Per chiudere in bellezza il primo anno di “Soul Food”, un po’ di statistiche.
Come intuibile dal numero progressivo che precede ogni titolo, nel 2002 ho comprato 156 dischi.
110 nuovi e 46 usati. Molti di quelli nuovi, va detto, erano offerte speciali (ricordate l’invasione di raccolte Motown?).
137 hanno come supporto il CD, 9 il vinile 12”, 2 il vinile 10” e 8 il vinile 7”. Segno dei tempi. Ma chissà che i prezzi e i pochi soldi in tasca non mi facciano tornare al vinile?
Per quanto riguarda la provenienza degli autori, stravincono nettamente come prevedibile gli Stati Uniti d’America (108). Secondo posto all’Inghilterra (15) che supera di strattissima misura l’amata Jamaica (13, ma se tutti quei promo avessi dovuto comprarli sarebbero molti di più… e queste statistiche sarebbero meno inutili e più indicative del sottoscritto). Seguono Italia (6, avrei detto di più, ma anche qui molte cose le ho scambiate o sono promozionali), Irlanda (5), Scozia (2) e a parimerito Australia, Germania, Giappone e Svezia (1). 3 le raccolte con artisti di diversa nazionalità.
Per quanto riguarda invece gli anni d’uscita, una piccola precisazione prima del dettaglio: vista l’abbondanza di ristampe, ho considerato l’anno originale di uscita del materiale.
Anni ’50: 1 (1 del 1952).
Anni ’60: 36 (2 del 1964, 2 del 1965, 4 del 1966, 3 del 1967, 2 del 1968, 5 del 1969, 18 vari).
Vari ‘60/’70: 14.
Anni ’70: 30 (4 del 1970, 1 del 1971, 2 del 1972, 4 del 1973, 3 del 1974, 3 del 1975, 2 del 1978, 2 del 1979, 9 vari).
Vari ‘70/’80: 1.
Anni ’80: 13 (6 del 1980, 3 del 1981, 1 del 1986, 1 del 1989, 2 vari).
Anni ’90: 16 (2 del 1992, 1 del 1993, 2 del 1994, 1 del 1996, 2 del 1997, 1 del 1998, 5 del 1999, 2 vari).
Vari ‘90/’00: 1.
Anni ’00: 42 (7 del 2000, 13 del 2001, 22 del 2002).
Vari (più di due decenni rappresentati): 2.
La spesa totale? 1414.22 euro, fratelli e sorelle. Circa 117.85 al mese in media.
Se mi lavassi i denti meglio avrebbero potuto essere anche di più. Se non abitassi in un appartamento enorme con soffitti altissimi e riscaldamento centralizzato idem (se facesse veramente caldo, poi…).
Se non ne avessi comprato nessuno ora avrei l’Ampeg testata e cassa per basso che sogno di notte, ma non avrei tutti i dischi che ho e non avrei scritto tutte queste cose.
1414.22 euro, fratelli e sorelli, ma ricordatevi che non fumo, non mi drogo, non mangio carne e pesce e non leggo fumetti.
28/02/03
25/02/03
Mi ha fatto piacere leggere quello che hai scritto a proposito di "Front Porch Stories". Non per gli Avail, ovviamente.
E sottoscrivo tutto.
È che anch'io ho ripensato alle tue stesse cose in questi giorni, anche se poi alla fine non ho avuto la voglia di scrivere niente. Mi sembrava di fare della nostalgia a buon mercato.
Ma non è una questione di nostalgia, me ne sono reso conto leggendoti; è che "quei giorni" (forse è tipico accorgersene in queste occasioni) sono una parte di me con cui faccio i conti tutti i giorni, una questione di radici, di storia che si evolve e cambia forma, ma è qui adesso. Non nostalgia, quindi.
Mi sento diverso, non cambiato.
emi.
E sottoscrivo tutto.
È che anch'io ho ripensato alle tue stesse cose in questi giorni, anche se poi alla fine non ho avuto la voglia di scrivere niente. Mi sembrava di fare della nostalgia a buon mercato.
Ma non è una questione di nostalgia, me ne sono reso conto leggendoti; è che "quei giorni" (forse è tipico accorgersene in queste occasioni) sono una parte di me con cui faccio i conti tutti i giorni, una questione di radici, di storia che si evolve e cambia forma, ma è qui adesso. Non nostalgia, quindi.
Mi sento diverso, non cambiato.
emi.
23/02/03
156. Avail “Front Porch Stories” 2002. (cd nuovo, Fat Wreck Chords, € 18.00).
È uno strano e maledetto caso quello che mi porta a parlare del nuovo album degli Avail –l’ultimo disco da me acquistato nel 2002- proprio in questi giorni, funestati dalla terribile notizia che qualche giorno fa come me avrà scosso tutti coloro che animavano o semplicemente frequentavano la scena hardcore-punk degli anni ’90. Una scena profondamente diversa da quella attuale, ammesso e non concesso che la stragrande maggioranza dei suoi partecipanti odierni non si vergogni a chiamarla tale, preferendo usare termini assai più in voga e molto più cool quali rock’n’roll o indie. Una scena in cui bastava un’occhiata per riconoscere nello sconosciuto un fratello. Pibe era giovanissimo, ma c’era eccome. Ed era uno di noi. Ecco, forse non è del tutto un caso. Per ragioni pubbliche e private insieme.
Ragioni pubbliche perché gli anni in cui conobbi Pibe e le cose che faceva sono gli stessi anni in cui gli Avail vennero in Italia per tre volte e il sottoscritto organizzò i loro concerti, concerti bellissimi e completamente estranei a un circuito commerciale che di lì a poco avrebbe cominciato a rovistare in casa nostra e che non avrebbe risparmiato nemmeno gli Avail stessi. Guadagnarono forse qualche lira di meno, i nostri amici di Richmond, ma vissero le cose vere, strinsero rapporti, furono presenti in un momento in cui, per me e spero per tanti altri, la sensazione di partecipare a qualcosa di forte fu netta e precisa. Chi c’era sicuramente capirà di cosa sto parlando. Chi mi conosce sa che considero la nostalgia l’antitesi del punk, ma per questa volta perdonatemi. Non ha a che fare con computer e cellulari, o ne ha in minima parte. Ha a che fare piuttosto con il rischio, la necessità, la voglia.
Ragioni private perché, se la memoria non mi tradisce, la prima volta che vidi Pibe di persona dopo contatti postali fu proprio a un concerto degli Avail. Uno di quei concerti che non dimenticherò mai.
Anche per questo, non appena ho saputo che era in uscita un nuovo cd della band, a quasi tre anni di distanza dal precedente e poco convincente “One Wrench”, mi sono precipitato a prenotarlo. Perché li ho tutti, perché con gli Avail ho vissuto momenti per me fondamentali, e perché in cuor mio temevo che una storia ormai bordeggiante pericolosamente con la routine fosse giunta al termine. L’inizio di “Front Porch Stories”, invece, mi smentisce in maniera clamorosa. Non saranno più la cosa indispensabile del 1994 e del 1996, il gruppo che unisce tutti, ma “Black And Red”, “Blue Times Two” e “West Wye” mi hanno ricordato quegli Avail, e mi è bastato. Poi il disco cala leggermente, cerca strade nuove (più melodia, più feeling sudista) per un sound ormai scolpito nella pietra e ci riesce forse solo in parte, ma va bene così. Va bene lo stesso.
Grandi Avail, grande Pibe, grandi Antisgammo, grandi tutti noi.
Fanculo, merda.
“No time for rest no
Rise
When it happens friend
No, don’t let them break you
Rise
No matter what they say
No, don’t let them break you”
È uno strano e maledetto caso quello che mi porta a parlare del nuovo album degli Avail –l’ultimo disco da me acquistato nel 2002- proprio in questi giorni, funestati dalla terribile notizia che qualche giorno fa come me avrà scosso tutti coloro che animavano o semplicemente frequentavano la scena hardcore-punk degli anni ’90. Una scena profondamente diversa da quella attuale, ammesso e non concesso che la stragrande maggioranza dei suoi partecipanti odierni non si vergogni a chiamarla tale, preferendo usare termini assai più in voga e molto più cool quali rock’n’roll o indie. Una scena in cui bastava un’occhiata per riconoscere nello sconosciuto un fratello. Pibe era giovanissimo, ma c’era eccome. Ed era uno di noi. Ecco, forse non è del tutto un caso. Per ragioni pubbliche e private insieme.
Ragioni pubbliche perché gli anni in cui conobbi Pibe e le cose che faceva sono gli stessi anni in cui gli Avail vennero in Italia per tre volte e il sottoscritto organizzò i loro concerti, concerti bellissimi e completamente estranei a un circuito commerciale che di lì a poco avrebbe cominciato a rovistare in casa nostra e che non avrebbe risparmiato nemmeno gli Avail stessi. Guadagnarono forse qualche lira di meno, i nostri amici di Richmond, ma vissero le cose vere, strinsero rapporti, furono presenti in un momento in cui, per me e spero per tanti altri, la sensazione di partecipare a qualcosa di forte fu netta e precisa. Chi c’era sicuramente capirà di cosa sto parlando. Chi mi conosce sa che considero la nostalgia l’antitesi del punk, ma per questa volta perdonatemi. Non ha a che fare con computer e cellulari, o ne ha in minima parte. Ha a che fare piuttosto con il rischio, la necessità, la voglia.
Ragioni private perché, se la memoria non mi tradisce, la prima volta che vidi Pibe di persona dopo contatti postali fu proprio a un concerto degli Avail. Uno di quei concerti che non dimenticherò mai.
Anche per questo, non appena ho saputo che era in uscita un nuovo cd della band, a quasi tre anni di distanza dal precedente e poco convincente “One Wrench”, mi sono precipitato a prenotarlo. Perché li ho tutti, perché con gli Avail ho vissuto momenti per me fondamentali, e perché in cuor mio temevo che una storia ormai bordeggiante pericolosamente con la routine fosse giunta al termine. L’inizio di “Front Porch Stories”, invece, mi smentisce in maniera clamorosa. Non saranno più la cosa indispensabile del 1994 e del 1996, il gruppo che unisce tutti, ma “Black And Red”, “Blue Times Two” e “West Wye” mi hanno ricordato quegli Avail, e mi è bastato. Poi il disco cala leggermente, cerca strade nuove (più melodia, più feeling sudista) per un sound ormai scolpito nella pietra e ci riesce forse solo in parte, ma va bene così. Va bene lo stesso.
Grandi Avail, grande Pibe, grandi Antisgammo, grandi tutti noi.
Fanculo, merda.
“No time for rest no
Rise
When it happens friend
No, don’t let them break you
Rise
No matter what they say
No, don’t let them break you”
21/02/03
Lui: "Avete del farro?"
Io (se non si è capito, lavoro in un negozio di alimenti naturali e biologici): "Sì, decorticato o perlato?"
Lui: "Ah... quale è meglio?"
(come ogni volta, potrebbe bastare. Ma non basta)
Io: "Tutti e due e nessuno dei due... dipende da cosa ci deve fare"
Lui (serio e assolutamente non strafottente): "Beh, devo cucinarlo..."
Io (se non si è capito, lavoro in un negozio di alimenti naturali e biologici): "Sì, decorticato o perlato?"
Lui: "Ah... quale è meglio?"
(come ogni volta, potrebbe bastare. Ma non basta)
Io: "Tutti e due e nessuno dei due... dipende da cosa ci deve fare"
Lui (serio e assolutamente non strafottente): "Beh, devo cucinarlo..."
16/02/03
155. Against Me! “Reinventing Axl Rose” 2002. (cd nuovo, No Idea, € 11.00).
Residenza in Florida e cuore ovunque ci siano ingiustizie e qualcuno disposto a combatterle, gli Against Me! Sono la migliore novità in campo punk da anni a questa parte. Parola. È country-folk dentro ancora prima che fuori, musica del popolo che purtroppo per il popolo non lo è più da tempo, affidata a chitarre elettriche e irresistibili cori irish.
“Reinventing Axl Rose”, loro secondo album, è commovente nel gettare le proprie carte sul tavolo senza indugi, rauco e urgente. Nei petti dei suoi autori brucia il fuoco ribelle e polemico del primo Billy Bragg, degli Stiff Little Fingers, degli (Young) Pioneers, dei migliori Avail e dei Propagandhi, un fuoco personale e politico, un’America nascosta. “Reinventing Axl Rose”, la canzone, è un piccolo manuale. Un modello alternativo e perfettamente praticabile di scena, di uomini e donne nuove, alla faccia dei tanti Axl non solo mainstream.
“Pints Of Guinness Make You Strong” è una toccante storia familiare di amore e di orgoglio, “We Laugh At Danger (And Break All The Rules)” ha un coro che probabilmente mi ritroverò a cantare ai miei nipotini, “Those Anarcho Punx Are Mysterious…” è l’autocritica (“We rock because it’s us against them we found our own reason to sing, and it’s so much less confusing when lines are drawn like that”), “Baby, I’m An Anarchist” la ballata che sintetizza il tutto come meglio non si potrebbe, con sarcasmo e passione (e come difficilmente riusciranno a fare tanti portabandiera del movimento no-global):
“through the best of times, through the worst of times. through nixon and through bush. do you remember '36, we went our separate ways, you fought for stalin and i fought for freedom. you believe in authority, i believe in myself. i'm a molotov cocktail, you're the dom perignon. baby, what's that confused look in your in your eye? what i'm trying to say is that i'll burn down buildings while you sit on a shelf inside of them. you call the cops on the looters and pie-throwers. they call it class war, i call them co-conspirators. 'cuz baby, i'm an anarchist and you're a spineless liberal. we marched together for the 8-hour day and held hands in the streets of seattle. but when it came time to throw bricks through that starbucks window you left me all alone. you watched in awe at the red, white & blue on the 4th of july. but while those fireworks were exploding i was burning that fucker and stringing my black flag high. eating the peanuts that the parties have tossed you. in the back seat of your father's new ford you believe in the ballot, you believe in reform. you have faith in the elephant and jackass. and to you solidarity is a four-letter word. we're all hypocrites, but you're a patriot. you thought i was only joking when i was screaming, "kill whitey" at the top of my lungs at the cops in their cars and the men in their suits. no i won't take your hand and marry the state.”
Fantastici.
Residenza in Florida e cuore ovunque ci siano ingiustizie e qualcuno disposto a combatterle, gli Against Me! Sono la migliore novità in campo punk da anni a questa parte. Parola. È country-folk dentro ancora prima che fuori, musica del popolo che purtroppo per il popolo non lo è più da tempo, affidata a chitarre elettriche e irresistibili cori irish.
“Reinventing Axl Rose”, loro secondo album, è commovente nel gettare le proprie carte sul tavolo senza indugi, rauco e urgente. Nei petti dei suoi autori brucia il fuoco ribelle e polemico del primo Billy Bragg, degli Stiff Little Fingers, degli (Young) Pioneers, dei migliori Avail e dei Propagandhi, un fuoco personale e politico, un’America nascosta. “Reinventing Axl Rose”, la canzone, è un piccolo manuale. Un modello alternativo e perfettamente praticabile di scena, di uomini e donne nuove, alla faccia dei tanti Axl non solo mainstream.
“Pints Of Guinness Make You Strong” è una toccante storia familiare di amore e di orgoglio, “We Laugh At Danger (And Break All The Rules)” ha un coro che probabilmente mi ritroverò a cantare ai miei nipotini, “Those Anarcho Punx Are Mysterious…” è l’autocritica (“We rock because it’s us against them we found our own reason to sing, and it’s so much less confusing when lines are drawn like that”), “Baby, I’m An Anarchist” la ballata che sintetizza il tutto come meglio non si potrebbe, con sarcasmo e passione (e come difficilmente riusciranno a fare tanti portabandiera del movimento no-global):
“through the best of times, through the worst of times. through nixon and through bush. do you remember '36, we went our separate ways, you fought for stalin and i fought for freedom. you believe in authority, i believe in myself. i'm a molotov cocktail, you're the dom perignon. baby, what's that confused look in your in your eye? what i'm trying to say is that i'll burn down buildings while you sit on a shelf inside of them. you call the cops on the looters and pie-throwers. they call it class war, i call them co-conspirators. 'cuz baby, i'm an anarchist and you're a spineless liberal. we marched together for the 8-hour day and held hands in the streets of seattle. but when it came time to throw bricks through that starbucks window you left me all alone. you watched in awe at the red, white & blue on the 4th of july. but while those fireworks were exploding i was burning that fucker and stringing my black flag high. eating the peanuts that the parties have tossed you. in the back seat of your father's new ford you believe in the ballot, you believe in reform. you have faith in the elephant and jackass. and to you solidarity is a four-letter word. we're all hypocrites, but you're a patriot. you thought i was only joking when i was screaming, "kill whitey" at the top of my lungs at the cops in their cars and the men in their suits. no i won't take your hand and marry the state.”
Fantastici.
154. The Polyphonic Spree “The Beginning Stages Of…” 2002. (cd usato, 679/Good, € 9.50).
Della band in questione lessi su un numero estivo di “Mojo” –l’unico che posso vantarmi di citare, essendo l’unico che io abbia mai letto- a proposito di un concerto londinese, del quale era pubblicata anche una foto, e la mia attenzione fu subito catturata. Un’accolita di ventiquattro indie-rockers in tunica bianca, guidati da un leader quasi capellone che sotto la tunica indossava New Balance e pareva mosso da uno spirito meno pacchiano di quanto le caratteristiche dell’operazione lasciassero immaginare.
Ecco i Polyphonic Spree, quindi, ed ecco il loro album di esordio che in poco tempo ha raggiunto status di classico e fatto impazzire mezzo mondo. L’idea è indubbiamente affascinante: pop orchestrale e sognante, solare e rilassante sulla scia dei Beach Boys di “Pet Sounds”, ma anche di Beatles, Flaming Lips et similia, tutto pompato da un coro di una ventina di persone che innalza il tutto verso paesaggi celestiali. E per nulla pacchiani.
“The Beginning Stages Of…” si prende un po’ di tempo in più del previsto, ma quando finalmente entra in circolo immerge l’ascoltatore in un’atmosfera positiva e calorosa, per nulla appesantita dall’imponenza della formazione. Le sue prime nove sezioni sono una più bella dell’altra, e persino la decima -trentasei minuti abbondanti di rumori di fondo elettronici, detta così rischia di essere l’incubo che rovina quanto di bello è successo in precedenza- si fa ascoltare e sembra una conclusione sensata e pertinente per questo piccolo capolavoro.
Della band in questione lessi su un numero estivo di “Mojo” –l’unico che posso vantarmi di citare, essendo l’unico che io abbia mai letto- a proposito di un concerto londinese, del quale era pubblicata anche una foto, e la mia attenzione fu subito catturata. Un’accolita di ventiquattro indie-rockers in tunica bianca, guidati da un leader quasi capellone che sotto la tunica indossava New Balance e pareva mosso da uno spirito meno pacchiano di quanto le caratteristiche dell’operazione lasciassero immaginare.
Ecco i Polyphonic Spree, quindi, ed ecco il loro album di esordio che in poco tempo ha raggiunto status di classico e fatto impazzire mezzo mondo. L’idea è indubbiamente affascinante: pop orchestrale e sognante, solare e rilassante sulla scia dei Beach Boys di “Pet Sounds”, ma anche di Beatles, Flaming Lips et similia, tutto pompato da un coro di una ventina di persone che innalza il tutto verso paesaggi celestiali. E per nulla pacchiani.
“The Beginning Stages Of…” si prende un po’ di tempo in più del previsto, ma quando finalmente entra in circolo immerge l’ascoltatore in un’atmosfera positiva e calorosa, per nulla appesantita dall’imponenza della formazione. Le sue prime nove sezioni sono una più bella dell’altra, e persino la decima -trentasei minuti abbondanti di rumori di fondo elettronici, detta così rischia di essere l’incubo che rovina quanto di bello è successo in precedenza- si fa ascoltare e sembra una conclusione sensata e pertinente per questo piccolo capolavoro.
06/02/03
Lei (non ho ancora capito se è convinta di darmi del Tu o del Lei): "Signore scusi... questa marmellata di mirtilli è senza zucchero?"
Io: "Sì, sì... tutte le marmellate che abbiamo sono senza zucchero"
Lei (avvicinandosi con un vasetto di malto al mirtillo, le cui differenze seppure minime dalla marmellata di mirtilli non ho voglia di spiegarle): "...sa, perchè ...non c'è scritto"
Io: "Che cosa non c'è scritto?"
Lei: "Che è senza zucchero"
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Potrebbe bastare, ma come spesso succede e come i lettori fedeli ben sanno, non basta.
Io: "Basta leggere l'elenco degli ingredienti... vede? C'è lo zucchero?"
Lei: "...no"
Io: "Allora è senza zucchero, signora"
Lei: "Eh, ma chi lo sa... perchè una volta in un negozio tipo il vostro ne ho presa una... c'era scritto "Senza Zucchero" ma invece c'era lo zucchero!"
E alè, due a zero.
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno. Potere di un cervello a mezzo servizio.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Anche se l'ultima volta hai verificato il contrario (dando per buona l'improbabile testimonianza).
Meravigliosa.
Io: "Sì, sì... tutte le marmellate che abbiamo sono senza zucchero"
Lei (avvicinandosi con un vasetto di malto al mirtillo, le cui differenze seppure minime dalla marmellata di mirtilli non ho voglia di spiegarle): "...sa, perchè ...non c'è scritto"
Io: "Che cosa non c'è scritto?"
Lei: "Che è senza zucchero"
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Potrebbe bastare, ma come spesso succede e come i lettori fedeli ben sanno, non basta.
Io: "Basta leggere l'elenco degli ingredienti... vede? C'è lo zucchero?"
Lei: "...no"
Io: "Allora è senza zucchero, signora"
Lei: "Eh, ma chi lo sa... perchè una volta in un negozio tipo il vostro ne ho presa una... c'era scritto "Senza Zucchero" ma invece c'era lo zucchero!"
E alè, due a zero.
Potere delle pubblicità televisive e del packaging moderno. Potere di un cervello a mezzo servizio.
Se c'è scritto sopra "Senza Zucchero" è senza zucchero. Se non c'è scritto, è con lo zucchero.
Anche se l'ultima volta hai verificato il contrario (dando per buona l'improbabile testimonianza).
Meravigliosa.
05/02/03
Inizia febbraio, e con un ritardo tutto sommato accettabile “Soul Food” si appresta a chiudere i conti con il 2002. Ancora tre titoli, e potremo tirare le somme con una serie di inutili statistiche, prima di dedicarci ad un 2003 che ha già portato in casa Soul Mate #65 una decina di dischetti (maledette offerte di gennaio alla Wide, e maledetti soprattutto il dentista ed il riscaldamento di condominio che si sono frapposti tra me e il catalogo Pressure Sounds da completare approfittando dell’occasione). Il numero 156 è vicino, crediamoci.
Per i nuovi lettori che si fossero ritrovati qui per la prima volta, un paio di dritte su “Soul Food”. La Musica è il mio Cibo per l’Anima. Semplice no? Scrivo dal cuore della città, non ho cinque minuti liberi e spendo fortune in musica cercando il Sound Verite. Non mi piace quel genere piuttosto di quell’altro. Mi piace ciò che è Vero, tutto il resto forse non è un caso.
Queste non sono recensioni. Siamo io e i miei dischi. Parlo dei dischi che mi compro -esclusivamente di quelli- in ordine cronologico, numerati a crescere dall’inizio dell’anno. Voi fatene cosa volete. Se qualche titolo vi incuriosisse e ve lo andaste a cercare, ne sarei felice. Se mi faceste sapere cosa ne pensate, ne sarei altrettanto felice. Quello che non si conosce è più bello di quello che si conosce.
153. The Black Sea “The Black Sea” 2002. (mcd nuovo, Lovitt, € 8.00).
Shelby Cinca (voce, chitarra) e Jason Hamacher (batteria) erano due terzi dei Frodus, band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso tutto quello che è venuto dopo, con energia da vendere. A qualche anno di distanza dallo scioglimento (con Shelby nel frattempo diventato titolare dei Cassettes, i due si ritrovano e ricominciano a fare musica insieme, in compagnia di un terzo che è sufficiente citare soltanto per nome e cognome: Joe Lally.
L’omonimo debutto dei Black Sea, purtroppo soltanto tre brani, è costruito su atmosfere scure come la sua copertina, che coniugano la sempiterna lezione di Washington DC con sprazzi di lirismo quasi hard-rock e melodie epiche. “Wingless Fire” chiude con chitarra acustica, voce e rumori di vento, in un’atmosfera folk gotica da brividi. Non vedo l’ora di sentire l’album, che i bene informati danno in uscita per l’estate.
Per i nuovi lettori che si fossero ritrovati qui per la prima volta, un paio di dritte su “Soul Food”. La Musica è il mio Cibo per l’Anima. Semplice no? Scrivo dal cuore della città, non ho cinque minuti liberi e spendo fortune in musica cercando il Sound Verite. Non mi piace quel genere piuttosto di quell’altro. Mi piace ciò che è Vero, tutto il resto forse non è un caso.
Queste non sono recensioni. Siamo io e i miei dischi. Parlo dei dischi che mi compro -esclusivamente di quelli- in ordine cronologico, numerati a crescere dall’inizio dell’anno. Voi fatene cosa volete. Se qualche titolo vi incuriosisse e ve lo andaste a cercare, ne sarei felice. Se mi faceste sapere cosa ne pensate, ne sarei altrettanto felice. Quello che non si conosce è più bello di quello che si conosce.
153. The Black Sea “The Black Sea” 2002. (mcd nuovo, Lovitt, € 8.00).
Shelby Cinca (voce, chitarra) e Jason Hamacher (batteria) erano due terzi dei Frodus, band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso tutto quello che è venuto dopo, con energia da vendere. A qualche anno di distanza dallo scioglimento (con Shelby nel frattempo diventato titolare dei Cassettes, i due si ritrovano e ricominciano a fare musica insieme, in compagnia di un terzo che è sufficiente citare soltanto per nome e cognome: Joe Lally.
L’omonimo debutto dei Black Sea, purtroppo soltanto tre brani, è costruito su atmosfere scure come la sua copertina, che coniugano la sempiterna lezione di Washington DC con sprazzi di lirismo quasi hard-rock e melodie epiche. “Wingless Fire” chiude con chitarra acustica, voce e rumori di vento, in un’atmosfera folk gotica da brividi. Non vedo l’ora di sentire l’album, che i bene informati danno in uscita per l’estate.
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