della seconda metà del decennio. I ritmi drammatici ed immediati che lo hanno reso un colosso del roots & culture (degnamente applicati nel contemporaneo “Shanty Town Determination” del deejay Trinity, anch’esso ristampato da Blood & Fire con aggiunte) quasi non si scorgono, l’urgenza militante lascia il posto ad una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. King Tubby e Prince Jammy, tanto per cambiare, si occupano di pulsanti e cursori come meglio non potrebbero, ed arrivano dal solido album originale così come dalle b-sides gli episodi migliori. Nel primo gruppo spiccano “Warn Them Jah Dub”, “Conscious Man Dub”, il maestoso “Tribal War Dub” finale e “Zambia Dub” con intervento in toasting di Jah Walton. Nel secondo una colossale “No Tarry Yah Version” sul ritmo di “Man Next Door” (John Holt, ma anche Dennis Brown e Horace Andy con Massive Attack) rirpeso da Tony Tuff in “Warrior No Tarry Yah”. Ma anche “Vengeance In Dub”, sul leggendario ritmo di “Jah Vengeance” rivisto in chiave steppers da Ranking Trevor, non scherza.
Meravigliosa ancora una volta la veste grafica, resta solo un piccolo dubbio: perché rimescolare la tracklist originale?
68. Cat Power “The Covers Record” 2000. (cd nuovo, Matador, € 8.34).
Si comincia meravigliosamente, con la più strana cover di “(I Can’t Get No) Satisfaction” mai sentita. È lei, è sicuramente lei… ma come cazzo ha fatto a pensare di farla in questo modo, lasciando da parte il celebre ritornello ed esaltando la strofa oltre ogni dire. Da antologia. Peccato che il resto del disco, per 11/12 composto da cover come da titolo, non sia all’altezza di cotanto incipit. Ma sarebbe stato molto difficile.
Termine di paragone del cantautorato indie moderno, Chan Marshall si accompagna solo con una chitarra o un pianoforte, mettendo mano ad una serie di brani (Dylan, Nina Simone, Velvet Underground, Smog, Moby Grape, un paio di traditional ed altro) e facendoli propri, ridotti ai minimi termini e da lì ricostruiti. La sua voce fragile ed evocativa ben si sposa al materiale, producendo un folk notturno e minimale, più rilassato rispetto ai dischi passati. Il tutto suona però troppo uniforme, e se i brani presi uno ad uno possono piacere (niente male “Troubled Waters” di Michael Hurley, “Naked If I Want To” dei Moby Grape, “Wild Is The Wind” di Nina Simone e “Paths Of Victory di Bob Dylan), tutti insieme rischiano di annoiare se il momento non è esattamente quello giusto.
Per fans, ma quella cover potrebbe anche bastare da sola.
69. VV.AA. “Mod Fave Raves Vol 1” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
70. VV.AA. “Mod Fave Raves Vol 2” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Premessa: avrete forse notato la comparsa, nei negozi di dischi più o meno grossi e non particolarmente specializzati in roba indie, di una vagonata di titoli allo stracciatissimo prezzo di 5 euro l’uno. Comprensibilmente, vista la qualità quasi sempre bassissima delle raccolte ultra low-price, non vi sarete fidati e sarete passati oltre. Ebbene, siete ancora in tempo per ripensarci e correre al megastore, perché il materiale scotta.
Trattasi infatti per la maggior parte di uscite Spectrum, sottoetichetta della major Universal creata proprio per dedicarsi al settore economico. Ma quello che ci interessa è che Universal a quanto pare è proprietaria del leggendario marchio Tamla Motown, sicurezza assoluta se parliamo di soul e rhythm’n’blues. Il fatto che a metterci nome e faccia sia una major, poi, garantisce una cura del prodotto finito quasi pari a quella apprtezzata nelle migliori ristampe indie. Ecco quindi raccolte assemblate con competenza e gusto, belle confezioni, note non kilometriche ma interessanti comunque e musica da urlo. Il tutto, conviene ripeterlo, a 5 euro.
Per cominciare, due volumi che focalizzano l’attenzione su quel suono prodotto verso la metà degli anni ’60 a Detroit e così caro al movimento Mod inglese. Più raffinato e contaminato dal pop rispetto al contemporaneo sound prodotto a Memphis sotto l’egida della Stax, ma ugualmente trascinante ed adrenalinico, lo stile della Motown conquistò infatti neri e bianchi alla stessa maniera, e trovò in Inghilterra (Tamla Motown era il marchio sotto il quale nel Regno Unito uscivano dischi pubblicati in patria come Gordy, Soul, VIP ed appunto Motown e Tamla) una popolarità strepitosa.
Ognuno dei due cd compila venti “Modernist Soul Classics” come da sottotitolo, e le due tracklist basterebbero da sole a farvi infilare le prime ciabatte in vista e correre fuori. Ci sono i girl-groups e i gruppi vocali maschili, gli strumentali che faranno da fondamenta all’acid-jazz e i solisti di grido. Nomi come Marvin Gaye, Martha Reeves & The Vandellas, Gladys Knight & The Pips, The Four Tops, The Temptations, The Isley Brothers, The Supremes, Stevie Wonder e seconde linee seconde a nessuno come The Marvelettes, Kim Weston, Barbara McNair, Junior Walker & The Allstars, Chris Clark, Earl Van Dyke, The Velvelettes, Detroit Spinners, The Contours, Brenda Holloway ed altri. Inutile consigliare un disco piuttosto che l’altro, vanno presi tutti e due e sparati al massimo volume appena tornati a casa. Ballare, ballare, ballare. E non scordateveli al prossimo party: sarete il dj. Basta che vi ricordiate di mettere il secondo cd quando il primo finisce.
Post Scriptum – Nota relativa a questi dischi e alla prossima dozzina circa: non li ho effettivamente pagati 67 centesimi l’uno o quant'altro. Trattasi di linea economicissima della Universal a 5 euro il pezzo, in lethal combination con una raccolta bollini terminata presso il Ricordi Mediastore di fiducia. Capirete la mia reazione con 45 euro da spendere e uno scaffale intero pieno (anche) di gemme Motown della prima ora…
71. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 4” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
72. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 5” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
73. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 6” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Dice tutto il titolo: questo è il marchio madre Motown americano, e questi sono i grandi nomi che lo hanno reso universalmente leggendario. Come già detto, è black-music spesso al confine con il pop e piuttosto sbiancata rispetto a quella che nello stesso periodo usciva da Memphis, Chicago, Los Angeles, New Orleans o New York. Molti archi e molte belle voci, poco sudore e rari anche i contenuti sociali e politici, con qualche eccezione. Uomo avvisato mezzo salvato, quindi, ma restano pagine fondamentali nella storia della musica popolare.
Nel volume 4 grande l’apertura da parte dei giovanissimi Jackson 5, grezzi e carichi come pochi in “I Want You Back” così come in “A B C” più avanti. Sempre affascinanti i duetti Marvin Gaye/Tammi Terrell. Incommensurabili i Temptations di “I Can’t Get Next to You” e dell’apoteosi funk “Cloud Nine”, ma ne parleremo più in là.
Nel volume 5 menzione speciale per l’inno pacifista “War” di Edwin Starr e per “Tears Of A Clown” di Smokey Robinson & The Miracles, ma non sono da meno Stevie Wonder con “Heaven Help Us All” e “Signed, Sealed, Delivered I’m Yours” soprattutto, Jimmy Ruffin con “It’s Wonderful (To Be Loved By You)” ed i Detriot Spinners con “It’s A Shame”. Incommensurabili i Temptations di “Ball Of Confusion (That’s What The World Is Today)”, ma ne parleremo più in là.
Nel volume 6 (il migliore dei tre, copertina a parte…), di nuovo Supremes e Temptations in combinazione per “River Deep Mountain High”, una pimpante “We Can Work It Out” beatlesiana firmata Stevie Wonder, Supremes e Velvelettes in buona forma ed Elgins non da meno, Four Tops e Jackson 5 scatenati, Smokey Robinson & The Miracles frizzanti in “(Come Round Here) I’m The One You Need”. Non al massimo della gradazione funk che erano capaci di raggiungere all’epoca i Temptations, ma pur sempre i Temptations. E come avrete capito ne parleremo più in là. Voi intanto portatevi avanti col lavoro e cercate A TUTTI I COSTI “Psychedelic Soul”, sempre a 5 euro per Spectrum.
05/08/02
04/08/02
66. Eddie Floyd “Knock On Wood” 1967. (cd nuovo, Atlantic, € 7.00).
Meriterebbe un bel dieci solo per la copertina, questo primo album del ragazzone di Montgomery, Alabama: un perfetto esempio del gusto dell’epoca Stax, con il nostro vestito di tutto punto in un bosco, pronto ascia in mano a mettere in pratica il titolo. E proprio “Knock On Wood” dovrebbe essere suonare familiare alla maggioranza dei lettori. La conoscete di sicuro, l’hanno rifatta più o meno tutti, ma questa è l’originale. Idem dicasi per l’anthem errebì “Raise Your Hand” (Springsteen dal vivo, Now Time Delegation) o per “High-Heel Sneakers” (gli Who prima di chiamarsi Who, Ike e Tina Turner). Fu invece Wilson Pickett, ex compagno nei Falcons, a rifare “Something You Got” e “634-5789”. Quella che sembrerebbe però una tipica raccolta di singoli assemblata alla veloce è in realtà un album vero e proprio, che bilancia abilmente uptempo che faranno la storia (vedi sopra) e ballate soul memphisiane fino al midollo (“I Stand Accused”, “Warm And Tender Love”). Alle spalle di Eddie, la cui interpretazione non ha bisogno di commenti, la house-band di casa, ovvero Booker T & The MGs in incognito, con la chitarra di Steve Cropper a fare come al solito da protagonista (il bianco che più ha fatto per la musica nera?).
Meriterebbe un bel dieci solo per la copertina, questo primo album del ragazzone di Montgomery, Alabama: un perfetto esempio del gusto dell’epoca Stax, con il nostro vestito di tutto punto in un bosco, pronto ascia in mano a mettere in pratica il titolo. E proprio “Knock On Wood” dovrebbe essere suonare familiare alla maggioranza dei lettori. La conoscete di sicuro, l’hanno rifatta più o meno tutti, ma questa è l’originale. Idem dicasi per l’anthem errebì “Raise Your Hand” (Springsteen dal vivo, Now Time Delegation) o per “High-Heel Sneakers” (gli Who prima di chiamarsi Who, Ike e Tina Turner). Fu invece Wilson Pickett, ex compagno nei Falcons, a rifare “Something You Got” e “634-5789”. Quella che sembrerebbe però una tipica raccolta di singoli assemblata alla veloce è in realtà un album vero e proprio, che bilancia abilmente uptempo che faranno la storia (vedi sopra) e ballate soul memphisiane fino al midollo (“I Stand Accused”, “Warm And Tender Love”). Alle spalle di Eddie, la cui interpretazione non ha bisogno di commenti, la house-band di casa, ovvero Booker T & The MGs in incognito, con la chitarra di Steve Cropper a fare come al solito da protagonista (il bianco che più ha fatto per la musica nera?).
03/08/02
65. The Promise Ring “Wood/Water” 2002. (cd nuovo, Anti, € 13.83).
Del film non ricordo titolo né altro, se non quella situazione. Tipica, già vista: ragazzi americani, un’auto, una mattina degli anni ‘70, sole, freddo fuori e neve non ancora sciolta, destinazione poco chiara, pausa dalle responsabilità o ritorno ad esse. Silenzio e autoradio. Immagine nitida, che “Wood/Water” evoca in maniera struggente.
Non ci si aspettava “Very Emergency 2”, ma neanche uno scarto troppo netto con passato e processo evolutivo dei quattro. Quando però i suddetti entrano in studio con Mario Caldato e Stephen Street e la prima cosa che ne esce fuori è “Say Goodbye Good” (languido quasi-gospel con coda epica… Mojave 3? Primal Scream?), beh, non resta che prenderne atto: punto. “Anzi -come diceva Totò- due punti!”.
Le prove: un’inedito lavoro sui suoni, ricchi e raffinati, ottimi e abbondanti verrebbe da dire, pensando alla via via crescente semplicità dei tre album precedenti. Una voce morbida e versatile, a tratti irriconoscibile. Testi definitivamente affrancatisi dall’accumulazione poetica di giochi di parole e citazioni geografiche.
Proprio “Say Goodbye Good” è un po’ il vero Finale dell’album, con la seguente, soffusa “Feed the Night” a chiudere un po’ come apriva “Size of Your Life”, voce filtrata e andamento sbilenco, incipit insolito per un disco probabilmente destinato al successo, da parte di una band che a ben altre prime canzoni ci aveva abituato.
In mezzo, ballate. “Stop Playing Guitar” e la splendida “My Life Is at Home”, scaldata da cori perfetti, le sole a ricordare i recenti trascorsi. Altrove tornano in mente Elliott Smith (“Become One Anything One Time”, l’ottima “Suffer Never”), i cugini Vermont (“Wake Until April”) o entrambi (“Letters to the Far Reaches”). La ricerca di una classicità rock, più che pop, e molto ‘70 pervade tutto il lavoro, che riesce dove il secondo Jets To Brazil riusciva solo in parte.
Altri, adesso, fanno roba alla Promise Ring. I Promise Ring compongono canzoni. Nell’autoradio dell’auto che non ho continuano ad esserci loro.
PS – a quasi cinque mesi dalla stesura, non posso che confermare.
Del film non ricordo titolo né altro, se non quella situazione. Tipica, già vista: ragazzi americani, un’auto, una mattina degli anni ‘70, sole, freddo fuori e neve non ancora sciolta, destinazione poco chiara, pausa dalle responsabilità o ritorno ad esse. Silenzio e autoradio. Immagine nitida, che “Wood/Water” evoca in maniera struggente.
Non ci si aspettava “Very Emergency 2”, ma neanche uno scarto troppo netto con passato e processo evolutivo dei quattro. Quando però i suddetti entrano in studio con Mario Caldato e Stephen Street e la prima cosa che ne esce fuori è “Say Goodbye Good” (languido quasi-gospel con coda epica… Mojave 3? Primal Scream?), beh, non resta che prenderne atto: punto. “Anzi -come diceva Totò- due punti!”.
Le prove: un’inedito lavoro sui suoni, ricchi e raffinati, ottimi e abbondanti verrebbe da dire, pensando alla via via crescente semplicità dei tre album precedenti. Una voce morbida e versatile, a tratti irriconoscibile. Testi definitivamente affrancatisi dall’accumulazione poetica di giochi di parole e citazioni geografiche.
Proprio “Say Goodbye Good” è un po’ il vero Finale dell’album, con la seguente, soffusa “Feed the Night” a chiudere un po’ come apriva “Size of Your Life”, voce filtrata e andamento sbilenco, incipit insolito per un disco probabilmente destinato al successo, da parte di una band che a ben altre prime canzoni ci aveva abituato.
In mezzo, ballate. “Stop Playing Guitar” e la splendida “My Life Is at Home”, scaldata da cori perfetti, le sole a ricordare i recenti trascorsi. Altrove tornano in mente Elliott Smith (“Become One Anything One Time”, l’ottima “Suffer Never”), i cugini Vermont (“Wake Until April”) o entrambi (“Letters to the Far Reaches”). La ricerca di una classicità rock, più che pop, e molto ‘70 pervade tutto il lavoro, che riesce dove il secondo Jets To Brazil riusciva solo in parte.
Altri, adesso, fanno roba alla Promise Ring. I Promise Ring compongono canzoni. Nell’autoradio dell’auto che non ho continuano ad esserci loro.
PS – a quasi cinque mesi dalla stesura, non posso che confermare.
02/08/02
64. The Streets “Original Pirate Material” 2002. (cd nuovo, 679/Warner, € 16.47).
Non so se Mike Skinner a.k.a. The Streets confermerà con il tempo tutto quello che di lui si è detto in occasione di questo debutto, se si rivelerà una meteora o se invece le iperboli spese siano giustificate o persino troppo poche.
Non lo so, ma so che “Original Pirate Material” è un disco importante che non passa inosservato, impregnato di una freschezza rara. Rapping dall’invadente accento cockney, più impetuoso che stiloso, su basi che prendono dal two-step, dal garage, dalla drum’n’bass e dall’hip-hop. Tutto il disco è pervaso da una sorta di malinconia molto britannica, un no future da ultimo treno verso la periferia con le cuffie in testa e le nuvole in cielo, una drammaticità più intuita che manifestata. E da un’eloquio tagliente e torrenziale, purtroppo poco comprensibile fuori dal Regno.
Lui pare un ventitreenne bianco inglese come tanti (appare, in sequenza, con un Mars che esce dal sacchetto della spesa in una stazione di servizio, al pub con birra e sigarette, in casa con caffè e lattine vuote, in macchina con il cellulare, sempre con la stessa faccia stranita), ma non del tutto privo di sentimenti. Come avrebbe potuto altrimenti tirare fuori una struggente serenata urbana come “It’s Too Late”? Se ci si basa sulle assonanze musicali e sulle suggestioni provocate, può essere la “Unfinished Sympathy” dei giorni nostri. Mica poco. E la frase di piano su cui costruisce “Has It Come To This?” allora? E “Let’s Push Things Forward”? E “Weak Become Heroes”?
Forse abbiamo un nuovo Tricky qui. Con calma, il tempo dirà, ma teniamolo d’occhio.
Non so se Mike Skinner a.k.a. The Streets confermerà con il tempo tutto quello che di lui si è detto in occasione di questo debutto, se si rivelerà una meteora o se invece le iperboli spese siano giustificate o persino troppo poche.
Non lo so, ma so che “Original Pirate Material” è un disco importante che non passa inosservato, impregnato di una freschezza rara. Rapping dall’invadente accento cockney, più impetuoso che stiloso, su basi che prendono dal two-step, dal garage, dalla drum’n’bass e dall’hip-hop. Tutto il disco è pervaso da una sorta di malinconia molto britannica, un no future da ultimo treno verso la periferia con le cuffie in testa e le nuvole in cielo, una drammaticità più intuita che manifestata. E da un’eloquio tagliente e torrenziale, purtroppo poco comprensibile fuori dal Regno.
Lui pare un ventitreenne bianco inglese come tanti (appare, in sequenza, con un Mars che esce dal sacchetto della spesa in una stazione di servizio, al pub con birra e sigarette, in casa con caffè e lattine vuote, in macchina con il cellulare, sempre con la stessa faccia stranita), ma non del tutto privo di sentimenti. Come avrebbe potuto altrimenti tirare fuori una struggente serenata urbana come “It’s Too Late”? Se ci si basa sulle assonanze musicali e sulle suggestioni provocate, può essere la “Unfinished Sympathy” dei giorni nostri. Mica poco. E la frase di piano su cui costruisce “Has It Come To This?” allora? E “Let’s Push Things Forward”? E “Weak Become Heroes”?
Forse abbiamo un nuovo Tricky qui. Con calma, il tempo dirà, ma teniamolo d’occhio.
63. The Impressions “This Is My Country/The Young Mods’ Forgotten Story” 1968/1969. (cd usato, Curtom/Sequel, € 10.00).
Nell’epoca d’oro dei gruppi vocali, gli Impressions occupano un ruolo di primissimo piano. Come e più di molti ensemble coevi, seppero aggiornare suono e tematiche soul-pop classiche a tempi in cambiamento radicale, tempi di crescente consapevolezza per la gente nera e di maturazione dei loro artisti di riferimento. E Curtis Mayfield, non dimentichiamolo, gettava con il tiro i semi delle proprie meraviglie a venire.
“This Is My Country” suona come un’orgogliosa rivendicazione, ma anche un’amara constatazione. Sono arrivato qui come schiavo, sono stato escluso ed umiliato per qualche centinaio di anni, ma questa è anche la mia terra. Non solo. Proprio perché è mia, ti dico di osservare attentamente come l’hai ridotta. La copertina infatti parla chiaro: Curtis Mayfield in completo immacolato e chitarra acustica, Fred Cash e Sam Gooden poco più indietro, altrettanto eleganti. Sono sul retro di un palazzo fatiscente, nella loro Chicago, ed hanno espressioni di fierezza e stile che stridono con il luogo. È il retro del sogno americano, e da esso si comincia.
Sono pochi però, nonostante le premesse, gli episodi apertamente politici: l’iniziale “They Don’t Know” (memorabile il passo “Every brother is a leader/Every sister is a breeder”) e l’inno all’orgoglio nero della title-track, in chiusura. È un impegno civile ancora in incubazione, se vogliamo, e il resto sono canzoni d’amore. Ma che canzoni d’amore: voci di velluto e parole vere.
“The Young Mods’ Forgotten Story”, di un anno seguente, scopre ancor più le carte in tavola con una sicurezza stilistica ormai inattaccabile: altra copertina memorabile, altre hit impegnate (“Choice Of Colors”, “Mighty Mighty (Spade & Whitey)”) ed altre serenate da brividi (“Jealous Man”, “Wherever You Leadeth Me”, “Soulful Love”).
Due album su un solo cd, chiaramente indispensabile.
Nell’epoca d’oro dei gruppi vocali, gli Impressions occupano un ruolo di primissimo piano. Come e più di molti ensemble coevi, seppero aggiornare suono e tematiche soul-pop classiche a tempi in cambiamento radicale, tempi di crescente consapevolezza per la gente nera e di maturazione dei loro artisti di riferimento. E Curtis Mayfield, non dimentichiamolo, gettava con il tiro i semi delle proprie meraviglie a venire.
“This Is My Country” suona come un’orgogliosa rivendicazione, ma anche un’amara constatazione. Sono arrivato qui come schiavo, sono stato escluso ed umiliato per qualche centinaio di anni, ma questa è anche la mia terra. Non solo. Proprio perché è mia, ti dico di osservare attentamente come l’hai ridotta. La copertina infatti parla chiaro: Curtis Mayfield in completo immacolato e chitarra acustica, Fred Cash e Sam Gooden poco più indietro, altrettanto eleganti. Sono sul retro di un palazzo fatiscente, nella loro Chicago, ed hanno espressioni di fierezza e stile che stridono con il luogo. È il retro del sogno americano, e da esso si comincia.
Sono pochi però, nonostante le premesse, gli episodi apertamente politici: l’iniziale “They Don’t Know” (memorabile il passo “Every brother is a leader/Every sister is a breeder”) e l’inno all’orgoglio nero della title-track, in chiusura. È un impegno civile ancora in incubazione, se vogliamo, e il resto sono canzoni d’amore. Ma che canzoni d’amore: voci di velluto e parole vere.
“The Young Mods’ Forgotten Story”, di un anno seguente, scopre ancor più le carte in tavola con una sicurezza stilistica ormai inattaccabile: altra copertina memorabile, altre hit impegnate (“Choice Of Colors”, “Mighty Mighty (Spade & Whitey)”) ed altre serenate da brividi (“Jealous Man”, “Wherever You Leadeth Me”, “Soulful Love”).
Due album su un solo cd, chiaramente indispensabile.
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