89. VV.AA. “Northern Soul - Cream Of 60’s Soul” 2001. (2cd nuovo, Burning Airlines, € 10.30).
90. VV.AA. “Northern Soul - Keep The Faith. The Cream Of Rare Soul” 2001. (2cd nuovo, Burning Airlines, € 10.30).
Un caso unico. Un sottogenere musicale che prende il proprio nome non dalla zona dove viene prodotto, ma dalla zona distante migliaia di kilometri dove viene (ri)scoperto e suonato qualche anno dopo. Nel nord dell’Inghilterra nei primi ‘70, appunto, quando dj collezionisti scavano alla ricerca di raro soul americano del decennio precedente, modellato sulle arie pop del migliore Detroit-sound ma eseguito da artisti sottovalutati o perfettamente sconosciuti. Trovati (e pagati sicuramente meno di quanto costerebbero adesso) i singoletti ecco le serate, vere riunioni di outsiders e mods irriducibili in un’epoca ormai lanciata verso il classic rock che più bianco non si può.
Se parte del materiale Motown fu ed è tuttora la punta dell’iceberg del fenomeno Northern Soul, con queste due raccolte doppie si comincia a scavare sul serio. I nomi si fanno per lo più ignoti e la musica perde quella perfezione caratteristica, nel bene e nel male, del marchio di Detroit. Ma acquista in umanità, eccome. Una sensazione di fragilità, di avventura, di vera innocenza pervade queste canzoni, spesso e volentieri hit da qualche centinaio di copie e basta.
Nel primo volume spuntano qua e là nomi famosi, catturati agli inizi di luminose carriere -Bobby Womack, O’Jays, Martha Reeves, i Parliaments non ancora Parliament, Edwin Starr, David Ruffin- mentre nel secondo (Parliaments a parte) si brancola quasi totalmente nel buio del soul più raro -come da titolo- ma non meno esaltante e foriero di scoperte interessantissime, anzi. Prendete “How Good Can It Get” di Jay Lyle come esempio, e provate a stare fermi.
Pessime entrambe le grafiche, le note di “Cream Of 60’s Soul” sono però dettagliate ed estese, ma concentrate sulla storia dei singoli pezzi senza introdurre adeguatamente un movimento del quale tuttora pochi conoscono l’esistenza o sanno individuare i tratti distintivi. Ci prova lo stesso Graham Betts in “Keep The Faith”, riuscendoci in parte ma finendo per interessare più i collezionisti e gli elitisti dei fan in cerca di notizie (peraltro scarsissime, visto il materiale). Insomma, gli standard delle ristampe nel 2002 sono altissimi (citerò fino allo sfinimento Harmless per il soul/funk e Blood & Fire per il reggae), e con questi bisogna confrontarsi cara Burning Airlines. Certo è la musica che conta, e da questo punto di vista i due titoli sono ottimi, ma nel giudizio complessivo anche questo conta.
In entrambi i casi, infine, si poteva tagliare un paio di pezzi e stare negli 80 minuti di un cd invece di farne uscire due da 40 minuti o giù di lì. Ma il formato in fondo è dj-friendly, ed il costo è comunque quello di un singolo cd economico, quindi come non detto.
30/09/02
28/09/02
88. James Brown “The Payback” 1974. (cd nuovo, Polydor, € 9.49).
È un Soul Brother #1 sconvolto dal dolore quello che lavora a “The Payback”. Il 14 giugno del 1973, con due degli otto brani già fissati su nastro e l’album che comincia a prendere forma, il suo primogenito Teddy muore in un incidente stradale. James Brown reagisce e si fa forza nel modo più puro conosciuto allo hardest working man in show business: suonando, il 16 giugno, nell’Ohio.
E rimettendosi all’opera per finire uno dei suoi album cardine degli anni ’70. Come il successivo “Hell” (vedi archivio luglio), trattasi di una sorta di concept. Meno dispersivo e più compatto sul canovaccio funk ormai reso arte. Meno esplicitamente sociale e più rivolto alla persona, alla sua crescita interiore come indispensabile per una società più giusta e per, appunto, Il Rimborso. “And payback is gonna be a mutha!!!”.
Esemplari e determinanti, in questo senso, i dodici minuti finali di “Mind Power”: la voce alterna parlato e cantato creando una tensione che sfocia intorno al quinto minuto in un groove semplice quanto trascinante, sul quale riprende il dialogo del Godfather Of Soul e altri groove si innestano per poi tornare a quello iniziale.
Il resto del disco, in origine un doppio, sta sugli stessi livelli e più o meno sugli stessi minutaggi: un solo brano sotto i sette minuti, altri due sotto gli otto, gli altri sopra fino ai quasi tredici (troppi?) della tribale “Time Is Running Out Fast”. Il Godfather sciorina funk ipnotico da par suo (la title-track, “Take Some… Leave Some”, il singolo “Stone To The Bone”) o apre il proprio cuore in ballate blues di lusso (“Doing The Best I Can”, “Forever Suffering”). Notevole.
È un Soul Brother #1 sconvolto dal dolore quello che lavora a “The Payback”. Il 14 giugno del 1973, con due degli otto brani già fissati su nastro e l’album che comincia a prendere forma, il suo primogenito Teddy muore in un incidente stradale. James Brown reagisce e si fa forza nel modo più puro conosciuto allo hardest working man in show business: suonando, il 16 giugno, nell’Ohio.
E rimettendosi all’opera per finire uno dei suoi album cardine degli anni ’70. Come il successivo “Hell” (vedi archivio luglio), trattasi di una sorta di concept. Meno dispersivo e più compatto sul canovaccio funk ormai reso arte. Meno esplicitamente sociale e più rivolto alla persona, alla sua crescita interiore come indispensabile per una società più giusta e per, appunto, Il Rimborso. “And payback is gonna be a mutha!!!”.
Esemplari e determinanti, in questo senso, i dodici minuti finali di “Mind Power”: la voce alterna parlato e cantato creando una tensione che sfocia intorno al quinto minuto in un groove semplice quanto trascinante, sul quale riprende il dialogo del Godfather Of Soul e altri groove si innestano per poi tornare a quello iniziale.
Il resto del disco, in origine un doppio, sta sugli stessi livelli e più o meno sugli stessi minutaggi: un solo brano sotto i sette minuti, altri due sotto gli otto, gli altri sopra fino ai quasi tredici (troppi?) della tribale “Time Is Running Out Fast”. Il Godfather sciorina funk ipnotico da par suo (la title-track, “Take Some… Leave Some”, il singolo “Stone To The Bone”) o apre il proprio cuore in ballate blues di lusso (“Doing The Best I Can”, “Forever Suffering”). Notevole.
27/09/02
85. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 1” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
86. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 2” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
87. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 3” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Finita la pacchia, ancora Lei. Cosa mi fosse preso in quei giorni di acquisti frenetici è ancora troppo presto per elaborarlo, ma se di una collana si sono appena presi i volumi dal 4 al 6, come resistere a quelli dall’1 al 3 trovati in un altro negozio?
Raccontati quelli (vedi archivio di agosto) facciamo un passo indietro per questi, i primi tre dedicati alle grandi hits della casa madre Motown sul mercato britannico. Badate, di compilations originariamente uscite su vinile all’epoca si tratta, non di pacchi assemblati a Cologno Monzese. La grafica e le note rimangono le stesse, e soprattutto in questi tre volumi il clima di spensieratezza sixties/northern soul è inebriante.
Notevole il primo: lo apre Stevie Wonder con la sua –dispensabile?- versione di “Blowin’ In The Wind”, e proseguono i nomi che ormai tutti conoscono. Da segnalare la pimpante “You Keep Me Hangin’ On” (“Chi Mi Aiuterà” dei Ribelli vi dice qualcosa?) di Diana Ross & The Supremes e “Standing In The Shadow Of Love” dei Four Tops (“L’Ombra Di Nessuno” dei Rokes vi dice qualcosa?), il duetto Gaye/Weston, “(I Know) I’m Losing You” dei Temptations (che ormai ho in una tre dischi diversi ma che non mi stanco di ascoltare…), la stupenda “7 Rooms Of Gloom” ancora dei Four Tops, “I’m Ready For Love” di Martha Reeves & The Vandellas, “I Was Made To Love Her” di Stevie Wonder (meglio questa, Stevie).
Illumina il secondo volume “I Heard It Through The Grapevine” ripresa da Gladys Knight & The Pips, ma con materiale così farebbe bella figura più o meno chiunque. I duetti Gaye/Terrell già li ho decantati in passato, e qui ce ne sono due, mentre nulla sapevo di “Reflections” di Diana Ross & The Supremes, purtroppo. “You Keep Running Away” dei Four Tops è un errebì grintoso 100% Motown, così come “I’m Wondering” e soprattutto “Shoo-be-doo-be-doo-da-day” di Stevie Wonder. “Gotta See Jane” è uno dei due grossi hit del bianco R. Dean Taylor per l’etichetta, e se non suona proprio del tutto fuori posto non segue comunque quasi per nulla la linea aziendale, ma non è malaccio con il suo andamento spedito dal sapore beat.
Proprio la “I Heard It Through The Grapevine” di cui si parlava poco sopra, invece, sta all’inizio del volume 3, nella giustamente celebratissima interpretazione di Marvin Gaye: puro stile. Aggiungiamo “Dancing In The Streets” di Martha Reeves & The Vandellas e “Get Ready” in versione Temptations ed avremo il terzetto di classici che da solo giustifica l’acquisto. Come se nelle restanti undici tracce non abitassero –scusate se è poco- Smokey Robinson più vellutato che mai (“The Tracks Of My Tears”), Edwin Starr, Jr Walker & The All Stars ad impostare il groove di “(I’m A) Road Runner”, una colossale (l’inizio con finto-sitar ed il refrain soprattutto) “No Matter What Sign You Are” di Diana Ross & The Supremes ed una altrettanto entusiasmante “Behind A Painted Smile” degli Isley Brothers.
Come i tre volumi seguenti, non indispensabili per il collezionista ma consigliatissimi per il neofita.
86. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 2” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
87. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 3” 1997. (cd nuovo, Spectrum, € 5.00).
Finita la pacchia, ancora Lei. Cosa mi fosse preso in quei giorni di acquisti frenetici è ancora troppo presto per elaborarlo, ma se di una collana si sono appena presi i volumi dal 4 al 6, come resistere a quelli dall’1 al 3 trovati in un altro negozio?
Raccontati quelli (vedi archivio di agosto) facciamo un passo indietro per questi, i primi tre dedicati alle grandi hits della casa madre Motown sul mercato britannico. Badate, di compilations originariamente uscite su vinile all’epoca si tratta, non di pacchi assemblati a Cologno Monzese. La grafica e le note rimangono le stesse, e soprattutto in questi tre volumi il clima di spensieratezza sixties/northern soul è inebriante.
Notevole il primo: lo apre Stevie Wonder con la sua –dispensabile?- versione di “Blowin’ In The Wind”, e proseguono i nomi che ormai tutti conoscono. Da segnalare la pimpante “You Keep Me Hangin’ On” (“Chi Mi Aiuterà” dei Ribelli vi dice qualcosa?) di Diana Ross & The Supremes e “Standing In The Shadow Of Love” dei Four Tops (“L’Ombra Di Nessuno” dei Rokes vi dice qualcosa?), il duetto Gaye/Weston, “(I Know) I’m Losing You” dei Temptations (che ormai ho in una tre dischi diversi ma che non mi stanco di ascoltare…), la stupenda “7 Rooms Of Gloom” ancora dei Four Tops, “I’m Ready For Love” di Martha Reeves & The Vandellas, “I Was Made To Love Her” di Stevie Wonder (meglio questa, Stevie).
Illumina il secondo volume “I Heard It Through The Grapevine” ripresa da Gladys Knight & The Pips, ma con materiale così farebbe bella figura più o meno chiunque. I duetti Gaye/Terrell già li ho decantati in passato, e qui ce ne sono due, mentre nulla sapevo di “Reflections” di Diana Ross & The Supremes, purtroppo. “You Keep Running Away” dei Four Tops è un errebì grintoso 100% Motown, così come “I’m Wondering” e soprattutto “Shoo-be-doo-be-doo-da-day” di Stevie Wonder. “Gotta See Jane” è uno dei due grossi hit del bianco R. Dean Taylor per l’etichetta, e se non suona proprio del tutto fuori posto non segue comunque quasi per nulla la linea aziendale, ma non è malaccio con il suo andamento spedito dal sapore beat.
Proprio la “I Heard It Through The Grapevine” di cui si parlava poco sopra, invece, sta all’inizio del volume 3, nella giustamente celebratissima interpretazione di Marvin Gaye: puro stile. Aggiungiamo “Dancing In The Streets” di Martha Reeves & The Vandellas e “Get Ready” in versione Temptations ed avremo il terzetto di classici che da solo giustifica l’acquisto. Come se nelle restanti undici tracce non abitassero –scusate se è poco- Smokey Robinson più vellutato che mai (“The Tracks Of My Tears”), Edwin Starr, Jr Walker & The All Stars ad impostare il groove di “(I’m A) Road Runner”, una colossale (l’inizio con finto-sitar ed il refrain soprattutto) “No Matter What Sign You Are” di Diana Ross & The Supremes ed una altrettanto entusiasmante “Behind A Painted Smile” degli Isley Brothers.
Come i tre volumi seguenti, non indispensabili per il collezionista ma consigliatissimi per il neofita.
24/09/02
84. Etta James “The Best Of Etta James” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Ricordo ancora il mio primo contatto con Jamesetta Hawkins. Fu in realtà un contatto con Sugar Pie Desanto. Cosa passasse nella testa, dei coniugi Desanto al momento di chiamare la figlia Sugar Pie non lo so, e se fosse invece un nome d’arte non so nemmeno cosa passasse nella sua di testa quando lo scelse. Ma la signorina ebbe comunque una popolarità minore grazie ad alcune incisioni per la Chess, radunate in una compilation della stessa Chess che misi su per pura curiosità (Sugar Pie Desanto, non so se mi spiego) nell’impianto del megastore musicale dove lavoravo.
Partì “In The Basement - Part One”, e nel tempo necessario al cervello per comunicare alle mani di stoppare immediatamente il cd e metterlo al sicuro una ragazza se lo era già comprato e messo in borsa. Una che stava al 99% comprando il suo primo disco soul, forse perché le ricordava qualche pubblicità vista in tv. Ne stava comprando l’unica copia in negozio, molto probabilmente rimasta a pigliare polvere nello scaffale fino a cinque minuti prima, e gliela stavo vendendo io. Incapace di raffazzonare un “Mi spiace ma è prenotato” qualunque, mi abbandonai a un patetico quanto perdente in partenza tentativo di farmelo almeno registrare su cassetta (addavenì masterizzatore…) e portare “la prossima volta che passi di qui”. Patetico, patetico.
La suddetta perla, e qui veniamo al dunque, vedeva la nostra Tortina duettare con l’amica d’infanzia Etta James (anche Jamesetta non scherza come nome, eh?) in un torrido rhythm’n’blues botta-e-risposta che rianimerebbe anche il più loffio dei dancefloor nello spazio di otto battute. “In The Basement - Part One”, appunto. Che meraviglia. Ora, finalmente, anche mia.
Il resto della presente raccolta, ottimo sunto di una carriera luminosa punteggiata da problemi di droga, copre grossomodo il periodo tra il 1960 ed il 1968 con qualche puntata nei primi/medi anni ’70, ed è un concentrato di vitalità e grinta. Dopo settimane di Motown, con tutto il rispetto, questo è un salutare cazzotto in faccia. Etta canta dalle viscere, ha meno sezioni di archi ad accompagnarla e più blues a guidarla. Poco confronto, insomma: dove la Motown è sostanzialmente intrattenimento di gran classe qui si assapora la vita, e i giorni chiari o bui che di volta in volta ci riserva. Se Brenda Holloway canta “You’ve Made Me So Very Happy”, Etta qualche anno prima grida “I Just Want To Make Love To You” fuori dai polmoni, sottoscrivendone ogni sillaba. Questo colpisce di Etta: la carica, la sfacciataggine, la passione, la voce da cattiva ragazza. Il suo è un rhythm’n’blues che sconfina di volta in volta nel soul, nel funk, nel gospel o nel blues e basta, umano fino in fondo e oltre come solo i più grandi hanno saputo essere, essenziale crocevia tra la Chicago dove risiede e il sud dove spesso registra. Grande, grande, grande.
PS - D’obbligo, a questo punto, un pezzo di Eddy Cilìa su uno dei prossimi “Blow Up”.
Ricordo ancora il mio primo contatto con Jamesetta Hawkins. Fu in realtà un contatto con Sugar Pie Desanto. Cosa passasse nella testa, dei coniugi Desanto al momento di chiamare la figlia Sugar Pie non lo so, e se fosse invece un nome d’arte non so nemmeno cosa passasse nella sua di testa quando lo scelse. Ma la signorina ebbe comunque una popolarità minore grazie ad alcune incisioni per la Chess, radunate in una compilation della stessa Chess che misi su per pura curiosità (Sugar Pie Desanto, non so se mi spiego) nell’impianto del megastore musicale dove lavoravo.
Partì “In The Basement - Part One”, e nel tempo necessario al cervello per comunicare alle mani di stoppare immediatamente il cd e metterlo al sicuro una ragazza se lo era già comprato e messo in borsa. Una che stava al 99% comprando il suo primo disco soul, forse perché le ricordava qualche pubblicità vista in tv. Ne stava comprando l’unica copia in negozio, molto probabilmente rimasta a pigliare polvere nello scaffale fino a cinque minuti prima, e gliela stavo vendendo io. Incapace di raffazzonare un “Mi spiace ma è prenotato” qualunque, mi abbandonai a un patetico quanto perdente in partenza tentativo di farmelo almeno registrare su cassetta (addavenì masterizzatore…) e portare “la prossima volta che passi di qui”. Patetico, patetico.
La suddetta perla, e qui veniamo al dunque, vedeva la nostra Tortina duettare con l’amica d’infanzia Etta James (anche Jamesetta non scherza come nome, eh?) in un torrido rhythm’n’blues botta-e-risposta che rianimerebbe anche il più loffio dei dancefloor nello spazio di otto battute. “In The Basement - Part One”, appunto. Che meraviglia. Ora, finalmente, anche mia.
Il resto della presente raccolta, ottimo sunto di una carriera luminosa punteggiata da problemi di droga, copre grossomodo il periodo tra il 1960 ed il 1968 con qualche puntata nei primi/medi anni ’70, ed è un concentrato di vitalità e grinta. Dopo settimane di Motown, con tutto il rispetto, questo è un salutare cazzotto in faccia. Etta canta dalle viscere, ha meno sezioni di archi ad accompagnarla e più blues a guidarla. Poco confronto, insomma: dove la Motown è sostanzialmente intrattenimento di gran classe qui si assapora la vita, e i giorni chiari o bui che di volta in volta ci riserva. Se Brenda Holloway canta “You’ve Made Me So Very Happy”, Etta qualche anno prima grida “I Just Want To Make Love To You” fuori dai polmoni, sottoscrivendone ogni sillaba. Questo colpisce di Etta: la carica, la sfacciataggine, la passione, la voce da cattiva ragazza. Il suo è un rhythm’n’blues che sconfina di volta in volta nel soul, nel funk, nel gospel o nel blues e basta, umano fino in fondo e oltre come solo i più grandi hanno saputo essere, essenziale crocevia tra la Chicago dove risiede e il sud dove spesso registra. Grande, grande, grande.
PS - D’obbligo, a questo punto, un pezzo di Eddy Cilìa su uno dei prossimi “Blow Up”.
23/09/02
83. Bob Marley & The Wailers “Catch A Fire” 1973. (cd nuovo, Island, € 4.00).
Un attimo di pausa dal tour de force Motown, ed uno di quei classici senza tempo che dovreste già avere in casa qualunque tipo di musica ascoltiate. Nove classici, uno dietro l’altro.
Già parlai in passato di quanto allo stesso tempo ami il reggae e non consideri Bob Marley reggae, ma icona a sé stante. Icona incommensurabile, badate. È che mi ha sempre fatto incazzare l’equazione reggae=Marley=canne, come se il filo conduttore (e non uno dei fili conduttori, e neppure il più forte) di quarant’anni di musica jamaicana fosse quello. Che gli sguardi stupiti quando dico contemporaneamente, con capelli corti o cortissimi e aspetto ordinato, che la mia musica preferita è il reggae e che non fumo dipendano anche da questo assunto a dir poco superficiale? Detto questo, come già dissi parlando del live “Babylon By Bus” (vedi archivio di gennaio), viva Marley.
“Catch A Fire” è il primo album dei Wailers ancora trio (anzi quintetto, visto che Aston e Carlton Barrett ne fanno parte a tutti gli effetti), ma già sbilanciati di nome e di fatto verso Bob, concepito per il mercato rock tradizionale. La versione originale passò attraverso ulteriori sessions di sovrincisione a cura di musicisti bianchi, che secondo leggenda lo resero più commestibile ad un pubblico non ancora avvezzo al reggae. Da qualche tempo ne gira, a prezzo nemmeno esorbitante, una deluxe edition doppia, contenente la versione internazionale e quella jamaicana primigenia, oltre immagino a qualche inedito o live. Grafica curata, note e tutto quanto.
Io, chissà perché, non ho comprato quella (ragionamento delirante che un po’ mi vergogno ad esporre: “mah, che palle, due volte lo stesso disco…”), ma la versione semplice e singola, rimasterizzata con due inediti e libretto con i testi. Sì, perché se non lo sapeste tutta la produzione del suddetto per la Island è stata rimasterizzata e ristampata dalla Universal con due/tre inedite per album e messa sul mercato a 10 euro. Logico quindi l’acquisto in blocco (che io a tuttoggi rimando o intendo dilazionare nel tempo), ad esclusione come ormai ovvio di “Catch A Fire”. Avendo già il suddetto titolo in vinile, capirete quindi che una mezza cazzata sento di averla fatta.
Ok, ho “High Tide Or Low Tide” (strana, molto moderna e soul…) e “All Day All Night” (bella, con le voci di Peter Tosh e Bunny Wailer più presenti del solito), ma ci sono pure sul doppio per dio! E non saprò mai com’è “Baby We’ve Got A Date (Rock It Babe)” senza la slide invadente di questo tale Wayne Perkins, o se avrei potuto fare a meno dei sintetizzatori di un temibile John “Rabbit” Bundrick.
L’enigma del tempo sull’attacco di “400 Years”, invece, penso che non lo risolverò mai.
Un attimo di pausa dal tour de force Motown, ed uno di quei classici senza tempo che dovreste già avere in casa qualunque tipo di musica ascoltiate. Nove classici, uno dietro l’altro.
Già parlai in passato di quanto allo stesso tempo ami il reggae e non consideri Bob Marley reggae, ma icona a sé stante. Icona incommensurabile, badate. È che mi ha sempre fatto incazzare l’equazione reggae=Marley=canne, come se il filo conduttore (e non uno dei fili conduttori, e neppure il più forte) di quarant’anni di musica jamaicana fosse quello. Che gli sguardi stupiti quando dico contemporaneamente, con capelli corti o cortissimi e aspetto ordinato, che la mia musica preferita è il reggae e che non fumo dipendano anche da questo assunto a dir poco superficiale? Detto questo, come già dissi parlando del live “Babylon By Bus” (vedi archivio di gennaio), viva Marley.
“Catch A Fire” è il primo album dei Wailers ancora trio (anzi quintetto, visto che Aston e Carlton Barrett ne fanno parte a tutti gli effetti), ma già sbilanciati di nome e di fatto verso Bob, concepito per il mercato rock tradizionale. La versione originale passò attraverso ulteriori sessions di sovrincisione a cura di musicisti bianchi, che secondo leggenda lo resero più commestibile ad un pubblico non ancora avvezzo al reggae. Da qualche tempo ne gira, a prezzo nemmeno esorbitante, una deluxe edition doppia, contenente la versione internazionale e quella jamaicana primigenia, oltre immagino a qualche inedito o live. Grafica curata, note e tutto quanto.
Io, chissà perché, non ho comprato quella (ragionamento delirante che un po’ mi vergogno ad esporre: “mah, che palle, due volte lo stesso disco…”), ma la versione semplice e singola, rimasterizzata con due inediti e libretto con i testi. Sì, perché se non lo sapeste tutta la produzione del suddetto per la Island è stata rimasterizzata e ristampata dalla Universal con due/tre inedite per album e messa sul mercato a 10 euro. Logico quindi l’acquisto in blocco (che io a tuttoggi rimando o intendo dilazionare nel tempo), ad esclusione come ormai ovvio di “Catch A Fire”. Avendo già il suddetto titolo in vinile, capirete quindi che una mezza cazzata sento di averla fatta.
Ok, ho “High Tide Or Low Tide” (strana, molto moderna e soul…) e “All Day All Night” (bella, con le voci di Peter Tosh e Bunny Wailer più presenti del solito), ma ci sono pure sul doppio per dio! E non saprò mai com’è “Baby We’ve Got A Date (Rock It Babe)” senza la slide invadente di questo tale Wayne Perkins, o se avrei potuto fare a meno dei sintetizzatori di un temibile John “Rabbit” Bundrick.
L’enigma del tempo sull’attacco di “400 Years”, invece, penso che non lo risolverò mai.
82. Kim Weston “Greatest Hits & Rare Classics” 1998. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Pare che Agatha Nathalie “Kim” Weston non amasse particolarmente i ballabili più uptempo, ma preferisse di gran lunga prestare le sue corde vocali alle ballate più romantiche. Preferenza assai poco distinguibile: “Take Me In Your Arms (Rock Me A Little While)” tra i primi e “Go Ahead And Laugh” tra le seconde, due scelte a caso, dicono di un’interprete egualmente a suo agio, eccome. Ma ballate o ballabili, di dischi a lei accreditati se ne sono visti davvero pochi. Una serie di duetti con Marvin Gaye, qualche singolo su Motown e sussidiarie, un album programmato su Gordy e mai uscito. Troppo poco, decisamente.
Ci pensa quindi questa ottima raccolta uscita originariamente nel 1991, che ci permette di conoscere a fondo un’interprete dimenticata (con venti brani pubblicati tra il 1963 ed il 1966, quattro dei quali in duetto con Marvin Gaye) e conferma la bontà di questa serie a bassissimo prezzo che la Spectrum/Universal dedica alla celebre etichetta di Detroit. Come già detto, si tratta di greatest hits nel vero senso della parola, compilate con testa e cuore, annotate con precisione e curate nella grafica. Tuttaltro che fregature-a-4900-lire inspessite con pezzi del 1979 e live del 1986, sono dischi che potrebbero tranquillamente essere messi sul mercato a prezzo pieno, o quantomeno in linea economica tradizionale.
Pare che Agatha Nathalie “Kim” Weston non amasse particolarmente i ballabili più uptempo, ma preferisse di gran lunga prestare le sue corde vocali alle ballate più romantiche. Preferenza assai poco distinguibile: “Take Me In Your Arms (Rock Me A Little While)” tra i primi e “Go Ahead And Laugh” tra le seconde, due scelte a caso, dicono di un’interprete egualmente a suo agio, eccome. Ma ballate o ballabili, di dischi a lei accreditati se ne sono visti davvero pochi. Una serie di duetti con Marvin Gaye, qualche singolo su Motown e sussidiarie, un album programmato su Gordy e mai uscito. Troppo poco, decisamente.
Ci pensa quindi questa ottima raccolta uscita originariamente nel 1991, che ci permette di conoscere a fondo un’interprete dimenticata (con venti brani pubblicati tra il 1963 ed il 1966, quattro dei quali in duetto con Marvin Gaye) e conferma la bontà di questa serie a bassissimo prezzo che la Spectrum/Universal dedica alla celebre etichetta di Detroit. Come già detto, si tratta di greatest hits nel vero senso della parola, compilate con testa e cuore, annotate con precisione e curate nella grafica. Tuttaltro che fregature-a-4900-lire inspessite con pezzi del 1979 e live del 1986, sono dischi che potrebbero tranquillamente essere messi sul mercato a prezzo pieno, o quantomeno in linea economica tradizionale.
22/09/02
81. The Temptations “With A Lot O’ Soul” 1967. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Si apre con “(I Know) I’m Losing You”, e se la conoscete capirete che l’album parte non con uno ma con tutti e due i piedi giusti. Siamo giusto un attimo prima della svolta funk (che proprio il pezzo citato sembra anticipare), e quello che i cinque sanno e devono fare è, come da titolo, il Soul. La forza e la freschezza dei dodici brani sono qualcosa di imbarazzante, siano essi ballate col cuore in mano o numeri dance; prendere a caso la cadenza quasi gospel di “No More Water In The Well”, la memphisiana “Now That You’ve Won Me”, l’incalzante “Ain’t No Sun Since You’ve Been Gone” (alle radici del Curtis Mayfield di “Superfly?”). Senza bisogno di commenti l’interpretazione. Mi ripeterò, ma per 5 euro non prenderlo è reato.
Si apre con “(I Know) I’m Losing You”, e se la conoscete capirete che l’album parte non con uno ma con tutti e due i piedi giusti. Siamo giusto un attimo prima della svolta funk (che proprio il pezzo citato sembra anticipare), e quello che i cinque sanno e devono fare è, come da titolo, il Soul. La forza e la freschezza dei dodici brani sono qualcosa di imbarazzante, siano essi ballate col cuore in mano o numeri dance; prendere a caso la cadenza quasi gospel di “No More Water In The Well”, la memphisiana “Now That You’ve Won Me”, l’incalzante “Ain’t No Sun Since You’ve Been Gone” (alle radici del Curtis Mayfield di “Superfly?”). Senza bisogno di commenti l’interpretazione. Mi ripeterò, ma per 5 euro non prenderlo è reato.
21/09/02
80. VV.AA. “Tamla Motown Connoisseurs” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Continua l’indigestione Motown: da zero a cento in pochi giorni. Poco o nulla avevo, e per colpa di queste dannate offerte mi ritrovo con l’indispensabile e oltre. Trattandosi poi di acquisti ormai lontani, sopra ai quali se ne sono accumulate altre decine, l’ascolto ed il relativo racconto su queste pagine (pagine?) diventa parzialmente coatto, con risultati prevedibili. Insomma, di Motown non ne posso quasi più, e non è nemmeno finita! Ma l’ordine cronologico è sacro, amati lettori, e se questo è stato l’ottantesimo disco che ho acquistato dal primo gennaio ad oggi, di questo vi parlerò dopo il settantanovesimo e prima dell’ottantunesimo (e badate, a tutt’oggi prima di raggiungere il negozio di fiducia siamo a centotrenta).
Entrino le rarità, allora: venti brani richiestissimi dai fans più accesi, per la maggior parte mai apparsi su cd ed alcuni addirittura inediti, a rappresentare il lato oscuro ma non per questo meno entusiasmante dell’epopea Tamla Motown. Insomma, se anche non siete connoisseurs ve la godrete lo stesso. Anche perché i titoli saranno rarità, ma i nomi spesso parlano da soli: Gladys Knight And The Pips, The Isley Brothers, Marvin Gaye da solo (una chicca la sua “Sunny”) e con Kim Weston, The Temptations (una solare “That’ll Be The Day” del 1965), Martha Reeves da sola nel 1973, Tammi Terrell, The Four Tops, un enorme Stevie Wonder ragazzino, uno Smokey Robinson funkeggiante nei primi ’70 con i suoi Miracles. Tutti sui livelli a cui ci abituarono nei loro anni ’60, quindi elevatissimi. Aggiungete la regina del blue-eyed soul Chris Clark, la sicurezza Brenda Holloway, la verve strumentale di Junior Walker, le armonie vocali levigate degli Originals, la misconosciuta attrice/modella Barbara McNair, i Contours, i trascinanti Undisputed Truth, le Marvelettes, il soul straordinariamente moderno di Bobby Taylor (l’attacco della voce non è uguale a quello di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack?).
Per quanto riguarda booklet, note e “idea”, sicuramente la migliore di tutte le compilations Motown di cui si è parlato. E il contenuto non è da meno. It’s what’s in the groove that counts.
Continua l’indigestione Motown: da zero a cento in pochi giorni. Poco o nulla avevo, e per colpa di queste dannate offerte mi ritrovo con l’indispensabile e oltre. Trattandosi poi di acquisti ormai lontani, sopra ai quali se ne sono accumulate altre decine, l’ascolto ed il relativo racconto su queste pagine (pagine?) diventa parzialmente coatto, con risultati prevedibili. Insomma, di Motown non ne posso quasi più, e non è nemmeno finita! Ma l’ordine cronologico è sacro, amati lettori, e se questo è stato l’ottantesimo disco che ho acquistato dal primo gennaio ad oggi, di questo vi parlerò dopo il settantanovesimo e prima dell’ottantunesimo (e badate, a tutt’oggi prima di raggiungere il negozio di fiducia siamo a centotrenta).
Entrino le rarità, allora: venti brani richiestissimi dai fans più accesi, per la maggior parte mai apparsi su cd ed alcuni addirittura inediti, a rappresentare il lato oscuro ma non per questo meno entusiasmante dell’epopea Tamla Motown. Insomma, se anche non siete connoisseurs ve la godrete lo stesso. Anche perché i titoli saranno rarità, ma i nomi spesso parlano da soli: Gladys Knight And The Pips, The Isley Brothers, Marvin Gaye da solo (una chicca la sua “Sunny”) e con Kim Weston, The Temptations (una solare “That’ll Be The Day” del 1965), Martha Reeves da sola nel 1973, Tammi Terrell, The Four Tops, un enorme Stevie Wonder ragazzino, uno Smokey Robinson funkeggiante nei primi ’70 con i suoi Miracles. Tutti sui livelli a cui ci abituarono nei loro anni ’60, quindi elevatissimi. Aggiungete la regina del blue-eyed soul Chris Clark, la sicurezza Brenda Holloway, la verve strumentale di Junior Walker, le armonie vocali levigate degli Originals, la misconosciuta attrice/modella Barbara McNair, i Contours, i trascinanti Undisputed Truth, le Marvelettes, il soul straordinariamente moderno di Bobby Taylor (l’attacco della voce non è uguale a quello di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack?).
Per quanto riguarda booklet, note e “idea”, sicuramente la migliore di tutte le compilations Motown di cui si è parlato. E il contenuto non è da meno. It’s what’s in the groove that counts.
19/09/02
Non so se succede in tutte le città del nord, ma in quella dove abito io sì.
Non appena il calendario segna settembre e/o cadono due goccioline di pioggia e/o il cielo abbandona il blu per il caratteristico grigio, tutte i finestrini dei mezzi di trasporto pubblici restano contemporaneamente chiuse e chi prova ad aprirli viene guardato con astio e/o commiserazione dal resto dei passeggeri.
Non contano la temperatura (alta, alta) o l’umidità (altissima). Semplicemente, per il cittadino è finita l’estate.
77. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume One” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
78. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Two” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
79. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Three” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Abbiamo detto più in basso di come ciò che negli Stati Uniti usciva per i sottomarchi Gordy, Soul, VIP e Tamla e per la casa madre Motown, sul mercato britannico fosse raggruppato sotto un unico, storico marchio: Tamla Motown. Logico quindi che, oltre ai nomi di punta, soprattutto a metà anni ’60 raggiungessero il Vecchio Continente decine di artisti meno conosciuti. Proprio questi furono alfieri dell’epoca d’oro del northern soul, mentre il marchio americano diventava sempre più sinonimo di soul music patinata e sbiancata tendente al mainstream. Motown è una cosa, quindi. Tamla Motown un’altra. Se devo scegliere, pur amando entrambe, alle sviolinate preferisco i ritmi incalzanti e le ballate grezze. Nei tre volumi di questa raccolta, anch’essa disponibile a 5 euro a titolo più o meno in tutti i negozi di dischi della nazione, troviamo una equilibrata miscela delle due tendenze. Proprio come da titolo, vi si trovano successoni e rarità, ma nessuno dei nomi stranoti. La tracklist raggruppa brani degli stessi artisti e le note sono stringate ma precise.
Parte sviolinando il primo volume, con un ambo degli Originals, Bobby Taylor & The Vancouvers e i più rustici fratelli Ruffin, Jimmy e David, fuoriuscito dai Temptations nel 1968. Da qui in avanti, però, i ritmi aumentano. Non male i Rare Earth alle prese con una rielaborazione rock di due classici degli stessi Temptations come “Get Ready” e “(I Know) I’m Losing You”, ma coverizzare quelle cinque voci è compito ingrato. Da paura Edwin Starr: “War” è il pezzo più conosciuto della raccolta, probabilmente grazie alla cover che ne fece Bruce Springsteen nel cofanetto dal vivo, mentre “Twenty-five Miles” è un errebì grezzo come si deve. Stilosi come sempre i Detroit Spinners di “It’s A Shame” e “I’ll Always Love You”, i finale vira decisamente verso il northern soul femminile: The Elgins tra una ballata e un uptempo 100% girl group, Brenda Holloway (anche autrice, cosa non comune, di “You Made Me So Very Happy”) e Kim Weston a mettere in mostra la consueta classe.
Proprio Brenda Holloway apre il secondo volume, con il blues pianistico “Every Little Bit Hurts” ed il quasi doo-wop di “When I’m Gone”. Della grandezza delle Velvelettes abbiamo già detto, e se avete la loro antologia avete anche questi tre pezzi, ma ascoltarli di nuovo non vi farà certo male. Di Tammi Terrell pure si è già detto, e bene, mentre “Money (That’s What I Want)” di Barrett Strong è uno di quei pezzi ormai considerati degli standard rhythm’n’blues. Assaggiati i campioni Isley Brothers, è tempo per il misconosciuto e grandioso Shorty Long: “Here Comes The Judge” l’avevamo già scoperta su “Superfunk” firmata Larry & Tommy, ma è sempre un floor-filler di quelli seri, così come “Function At The Junction”. Ancora Temptations rivisitati per gli Undisputed Truth, e ancora superbo soul-rock chitarristico per i Rare Earth, mentre Supremes e Four Tops si riuniscono per “River Deep, Mountain High” (l’hanno fatta in mille, ma se trovate la versione dei pionieri punk australiani Saints tenetevela stretta). R. Dean Taylor fu probabilmente l’unico songwriter bianco ad avere una hit su Motown, e la sua “Indiana Wants Me” ha un sapore tra pop e folkrock che conquista. Lentazzi di Charlene (grande!) e della coppia Billy Preston & Syreeta ci accompagnano alla conclusione, dove sta il vero pezzo forte di un volume già notevole: “What The World Needs Now Is Love/Abraham, Martin And John”, pacchianissimo collage pacifista assemblato dal dj Tom Clay, con i testi dei brani dei Blackberries parlati sugli originali da lui e da un bambino, inframmezzati da registrazioni di Martin Luther King, eserciti in esercitazione ed azione, spari, sirene, radiogiornali, assassinio di John Fitzgerald Kennedy e chi più ne ha più ne metta. Crediateci o no, uno dei più grossi hit dell’etichetta.
Niente male anche il volume tre, comunque: comincia forte al femminile con Kim Weston al meglio e continua altrettanto con Velvelettes, Tammi Terrell e Brenda Holloway. Trascurabili le Supremes del 1975, indispensabili il già citato Shorty Long (un mega-standard per lui: “Devil With The Blue Dress On”!), il grandissimo Edwin Starr e soprattutto Eddie Holland, che oltre ad autore è ottimo esecutore di un tris mozzafiato (“Leaving Here” –proprio quella- “Just Ain’t Enough Love” e “Candy To Me”). Se poi a portarci verso la fine arrivano pezzi da novanta dello stile come Isley Brothers e Detroit Spinners, e a chiudere le danze pensano prima i Contours e poi le Elgins, in una escalation northern soul non da poco, beh, è fatta.
In conclusione: un volume uno meno scatenato dei seguenti, una collana che potreste fare vostra dopo “Mod Faves Raves”, ma che a 5 euro a disco potete fare vostra comunque.
Non appena il calendario segna settembre e/o cadono due goccioline di pioggia e/o il cielo abbandona il blu per il caratteristico grigio, tutte i finestrini dei mezzi di trasporto pubblici restano contemporaneamente chiuse e chi prova ad aprirli viene guardato con astio e/o commiserazione dal resto dei passeggeri.
Non contano la temperatura (alta, alta) o l’umidità (altissima). Semplicemente, per il cittadino è finita l’estate.
77. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume One” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
78. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Two” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
79. VV.AA. “Tamla Motown Big Hits & Hard To Find Classics Volume Three” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Abbiamo detto più in basso di come ciò che negli Stati Uniti usciva per i sottomarchi Gordy, Soul, VIP e Tamla e per la casa madre Motown, sul mercato britannico fosse raggruppato sotto un unico, storico marchio: Tamla Motown. Logico quindi che, oltre ai nomi di punta, soprattutto a metà anni ’60 raggiungessero il Vecchio Continente decine di artisti meno conosciuti. Proprio questi furono alfieri dell’epoca d’oro del northern soul, mentre il marchio americano diventava sempre più sinonimo di soul music patinata e sbiancata tendente al mainstream. Motown è una cosa, quindi. Tamla Motown un’altra. Se devo scegliere, pur amando entrambe, alle sviolinate preferisco i ritmi incalzanti e le ballate grezze. Nei tre volumi di questa raccolta, anch’essa disponibile a 5 euro a titolo più o meno in tutti i negozi di dischi della nazione, troviamo una equilibrata miscela delle due tendenze. Proprio come da titolo, vi si trovano successoni e rarità, ma nessuno dei nomi stranoti. La tracklist raggruppa brani degli stessi artisti e le note sono stringate ma precise.
Parte sviolinando il primo volume, con un ambo degli Originals, Bobby Taylor & The Vancouvers e i più rustici fratelli Ruffin, Jimmy e David, fuoriuscito dai Temptations nel 1968. Da qui in avanti, però, i ritmi aumentano. Non male i Rare Earth alle prese con una rielaborazione rock di due classici degli stessi Temptations come “Get Ready” e “(I Know) I’m Losing You”, ma coverizzare quelle cinque voci è compito ingrato. Da paura Edwin Starr: “War” è il pezzo più conosciuto della raccolta, probabilmente grazie alla cover che ne fece Bruce Springsteen nel cofanetto dal vivo, mentre “Twenty-five Miles” è un errebì grezzo come si deve. Stilosi come sempre i Detroit Spinners di “It’s A Shame” e “I’ll Always Love You”, i finale vira decisamente verso il northern soul femminile: The Elgins tra una ballata e un uptempo 100% girl group, Brenda Holloway (anche autrice, cosa non comune, di “You Made Me So Very Happy”) e Kim Weston a mettere in mostra la consueta classe.
Proprio Brenda Holloway apre il secondo volume, con il blues pianistico “Every Little Bit Hurts” ed il quasi doo-wop di “When I’m Gone”. Della grandezza delle Velvelettes abbiamo già detto, e se avete la loro antologia avete anche questi tre pezzi, ma ascoltarli di nuovo non vi farà certo male. Di Tammi Terrell pure si è già detto, e bene, mentre “Money (That’s What I Want)” di Barrett Strong è uno di quei pezzi ormai considerati degli standard rhythm’n’blues. Assaggiati i campioni Isley Brothers, è tempo per il misconosciuto e grandioso Shorty Long: “Here Comes The Judge” l’avevamo già scoperta su “Superfunk” firmata Larry & Tommy, ma è sempre un floor-filler di quelli seri, così come “Function At The Junction”. Ancora Temptations rivisitati per gli Undisputed Truth, e ancora superbo soul-rock chitarristico per i Rare Earth, mentre Supremes e Four Tops si riuniscono per “River Deep, Mountain High” (l’hanno fatta in mille, ma se trovate la versione dei pionieri punk australiani Saints tenetevela stretta). R. Dean Taylor fu probabilmente l’unico songwriter bianco ad avere una hit su Motown, e la sua “Indiana Wants Me” ha un sapore tra pop e folkrock che conquista. Lentazzi di Charlene (grande!) e della coppia Billy Preston & Syreeta ci accompagnano alla conclusione, dove sta il vero pezzo forte di un volume già notevole: “What The World Needs Now Is Love/Abraham, Martin And John”, pacchianissimo collage pacifista assemblato dal dj Tom Clay, con i testi dei brani dei Blackberries parlati sugli originali da lui e da un bambino, inframmezzati da registrazioni di Martin Luther King, eserciti in esercitazione ed azione, spari, sirene, radiogiornali, assassinio di John Fitzgerald Kennedy e chi più ne ha più ne metta. Crediateci o no, uno dei più grossi hit dell’etichetta.
Niente male anche il volume tre, comunque: comincia forte al femminile con Kim Weston al meglio e continua altrettanto con Velvelettes, Tammi Terrell e Brenda Holloway. Trascurabili le Supremes del 1975, indispensabili il già citato Shorty Long (un mega-standard per lui: “Devil With The Blue Dress On”!), il grandissimo Edwin Starr e soprattutto Eddie Holland, che oltre ad autore è ottimo esecutore di un tris mozzafiato (“Leaving Here” –proprio quella- “Just Ain’t Enough Love” e “Candy To Me”). Se poi a portarci verso la fine arrivano pezzi da novanta dello stile come Isley Brothers e Detroit Spinners, e a chiudere le danze pensano prima i Contours e poi le Elgins, in una escalation northern soul non da poco, beh, è fatta.
In conclusione: un volume uno meno scatenato dei seguenti, una collana che potreste fare vostra dopo “Mod Faves Raves”, ma che a 5 euro a disco potete fare vostra comunque.
05/09/02
La mattina in negozio o la sera al concerto punk grosso, mi pare di stare sempre a lavorare.
Non tanto per la fatica (vince senza dubbio il concerto punk grosso), quanto per i clienti.
Lui: "Hai roba tipo Saves The Day?"
Io (porgendo a colpo sicuro un cd del genere): "Questi!"
Lui: "E che roba fanno?"
Non tanto per la fatica (vince senza dubbio il concerto punk grosso), quanto per i clienti.
Lui: "Hai roba tipo Saves The Day?"
Io (porgendo a colpo sicuro un cd del genere): "Questi!"
Lui: "E che roba fanno?"
04/09/02
76. Martha Reeves And The Vandellas “Early Classics” 1996. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Ben più note invece, sempre in casa Motown, sono Martha Reeves e le sue Vandellas. “Nowhere To Run” nella colonna sonora di “Good Morning, Vietnam” dovrebbe avere fatto molto in questo senso. O “Dancing In The Streets”, magari. Spesso il successo di un artista e l’insuccesso di un altro artista parimenti meritevole funziona a colpi di fortuna, ma altrettanto spesso c’è qualcosa sotto. La voce ed il carattere della leader, ad esempio: Martha mette poco zucchero nel suo caffè, e guida le due sodali nel gotha dei girl-groups. Diciotto brani assortiti con cura compongono questa raccolta pressochè esaustiva datata 1962/1967 (ma soprattutto 1963/1965). Li guidano la travolgente “Motoring”, “Hitch Hike” (poi ripresa dai Rolling Stones), “(Love Is Like A) Heat Wave”, “In My Lonely Room”, “The Jerk”, “Wild One”, “Never Leave Your Baby’s Side” e le due citate in apertura. Boom!
Ben più note invece, sempre in casa Motown, sono Martha Reeves e le sue Vandellas. “Nowhere To Run” nella colonna sonora di “Good Morning, Vietnam” dovrebbe avere fatto molto in questo senso. O “Dancing In The Streets”, magari. Spesso il successo di un artista e l’insuccesso di un altro artista parimenti meritevole funziona a colpi di fortuna, ma altrettanto spesso c’è qualcosa sotto. La voce ed il carattere della leader, ad esempio: Martha mette poco zucchero nel suo caffè, e guida le due sodali nel gotha dei girl-groups. Diciotto brani assortiti con cura compongono questa raccolta pressochè esaustiva datata 1962/1967 (ma soprattutto 1963/1965). Li guidano la travolgente “Motoring”, “Hitch Hike” (poi ripresa dai Rolling Stones), “(Love Is Like A) Heat Wave”, “In My Lonely Room”, “The Jerk”, “Wild One”, “Never Leave Your Baby’s Side” e le due citate in apertura. Boom!
03/09/02
75. The Velvelettes “The Best Of” 2001. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Se avete seguito il mio consiglio e ora possedete i due volumi di “Mod Fave Raves”, le Velvelettes dovrebbero già essere tra i vostri beniamini. Come resistere a “Needle In A Haystack”? Poco conosciute dai più (io stesso le ho comprate a scatola chiusa), le ragazze hanno ben poco da invidiare ai girl-groups più celebrati: gli stessi sono infatti gli autori messi a loro disposizione dalla Motown (Norman Whitfield, Lamont Dozier, Brian ed Edward Holland, Mickey Stevenson tra gli altri) e ben codificato è lo stile che rappresentano. Quello dei girl-groups di metà ’60, appunto: feeling innocente e sbarazzino, intrecci vocali di una solista e due o più coriste, storie d’amore bordeggianti una sorta di proto-pride femminile.
Dalla loro, Cal Gill e compagne ci mettono una verve invidiabile, che consente ad un repertorio già notevole di splendere adeguatamente. Siamo su ritmi medi o sostenuti per una buona metà dei diciannove episodi, e le perle si susseguono per il sottoscritto soprattutto nel reparto ballabili: “He Was Really Saying Something”, “A Bird In The Hand (Is Worth Two In The Bush)”, l’incalzante “Lonely Lonely Girl Am I”, “I Know His Name (Only His Name)”, “These Things Will Keep Me Loving You”, “Let Love Live (A Little Bit Longer)”, “Stop Beating Around The Bush”, “Save Me (My Ship Of Love Is Sinking)”, “The Boy From Crosstown” e soprattutto la già citata, potentissima “Needle In A Haystack”.
Buona anche la realizzazione della raccolta, con i (pochi successi) affiancati da brani più oscuri, b-sides e persino quattro inediti.
Se avete seguito il mio consiglio e ora possedete i due volumi di “Mod Fave Raves”, le Velvelettes dovrebbero già essere tra i vostri beniamini. Come resistere a “Needle In A Haystack”? Poco conosciute dai più (io stesso le ho comprate a scatola chiusa), le ragazze hanno ben poco da invidiare ai girl-groups più celebrati: gli stessi sono infatti gli autori messi a loro disposizione dalla Motown (Norman Whitfield, Lamont Dozier, Brian ed Edward Holland, Mickey Stevenson tra gli altri) e ben codificato è lo stile che rappresentano. Quello dei girl-groups di metà ’60, appunto: feeling innocente e sbarazzino, intrecci vocali di una solista e due o più coriste, storie d’amore bordeggianti una sorta di proto-pride femminile.
Dalla loro, Cal Gill e compagne ci mettono una verve invidiabile, che consente ad un repertorio già notevole di splendere adeguatamente. Siamo su ritmi medi o sostenuti per una buona metà dei diciannove episodi, e le perle si susseguono per il sottoscritto soprattutto nel reparto ballabili: “He Was Really Saying Something”, “A Bird In The Hand (Is Worth Two In The Bush)”, l’incalzante “Lonely Lonely Girl Am I”, “I Know His Name (Only His Name)”, “These Things Will Keep Me Loving You”, “Let Love Live (A Little Bit Longer)”, “Stop Beating Around The Bush”, “Save Me (My Ship Of Love Is Sinking)”, “The Boy From Crosstown” e soprattutto la già citata, potentissima “Needle In A Haystack”.
Buona anche la realizzazione della raccolta, con i (pochi successi) affiancati da brani più oscuri, b-sides e persino quattro inediti.
01/09/02
I’m back, muthafuckas.
Non penso di dovervi convincere dell’assurdità di certi luoghi di vacanza per ricchi sfondati, anzi il mio mestiere vorrei piuttosto fosse il contrario, portare dubbi dove ci sono solo certezze, ma vi piacerà sapere che in Sardegna ci sono tantissimi hotel, molti dei quali a cinque stelle. Più in alto ancora, solo tre possono vantare la qualifica di “Cinque Stelle Lusso”. Tutti e tre in Costa Smeralda o immediate vicinanze.
La guida riempie il loro spazio di simbolini raffiguranti le varie comodità e attività disponibili presso l’albergo, e questi tre collezionano praticamente tutti i simbolini. Tranne uno, quello dell’accessibilità a persone portatrici di handicap.
Prima considerazione: in un mondo più giusto, un hotel non dovrebbe essere giudicato Cinque Stelle Lusso anche in base ad altri parametri? L’accessibilità o meno ai portatori di handicap, per esempio. O la presenza o meno di menu vegetariani e vegani al ristorante, per dirne un’altra.
Seconda considerazione: saranno tutti e tre inaccessibili ai portatori di handicap perché ai proprietari ed ai direttori dei portatori di handicap non gliene può fregare di meno, ricchi bastardi insensibili. Se proprio arriva il figlio in carrozzella del Sultano del Brunei, quattro aitanti locals stagionali sarano ben lieti di portarlo a braccia ovunque voglia. Non staremo mica a rifare l’hotel per un’eccezione.
Terza considerazione, quella cattiva: si è visto più volte, alla tv o sui giornali, di alberghi o ristoranti che rifiutavano l’ingresso ai portatori di handicap, per la giusta indignazione di molti. Che l’assenza del simbolino serva proprio a evitare questa indignazione? Sei in carrozzella, mi fai schifo e non voglio farti entrare, ma invece di sbatterti fuori salvo la faccia dicendo che “il nostro hotel non è attrezzato”. Eh?
In ogni caso, welcome to paradise.
74. The Temptations “Psychedelic Soul” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Eccoci quindi più in là, come promesso un mesetto fa.
Compratevi questo cd.
Ok, tento di argomentare. Già saprete come, all’apice del successo a cavallo tra ’60 e ‘70, i Temptations differenziarono la loro produzione seguendo contemporaneamente due filoni: uno soul-pop raffinato in puro stile Motown ed uno puramente funk. Lo sapete perché la prima pagina di “Blow Up” che leggete è quella di Eddy Cilìa, vero?
Bene. “Psychedelic Soul” non è un album originale, ma una compilation che riunisce come da titolo diciotto esempi da manuale appartenenti al secondo dei filoni citati. Non bastano le parole a descrivere la perfetta armonia che si viene a creare tra le cinque voci dei Nostri alle prese con temi sociali e le delizie sonore partorite da una coppia Norman Whitfield/Barrett Strong pompata al massimo. È balsamo per le orecchie, la mente e il cuore. E lo si può ballare. Non ci sono parole, se ve ne servono altre andate a riprendervi il pezzo di Cilìa che è molto più bravo di me. Ma qualunque altro modo di spendere un biglietto da 5 euro, da adesso, è sbagliato. E non chiedetemi di masterizzarvelo.
Non penso di dovervi convincere dell’assurdità di certi luoghi di vacanza per ricchi sfondati, anzi il mio mestiere vorrei piuttosto fosse il contrario, portare dubbi dove ci sono solo certezze, ma vi piacerà sapere che in Sardegna ci sono tantissimi hotel, molti dei quali a cinque stelle. Più in alto ancora, solo tre possono vantare la qualifica di “Cinque Stelle Lusso”. Tutti e tre in Costa Smeralda o immediate vicinanze.
La guida riempie il loro spazio di simbolini raffiguranti le varie comodità e attività disponibili presso l’albergo, e questi tre collezionano praticamente tutti i simbolini. Tranne uno, quello dell’accessibilità a persone portatrici di handicap.
Prima considerazione: in un mondo più giusto, un hotel non dovrebbe essere giudicato Cinque Stelle Lusso anche in base ad altri parametri? L’accessibilità o meno ai portatori di handicap, per esempio. O la presenza o meno di menu vegetariani e vegani al ristorante, per dirne un’altra.
Seconda considerazione: saranno tutti e tre inaccessibili ai portatori di handicap perché ai proprietari ed ai direttori dei portatori di handicap non gliene può fregare di meno, ricchi bastardi insensibili. Se proprio arriva il figlio in carrozzella del Sultano del Brunei, quattro aitanti locals stagionali sarano ben lieti di portarlo a braccia ovunque voglia. Non staremo mica a rifare l’hotel per un’eccezione.
Terza considerazione, quella cattiva: si è visto più volte, alla tv o sui giornali, di alberghi o ristoranti che rifiutavano l’ingresso ai portatori di handicap, per la giusta indignazione di molti. Che l’assenza del simbolino serva proprio a evitare questa indignazione? Sei in carrozzella, mi fai schifo e non voglio farti entrare, ma invece di sbatterti fuori salvo la faccia dicendo che “il nostro hotel non è attrezzato”. Eh?
In ogni caso, welcome to paradise.
74. The Temptations “Psychedelic Soul” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 0.67).
Eccoci quindi più in là, come promesso un mesetto fa.
Compratevi questo cd.
Ok, tento di argomentare. Già saprete come, all’apice del successo a cavallo tra ’60 e ‘70, i Temptations differenziarono la loro produzione seguendo contemporaneamente due filoni: uno soul-pop raffinato in puro stile Motown ed uno puramente funk. Lo sapete perché la prima pagina di “Blow Up” che leggete è quella di Eddy Cilìa, vero?
Bene. “Psychedelic Soul” non è un album originale, ma una compilation che riunisce come da titolo diciotto esempi da manuale appartenenti al secondo dei filoni citati. Non bastano le parole a descrivere la perfetta armonia che si viene a creare tra le cinque voci dei Nostri alle prese con temi sociali e le delizie sonore partorite da una coppia Norman Whitfield/Barrett Strong pompata al massimo. È balsamo per le orecchie, la mente e il cuore. E lo si può ballare. Non ci sono parole, se ve ne servono altre andate a riprendervi il pezzo di Cilìa che è molto più bravo di me. Ma qualunque altro modo di spendere un biglietto da 5 euro, da adesso, è sbagliato. E non chiedetemi di masterizzarvelo.
Iscriviti a:
Post (Atom)
Cerca in Soul Food
Archivio
-
▼
2002
(122)
-
▼
settembre
(13)
- 89. VV.AA. “Northern Soul - Cream Of 60’s Soul” 20...
- 88. James Brown “The Payback” 1974. (cd nuovo, Pol...
- 85. VV.AA. “Motown Chartbusters Volume 1” 1997. (c...
- 84. Etta James “The Best Of Etta James” 2000. (cd ...
- 83. Bob Marley & The Wailers “Catch A Fire” 1973. ...
- 82. Kim Weston “Greatest Hits & Rare Classics” 199...
- 81. The Temptations “With A Lot O’ Soul” 1967. (cd...
- 80. VV.AA. “Tamla Motown Connoisseurs” 2001. (cd ...
- Non so se succede in tutte le città del nord, ma i...
- La mattina in negozio o la sera al concerto punk g...
- 76. Martha Reeves And The Vandellas “Early Classic...
- 75. The Velvelettes “The Best Of” 2001. (cd nuovo,...
- I’m back, muthafuckas. Non penso di dovervi convin...
-
▼
settembre
(13)