141. The Most Secret Method/The Dusters - split - 1997. (10” nuovo, Superbad, € 10.00).
Dei Most Secret Method vi ho appena raccontato. Uno dei segreti, di nuovo l’ironia di un nome, meglio custoditi di tutta la scena di Washington DC. Su questo split mettono tre brani di un anno precedenti al primo album, che già preannunciano l’imminente grandezza. Nervosi ma più diretti di gran parte dei concittadini, soprattutto nelle parti vocali, i tre ci mancano un sacco. Qualcuno sa di eventuali nuovi progetti?
I Dusters invece hanno cominciato a piacermi sul serio negli ultimi tempi. Il loro primo album, ascoltato peraltro di fretta, non mi aveva detto granchè. L’ultimo “Rock Creek” invece è già un’altra cosa. Qui attaccano molto powerpop e si innervosiscono strada facendo, mantenendo comunque una vena melodica più accentuata.
La grafica di Ryan Nelson, molto Pettibone, è come per ogni altro disco dei Most Secret Method splendida.
31/12/02
137. Her Space Holiday “Home Is Where You Hang Yourself” 2000. (cd usato, Tiger Style/Wichita, € 9.00).
Non ho ancora ben capito in che gruppo dei nostri suonasse Marc Bianchi, se nei Mohinder o negli Indian Summer. Diciamo che degli Indian Summer non si è mai capito un cazzo, in realtà, ma che hanno rappresentato l’essenza dell’emo dei primi ’90 che così tanto e intensamente ci ha fatto sognare. Bei tempi, decisamente.
Fatto sta che ora Marc Bianchi fa musica da solo, e questo è il suo primo vero album, uscito nel 2000 per Tiger Style come doppio (un cd di remix con vari nomi dell’etichetta) e stampato due anni dopo in Europa da Wichita come singolo, con copertina diversa e un brano in più. Ed è proprio la musica di un solitario, di una camera da letto, quella che esce dallo stereo.
Ritmi tenui, chitarra elettrica suonata, voce sussurrata, elettronica discreta. Come dei Velvet del terzo album, o meglio ancora dei Galaxie 500, spogliati ed appoggiati su beats piccoli (non sempre, sentite “Snakecharmer”, lentissima ma con un frenetico ritmo drum’n’bass in lontananza). Tutto molto affascinante ed umano, ma tutto anche a rischio monotonia, data la materia e la lunghezza media dei pezzi. Presi singolarmente ne spiccano diversi (“The Doctor And The DJ”, “Sleeping Pills”, “Can You Blame Me?”, “Sugar Water”) ma ho l’impressione che per incominciare ad entrare in questo disco ci vogliano molti ascolti, molti. Pur se frammentari, mi erano sembrati più immediati i due volumi di singoli e outtakes “The Astronauts Are Sleeping”. Forse al meglio deve ancora arrivare, ma le premesse ci sono.
138. Creedence Clearwater Revival “Willy And The Poor Boys” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 13.38).
Il 2002, per me, è in quanto a riscoperte definitivamente l’anno dei Creedence Clearwater Revival. Infoiato oltre ogni dire da “Bayou Country”, “Green River” e “Cosmo’s Factory” esco di casa per soddisfare la mia scimmia di John Fogerty e mi accaparro l’ultimo degli indispensabili firmati da lui e dai suoi tre soci, ovvero “Willy And The Poor Boys” (per la cronaca, TERZO album edito dal gruppo nel solo 1969!).
“Fortunate Son” è il singolo con la S maiuscola. Uno dei brani più celebri del quartetto, un’invettiva feroce contro tanti hippies rivoluzionari figli di papà avvezzi a dettar legge all’epoca, contro i quali l’etica working class di Fogerty si scagliava senza mezzi termini. La sua voce è odio puro distillato attraverso il sarcasmo, in due minuti e venti fondamentali, spesso dimenticati quando si parla di Vietnam e controcultura americana.
Il resto del disco, però, si discosta abbastanza dai tipici toni scuri perfezionati nei due album precedenti, come anticipato dalla copertina: la band sorridente a un angolo di strada, armata di armonica a bocca, chitarra acustica, washboard e basso a tinozza. Quattro bambini neri guardano attenti. C’è un’aria di svago, rilassatezza, ritorno alle tradizioni: “Cotton Fields” e “The Midnight Special” sono due classici di Leadbelly, colosso del folkblues dalla vita avventurosa. “Don’t Look Now” e “It Came Out Of The Sky” sono due rock’n’roll rurali, “Poor Boy Shuffle” potrebbe essere stata suonata con gli strumenti della copertina, e sfuma nel rhythm’n’blues a 24 carati di “Feelin’ Blue”.
Con la conclusiva “Effigy”, un po’ “Hey Joe”, torna a calare l’oscurità. Che altro aggiungere ancora?
139. Various Artists With The Upsetters “Version Like Rain” 1989 (lp usato, Trojan, € 8.00).
La copertina è orribile, e nemmeno riconducibile alla vecchia scuola delle ristampe reggae (della quale comunque la Trojan non ha mai fatto parte): pare un disco della 4AD, e dubito che avrebbe potuto mai catturare la mia attenzione se quel pomeriggio non avessi deciso di dare un’occhiata al vinile reggae usato, dove di solito non guardo praticamente mai. Di reggae serio, su vinile o cd, se ne trova davvero poco in questo negozio. Comunque sia, Upsetters è scritto piccolo ma si vede, e “Version Like Rain” è un titolo che non passa inosservato. Giro l’oggetto e mi convinco che si tratta di un titolo targato Lee Perry di quelli da prendere: cura la raccolta nientemeno che Steve Barrow (futuro creatore della Blood & Fire e coautore della “Rouch Guide To Reggae”), i nomi coinvolti sono fidati (Junior Byles, U-Roy, Augustus Pablo, Susan Cadogan, Niney), e se non li conoscono arrivano comunque le date in mio soccorso (la raccolta è del 1989, ma le registrazioni risalgono al periodo 1972-1976). Mio. Prendo e pago, mentre di fianco a me due ggiovani con berrette red, green & gold guardano “Legend” di Bob Marley come se non l’avessero mai visto e nemmeno immaginano cosa sto portando via con me.
Torno a casa, apro la suddetta guida e mi batto un hi-five da solo: l’album non solo è citato, ma è recensito con parole grosse, perché raccoglie tre dei meglio ritmi Upsetter dell’epoca e li sviluppa in più versioni.
La sezione musical shower comprende la pimpante “Want A Wine” di Leo Graham, la sua versione dj a cura di U-Roy e quella strumentale a cura della band di casa Perry. Fever Storm è proprio dedicata al classico blues “Fever”, qui interpretato due volte da Junior Byles e (meravigliosamente) da Susan Cadogan. Augustus Pablo la rilegge melodica in resta, King Medious ne prende il ritmo per “This World” e gli Upsetters, di nuovo, chiudono con una “Influenza Version”.
Babylon deluge occupa l’intero lato B, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, visto che il ritmo prescelto è quello della mostruosa “Beat Down Babylon” ancora di Junior Byles (per inciso, uno dei vertici della carriera di Byles e di “Scratch” stesso). Apre l’originale, seguono Junior in coppia con il dj Jah T per “Informer Man” e relativa version. Riprende Perry in combination letale con Niney The Observer e Maxie (Romeo!) per una “Babylon’s Burning” tanto scarna quanto potente, anch’essa subito sottoposta all’apocalittico trattamento Upsetters. “Freedom Fighter” è l’eccellente contributo di Bunny & Ricky (chi sono?), prima della relativa versione e del finale lasciato alla vecchia e misconosciuta gloria ska Shenley Duffus con “Bet You Don’t Know”.
Uno degli affari dell’anno. Molto probabilmente grazie al grafico (che proprio ora in conclusione scopro essere lo studio Intro, ovvero il team responsabile della magnificenza Blood & Fire! Ok, la copertina resta orribile, ma denota la grande e sacrosanta volontà dei tipi di sperimentare e di scavalcare le barriere di genere, con soluzioni grafiche che, nel 1989, si discostavano nettamente dall’iconografia reggae classica).
140.The Most Secret Method “Our Success” 2002. (cd nuovo, Superbad, € 13.00).
Suonano ironici, a maggior ragione oggi, nome e titolo in questione. “Get Lovely” (Slowdime, 1998), tuttora il miglior disco Dischord non uscito su Dischord, è il tesoro che è solo per i quattro gatti che lo possiedono. E come troppo spesso accade nella Capitale -una sorta di contrappasso versione DC? Sarete grandi, ma durerete troppo poco?- anche per i fratelli Nelson e Johanna Claesen arriva troppo presto il momento degli addii. Succede, e quasi mai è il caso di farne un dramma. A Washington soprattutto, gli scioglimenti hanno da sempre significato nascita più che morte.
I conti vanno però saldati, ed ecco quindi “Our Success”. Catturato tra il 1998 ed il 2001 da fonici di lusso come Juan Carrera, Chad Clark, Ian MacKaye e Don Zientara e racchiuso in una slendida veste grafica, non è il suo inarrivabile predecessore, è più frammentario e a tratti solo abbozzato. Ma è opera di una band degna di sedere accanto ai più illustri fautori del DC Sound, capace di esaltarne i segreti e lo spirito. In attesa di sviluppi, a noi fare in modo che questo metodo, pur superato, diventi se non altro un po’ meno segreto.
Non ho ancora ben capito in che gruppo dei nostri suonasse Marc Bianchi, se nei Mohinder o negli Indian Summer. Diciamo che degli Indian Summer non si è mai capito un cazzo, in realtà, ma che hanno rappresentato l’essenza dell’emo dei primi ’90 che così tanto e intensamente ci ha fatto sognare. Bei tempi, decisamente.
Fatto sta che ora Marc Bianchi fa musica da solo, e questo è il suo primo vero album, uscito nel 2000 per Tiger Style come doppio (un cd di remix con vari nomi dell’etichetta) e stampato due anni dopo in Europa da Wichita come singolo, con copertina diversa e un brano in più. Ed è proprio la musica di un solitario, di una camera da letto, quella che esce dallo stereo.
Ritmi tenui, chitarra elettrica suonata, voce sussurrata, elettronica discreta. Come dei Velvet del terzo album, o meglio ancora dei Galaxie 500, spogliati ed appoggiati su beats piccoli (non sempre, sentite “Snakecharmer”, lentissima ma con un frenetico ritmo drum’n’bass in lontananza). Tutto molto affascinante ed umano, ma tutto anche a rischio monotonia, data la materia e la lunghezza media dei pezzi. Presi singolarmente ne spiccano diversi (“The Doctor And The DJ”, “Sleeping Pills”, “Can You Blame Me?”, “Sugar Water”) ma ho l’impressione che per incominciare ad entrare in questo disco ci vogliano molti ascolti, molti. Pur se frammentari, mi erano sembrati più immediati i due volumi di singoli e outtakes “The Astronauts Are Sleeping”. Forse al meglio deve ancora arrivare, ma le premesse ci sono.
138. Creedence Clearwater Revival “Willy And The Poor Boys” 1969. (cd nuovo, Fantasy, € 13.38).
Il 2002, per me, è in quanto a riscoperte definitivamente l’anno dei Creedence Clearwater Revival. Infoiato oltre ogni dire da “Bayou Country”, “Green River” e “Cosmo’s Factory” esco di casa per soddisfare la mia scimmia di John Fogerty e mi accaparro l’ultimo degli indispensabili firmati da lui e dai suoi tre soci, ovvero “Willy And The Poor Boys” (per la cronaca, TERZO album edito dal gruppo nel solo 1969!).
“Fortunate Son” è il singolo con la S maiuscola. Uno dei brani più celebri del quartetto, un’invettiva feroce contro tanti hippies rivoluzionari figli di papà avvezzi a dettar legge all’epoca, contro i quali l’etica working class di Fogerty si scagliava senza mezzi termini. La sua voce è odio puro distillato attraverso il sarcasmo, in due minuti e venti fondamentali, spesso dimenticati quando si parla di Vietnam e controcultura americana.
Il resto del disco, però, si discosta abbastanza dai tipici toni scuri perfezionati nei due album precedenti, come anticipato dalla copertina: la band sorridente a un angolo di strada, armata di armonica a bocca, chitarra acustica, washboard e basso a tinozza. Quattro bambini neri guardano attenti. C’è un’aria di svago, rilassatezza, ritorno alle tradizioni: “Cotton Fields” e “The Midnight Special” sono due classici di Leadbelly, colosso del folkblues dalla vita avventurosa. “Don’t Look Now” e “It Came Out Of The Sky” sono due rock’n’roll rurali, “Poor Boy Shuffle” potrebbe essere stata suonata con gli strumenti della copertina, e sfuma nel rhythm’n’blues a 24 carati di “Feelin’ Blue”.
Con la conclusiva “Effigy”, un po’ “Hey Joe”, torna a calare l’oscurità. Che altro aggiungere ancora?
139. Various Artists With The Upsetters “Version Like Rain” 1989 (lp usato, Trojan, € 8.00).
La copertina è orribile, e nemmeno riconducibile alla vecchia scuola delle ristampe reggae (della quale comunque la Trojan non ha mai fatto parte): pare un disco della 4AD, e dubito che avrebbe potuto mai catturare la mia attenzione se quel pomeriggio non avessi deciso di dare un’occhiata al vinile reggae usato, dove di solito non guardo praticamente mai. Di reggae serio, su vinile o cd, se ne trova davvero poco in questo negozio. Comunque sia, Upsetters è scritto piccolo ma si vede, e “Version Like Rain” è un titolo che non passa inosservato. Giro l’oggetto e mi convinco che si tratta di un titolo targato Lee Perry di quelli da prendere: cura la raccolta nientemeno che Steve Barrow (futuro creatore della Blood & Fire e coautore della “Rouch Guide To Reggae”), i nomi coinvolti sono fidati (Junior Byles, U-Roy, Augustus Pablo, Susan Cadogan, Niney), e se non li conoscono arrivano comunque le date in mio soccorso (la raccolta è del 1989, ma le registrazioni risalgono al periodo 1972-1976). Mio. Prendo e pago, mentre di fianco a me due ggiovani con berrette red, green & gold guardano “Legend” di Bob Marley come se non l’avessero mai visto e nemmeno immaginano cosa sto portando via con me.
Torno a casa, apro la suddetta guida e mi batto un hi-five da solo: l’album non solo è citato, ma è recensito con parole grosse, perché raccoglie tre dei meglio ritmi Upsetter dell’epoca e li sviluppa in più versioni.
La sezione musical shower comprende la pimpante “Want A Wine” di Leo Graham, la sua versione dj a cura di U-Roy e quella strumentale a cura della band di casa Perry. Fever Storm è proprio dedicata al classico blues “Fever”, qui interpretato due volte da Junior Byles e (meravigliosamente) da Susan Cadogan. Augustus Pablo la rilegge melodica in resta, King Medious ne prende il ritmo per “This World” e gli Upsetters, di nuovo, chiudono con una “Influenza Version”.
Babylon deluge occupa l’intero lato B, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, visto che il ritmo prescelto è quello della mostruosa “Beat Down Babylon” ancora di Junior Byles (per inciso, uno dei vertici della carriera di Byles e di “Scratch” stesso). Apre l’originale, seguono Junior in coppia con il dj Jah T per “Informer Man” e relativa version. Riprende Perry in combination letale con Niney The Observer e Maxie (Romeo!) per una “Babylon’s Burning” tanto scarna quanto potente, anch’essa subito sottoposta all’apocalittico trattamento Upsetters. “Freedom Fighter” è l’eccellente contributo di Bunny & Ricky (chi sono?), prima della relativa versione e del finale lasciato alla vecchia e misconosciuta gloria ska Shenley Duffus con “Bet You Don’t Know”.
Uno degli affari dell’anno. Molto probabilmente grazie al grafico (che proprio ora in conclusione scopro essere lo studio Intro, ovvero il team responsabile della magnificenza Blood & Fire! Ok, la copertina resta orribile, ma denota la grande e sacrosanta volontà dei tipi di sperimentare e di scavalcare le barriere di genere, con soluzioni grafiche che, nel 1989, si discostavano nettamente dall’iconografia reggae classica).
140.The Most Secret Method “Our Success” 2002. (cd nuovo, Superbad, € 13.00).
Suonano ironici, a maggior ragione oggi, nome e titolo in questione. “Get Lovely” (Slowdime, 1998), tuttora il miglior disco Dischord non uscito su Dischord, è il tesoro che è solo per i quattro gatti che lo possiedono. E come troppo spesso accade nella Capitale -una sorta di contrappasso versione DC? Sarete grandi, ma durerete troppo poco?- anche per i fratelli Nelson e Johanna Claesen arriva troppo presto il momento degli addii. Succede, e quasi mai è il caso di farne un dramma. A Washington soprattutto, gli scioglimenti hanno da sempre significato nascita più che morte.
I conti vanno però saldati, ed ecco quindi “Our Success”. Catturato tra il 1998 ed il 2001 da fonici di lusso come Juan Carrera, Chad Clark, Ian MacKaye e Don Zientara e racchiuso in una slendida veste grafica, non è il suo inarrivabile predecessore, è più frammentario e a tratti solo abbozzato. Ma è opera di una band degna di sedere accanto ai più illustri fautori del DC Sound, capace di esaltarne i segreti e lo spirito. In attesa di sviluppi, a noi fare in modo che questo metodo, pur superato, diventi se non altro un po’ meno segreto.
30/12/02
135. The Who “My Generation - Deluxe Edition” 2002. (dcd nuovo, MCA, € 23.79).
Maximum R&B!!! Sono gli Who degli inizi, giovanissimi e rumorosissimi. Hanno visi che fanno tenerezza, suonano con il fuoco dentro e l’abbandono di chi non guarda in faccia nessuno. Le cover ne svelano gli ascolti assolutamente black (il James Brown di “Please, Please, Please”, “I Don’t Mind” e “Shout And Shimmy”, la Motown di “Motoring” e “(Love Is Like A Heat Wave)”, il Bo Diddley di “I’m A Man”, “Leaving Here” e “Daddy Rolling Stone”), mentre i brani originali sono già peculiari. I singoli fanno parte della stroria del rock, di quella cerchia di brani di default per l’appassionato: il balbettio della title-track, l’attacco di “The Kids Are Alright”, la struttura quadrata di “I Can’t Explain”, le armonie vocali di di “Circles”, i feedback di “Anyway, Anyhow, Anywhere”. Ma che sorpresa il resto! “La-La-La Lies”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e “Instant Party Mixture” sono notevoli, e “The Good’s Gone” è grande!
Detto della musica, però, tocca dire anche della “Deluxe Edition” che finalmente rende gloria a un album che per problemi legali era sempre stato escluso dalle ristampe. Ci sono i brani originali e ce ne sono altri diciassette, addirittura.
Davvero spettacolosa la veste grafica, con foto d’epoca a bizzeffe e note precisissime (ma dedicate più ai fatti che ai commenti… non avrebbe guastato un mini-saggio sull’importanza e la specificità degli Who in quel periodo). Meno esaustiva -tanto più trattandosi della prima vera ristampa del disco dopo decenni, presentata come definitiva e con ben due cd a disposizione- risulta invece la scaletta. Viene in nostro aiuto il recensore di All Music Guide per mettere le cose al loro posto. Io sottoscrivo, e ribadisco che escludere l’originale di “Anyway, Anyhow, Anywhere” sbagliandone il titolo e perdere la chitarra nel break di “My Generation” sono pecche non da poco ed evitabili. Che non devono però farvi desistere dall’acquisto, sia chiaro.
136. Heatmiser - s/t - 1993. (7” usato, Cavity Search, € 3.00).
L’amico Paul visita l’Italia per l’ennesima volta al seguito del solito gruppo strafigo che se lo accaparra come tour manager. Ci sono periodi in cui vedo più spesso lui di amici che vivono a pochi kilometri di distanza. Si parla di questo e di quello (principalmente di reggae e di retroscena indie/postpunk) e se si è fortunati ha nuove foto. Oppure dischi da vendere.
Nell’indifferenza generale degli under-25, ovvero la quasi totalità dei presenti, scorgo un singolo degli Heatmiser che ha tutta l’aria di essere il primo singolo degli Heatmiser, e tra urla scomposte me lo compro. Perché alla chitarra c’è Elliott Smith, anni prima che diventasse l’Elliott Smith che tutti conosciamo e (spero per voi) amiamo. Che poi si tratti sostanzialmente di tre pezzi di grunge-pop inutile poco conta. Gli Heatmiser daranno il meglio a fine corsa, con l’ottimo “Mic City Sons” (Caroline, 1996) e con l’affacciarsi del magico Elliott dalle parti del microfono. Sam Coomes formerà i Quasi, Tony Lash diventerà un produttore (Dandy Warhols, Death Cab For Cutie), Neil Gust formerà i No. 2 (un album su Chainsaw, chi ce l’ha?) e Elliott… beh Elliott…
Maximum R&B!!! Sono gli Who degli inizi, giovanissimi e rumorosissimi. Hanno visi che fanno tenerezza, suonano con il fuoco dentro e l’abbandono di chi non guarda in faccia nessuno. Le cover ne svelano gli ascolti assolutamente black (il James Brown di “Please, Please, Please”, “I Don’t Mind” e “Shout And Shimmy”, la Motown di “Motoring” e “(Love Is Like A Heat Wave)”, il Bo Diddley di “I’m A Man”, “Leaving Here” e “Daddy Rolling Stone”), mentre i brani originali sono già peculiari. I singoli fanno parte della stroria del rock, di quella cerchia di brani di default per l’appassionato: il balbettio della title-track, l’attacco di “The Kids Are Alright”, la struttura quadrata di “I Can’t Explain”, le armonie vocali di di “Circles”, i feedback di “Anyway, Anyhow, Anywhere”. Ma che sorpresa il resto! “La-La-La Lies”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e “Instant Party Mixture” sono notevoli, e “The Good’s Gone” è grande!
Detto della musica, però, tocca dire anche della “Deluxe Edition” che finalmente rende gloria a un album che per problemi legali era sempre stato escluso dalle ristampe. Ci sono i brani originali e ce ne sono altri diciassette, addirittura.
Davvero spettacolosa la veste grafica, con foto d’epoca a bizzeffe e note precisissime (ma dedicate più ai fatti che ai commenti… non avrebbe guastato un mini-saggio sull’importanza e la specificità degli Who in quel periodo). Meno esaustiva -tanto più trattandosi della prima vera ristampa del disco dopo decenni, presentata come definitiva e con ben due cd a disposizione- risulta invece la scaletta. Viene in nostro aiuto il recensore di All Music Guide per mettere le cose al loro posto. Io sottoscrivo, e ribadisco che escludere l’originale di “Anyway, Anyhow, Anywhere” sbagliandone il titolo e perdere la chitarra nel break di “My Generation” sono pecche non da poco ed evitabili. Che non devono però farvi desistere dall’acquisto, sia chiaro.
136. Heatmiser - s/t - 1993. (7” usato, Cavity Search, € 3.00).
L’amico Paul visita l’Italia per l’ennesima volta al seguito del solito gruppo strafigo che se lo accaparra come tour manager. Ci sono periodi in cui vedo più spesso lui di amici che vivono a pochi kilometri di distanza. Si parla di questo e di quello (principalmente di reggae e di retroscena indie/postpunk) e se si è fortunati ha nuove foto. Oppure dischi da vendere.
Nell’indifferenza generale degli under-25, ovvero la quasi totalità dei presenti, scorgo un singolo degli Heatmiser che ha tutta l’aria di essere il primo singolo degli Heatmiser, e tra urla scomposte me lo compro. Perché alla chitarra c’è Elliott Smith, anni prima che diventasse l’Elliott Smith che tutti conosciamo e (spero per voi) amiamo. Che poi si tratti sostanzialmente di tre pezzi di grunge-pop inutile poco conta. Gli Heatmiser daranno il meglio a fine corsa, con l’ottimo “Mic City Sons” (Caroline, 1996) e con l’affacciarsi del magico Elliott dalle parti del microfono. Sam Coomes formerà i Quasi, Tony Lash diventerà un produttore (Dandy Warhols, Death Cab For Cutie), Neil Gust formerà i No. 2 (un album su Chainsaw, chi ce l’ha?) e Elliott… beh Elliott…
28/12/02
132. Gang Of Four “Entertainment!” 1980. (cd nuovo, EMI, € 11.90).
Settembre 2002, meglio tardi che mai. Quante volte ho visto questo nome citato per descrivere la musica di gruppi a me cari? Perché non l’ho cercato prima? Di cosa avevo paura? C’è forse in me un timore innato di dovermi trovare ad ascoltare roba spessa?
Fatto sta che alla fine “Entertainment!” me lo sono comprato, e pure in edizione ampliata (tre brani in più) e a medio prezzo. Ed effettivamente è quella bomba di cui tutti hanno sempre detto. Il primo ascolto, soprattutto, è un susseguirsi di espresisoni di stupore e gioia. Un accavallarsi di brividi e nomi di gruppi odierni.
Gang Of Four scelse un nome pesante, ritmi danzabili, chitarre taglienti, testi impegnati con sarcasmo ed acume. Un suono che effettivamente farà scuola a 360° nei decenni a venire, in maniera a tratti clamorosa. In due parole: l’aggressività del punk ibridata con i ritmi neri del dub e del funk, spezzettati e ricuciti in maniera originalissima. Direte “Già sentito”. Certo, perché l’hanno fatto loro prima.
“Entertainment!” è un manifesto della musica ribelle di ogni tempo, nella forma e nella sostanza. È difficile e divertente, inquietante ed eccitante, e posso solo cercare di immaginare l’impatto destabilizzante che ebbe al tempo della sua uscita.
Lo avrebbe ancora oggi, figuratevi.
133. Bugo “Casalingo” 2002. (mcd nuovo, Universal, € 6.46).
“Casalingo” a questo punto dovreste conoscerla. È il singolo dell’anno o giù di lì.
Il remix firmato A034 la distrugge a dovere giocando con saturazioni noise e accelerazioni drum’n’bass impazzite. Ma il dischetto lo dovete comprare per altre due ragioni, entrambe non incluse su “Dal Lofai Al Cisei”, entrambe capaci di fermare i respiri quando il Bugo le suona dal vivo: “Una Pentola Al Fuoco Che Attende La Pioggia” è un ipotetico ed entusiasmante crossover Dylan/Guccini, con la struttura tipica della ballata folk ed un’armonica a punteggiare. “Ti Ho Vista” è cantautorato lo-fi rarefatto di oggi, notevole.
134. Ash “1977” 1996. (cd usato, Infectious, € 6.00).
Stare dietro ai fenomeni che settimanalmente la stampa inglese ci propina come salvatori del rock, del pop o delle nostre vite è compito arduo e fondamentalmente ingrato. Il sottoscritto c’è riuscito soltanto -come molti altri, immagino- durante e subito dopo più o meno brevi soggiorni in Gran Bretagna. Se sei lì, leggi e compri subito quello che trovi. E per le prime due settimane in Italia sei un gallo.
A me è l’ultima volta è successo con gli Ash (manco da un bel po’, vero?), dopo l’exploit congiunto Charlatans/Manic Street Preachers dei quali ancora conservo gelosamente i primi 12”. Proprio in quella primavera del 1996, durante due settimane come au pair in una famiglia del Cambridgeshire (due settimane? Sì, due settimane soltanto. Ha a che fare con la persona priva di senso dell’umorismo di cui si diceva tempo fa parlando dei Walkabouts), scoprii l’allora trio nordirlandese e accattai tutto il possibile nelle mie sporadiche puntate verso la vicina città di Peterborough. Di loro si parlava come giovani, drogati e sensazionali. Appurate come vere le prime due, ebbi da subito dei dubbi sulla terza definizione, ma il cd singolo di “Goldfinger” non era male, e la cover di “Get Ready” di Smokey Robinson era ben riuscita. Il pezzo che però mi conquistò stava su una cassettina allegata a “Sounds” o roba del genere (cassettina che tra l’altro vorrei ritrovare…), e si chiamava “Kung Fu”. Era pop-punk del migliore, e lo è tuttora.
Molta strada hanno fatto gli Ash da questo album d’esordio. Intanto, sono ancora qua, e non capita a tutti. Hanno il loro video su MTV, vivono da rockstar di secondo piano senza infamia né lode, fanno un disco ogni tanto e va bene così.
Manca la freschezza ancora rintracciabile su “1977”, ma già allora pericolosamente incline a farsi patinare e a rendere il punk-pop e le ballate grungiste dei tre di Belfast più “finto” di quanto avremmo voluto. Perché il songwriting, tranne qualche riempitivo (ma come ha fatto “Angel Interceptor” a diventare un singolo?) funziona: “Kung Fu” su tutte, ma anche “Girl From Mars”, “Goldfinger” e “Oh Yeah”.
Settembre 2002, meglio tardi che mai. Quante volte ho visto questo nome citato per descrivere la musica di gruppi a me cari? Perché non l’ho cercato prima? Di cosa avevo paura? C’è forse in me un timore innato di dovermi trovare ad ascoltare roba spessa?
Fatto sta che alla fine “Entertainment!” me lo sono comprato, e pure in edizione ampliata (tre brani in più) e a medio prezzo. Ed effettivamente è quella bomba di cui tutti hanno sempre detto. Il primo ascolto, soprattutto, è un susseguirsi di espresisoni di stupore e gioia. Un accavallarsi di brividi e nomi di gruppi odierni.
Gang Of Four scelse un nome pesante, ritmi danzabili, chitarre taglienti, testi impegnati con sarcasmo ed acume. Un suono che effettivamente farà scuola a 360° nei decenni a venire, in maniera a tratti clamorosa. In due parole: l’aggressività del punk ibridata con i ritmi neri del dub e del funk, spezzettati e ricuciti in maniera originalissima. Direte “Già sentito”. Certo, perché l’hanno fatto loro prima.
“Entertainment!” è un manifesto della musica ribelle di ogni tempo, nella forma e nella sostanza. È difficile e divertente, inquietante ed eccitante, e posso solo cercare di immaginare l’impatto destabilizzante che ebbe al tempo della sua uscita.
Lo avrebbe ancora oggi, figuratevi.
133. Bugo “Casalingo” 2002. (mcd nuovo, Universal, € 6.46).
“Casalingo” a questo punto dovreste conoscerla. È il singolo dell’anno o giù di lì.
Il remix firmato A034 la distrugge a dovere giocando con saturazioni noise e accelerazioni drum’n’bass impazzite. Ma il dischetto lo dovete comprare per altre due ragioni, entrambe non incluse su “Dal Lofai Al Cisei”, entrambe capaci di fermare i respiri quando il Bugo le suona dal vivo: “Una Pentola Al Fuoco Che Attende La Pioggia” è un ipotetico ed entusiasmante crossover Dylan/Guccini, con la struttura tipica della ballata folk ed un’armonica a punteggiare. “Ti Ho Vista” è cantautorato lo-fi rarefatto di oggi, notevole.
134. Ash “1977” 1996. (cd usato, Infectious, € 6.00).
Stare dietro ai fenomeni che settimanalmente la stampa inglese ci propina come salvatori del rock, del pop o delle nostre vite è compito arduo e fondamentalmente ingrato. Il sottoscritto c’è riuscito soltanto -come molti altri, immagino- durante e subito dopo più o meno brevi soggiorni in Gran Bretagna. Se sei lì, leggi e compri subito quello che trovi. E per le prime due settimane in Italia sei un gallo.
A me è l’ultima volta è successo con gli Ash (manco da un bel po’, vero?), dopo l’exploit congiunto Charlatans/Manic Street Preachers dei quali ancora conservo gelosamente i primi 12”. Proprio in quella primavera del 1996, durante due settimane come au pair in una famiglia del Cambridgeshire (due settimane? Sì, due settimane soltanto. Ha a che fare con la persona priva di senso dell’umorismo di cui si diceva tempo fa parlando dei Walkabouts), scoprii l’allora trio nordirlandese e accattai tutto il possibile nelle mie sporadiche puntate verso la vicina città di Peterborough. Di loro si parlava come giovani, drogati e sensazionali. Appurate come vere le prime due, ebbi da subito dei dubbi sulla terza definizione, ma il cd singolo di “Goldfinger” non era male, e la cover di “Get Ready” di Smokey Robinson era ben riuscita. Il pezzo che però mi conquistò stava su una cassettina allegata a “Sounds” o roba del genere (cassettina che tra l’altro vorrei ritrovare…), e si chiamava “Kung Fu”. Era pop-punk del migliore, e lo è tuttora.
Molta strada hanno fatto gli Ash da questo album d’esordio. Intanto, sono ancora qua, e non capita a tutti. Hanno il loro video su MTV, vivono da rockstar di secondo piano senza infamia né lode, fanno un disco ogni tanto e va bene così.
Manca la freschezza ancora rintracciabile su “1977”, ma già allora pericolosamente incline a farsi patinare e a rendere il punk-pop e le ballate grungiste dei tre di Belfast più “finto” di quanto avremmo voluto. Perché il songwriting, tranne qualche riempitivo (ma come ha fatto “Angel Interceptor” a diventare un singolo?) funziona: “Kung Fu” su tutte, ma anche “Girl From Mars”, “Goldfinger” e “Oh Yeah”.
131. Isaac Hayes “The Isaac Hayes Movement” 1970. (cd usato, Stax, € 5.00).
Avviso ai naviganti: questo non è l’Ike delle colonne sonore blaxploitation, del private dick John Shaft e dei wah-wah dappertutto. L’Isaac Hayes solista vero e proprio è un raffinato e sensuale crooner, che senza preoccupazioni commerciali (soltanto quattro pezzi molto lunghi qui, idem nel capolavoro gemello “Hot Buttered Soul”) getta le basi per molta della musica nera (e non solo) a venire.
Due i brani portanti: la toccante versione di “I Stand Accused” di Jerry Butler, undici minuti e trentasette di soul blues ora recitato e ora sostenuto da cori femminili, e la conclusiva splendida “Something”, la più celebre ballata firmata da George Harrison per i Beatles, dilatata a undici minuti e quarantacinque. In mezzo, le forme più pop di “One Big Unhappy Family” e del classico Bacharach “I Just Don’t Know What To Do With Myself”. Vocione da brividi, arrangiamenti perfetti.
Avviso ai naviganti: questo non è l’Ike delle colonne sonore blaxploitation, del private dick John Shaft e dei wah-wah dappertutto. L’Isaac Hayes solista vero e proprio è un raffinato e sensuale crooner, che senza preoccupazioni commerciali (soltanto quattro pezzi molto lunghi qui, idem nel capolavoro gemello “Hot Buttered Soul”) getta le basi per molta della musica nera (e non solo) a venire.
Due i brani portanti: la toccante versione di “I Stand Accused” di Jerry Butler, undici minuti e trentasette di soul blues ora recitato e ora sostenuto da cori femminili, e la conclusiva splendida “Something”, la più celebre ballata firmata da George Harrison per i Beatles, dilatata a undici minuti e quarantacinque. In mezzo, le forme più pop di “One Big Unhappy Family” e del classico Bacharach “I Just Don’t Know What To Do With Myself”. Vocione da brividi, arrangiamenti perfetti.
27/12/02
130. The Temptations “Cloud Nine”/”Puzzle People” 1969/1969. (cd usato, Tamla Motown, € 6.00).
Già magnificati a dovere qualche mese fa (vedi archivio di settembre) per una esaustiva ed economicissima raccolta ed un intero album originale, ecco di nuovo i Temptations con quello che della loro produzione funk è forse l’album simbolo. “Cloud Nine” è puro godimento, con armonie vocali appunto da settimo cielo e il duo compositivo Whitfield/Strong a vergare gemme assolute quali la title-track o “Runaway Child, Running Wild”. La cover di “I Heard It Through The Grapevine” non è all’altezza di quella memorabile dei Creedence, ma è sempre un piacere da ascoltare.
Più sottovalutato, ma impostato sullo stesso canovaccio (funk potente alternato a soul), il seguente “Puzzle People”. Sono forse “I Can’t Get Next To You”, “Don’t Let The Joneses Get You Down” e i sei minuti di “Message From A Black Man” da meno? E i sette di “Slave” allora? Ecco da dove viene la memorabile versione che ne realizzò Derrick Harriott in Jamaica, cristo, uno dei miei pezzi preferiti! Pensavo fosse farina del sacco di Harriott -che peraltro la sottopone ad un trattamento dub-dance tribale da antologia- e invece risale ai Temptations… avrei potuto immaginarlo.
Due grandi album insomma. Su un solo cd, edito nel 1986, purtroppo privo di note se non quelle essenziali.
Già magnificati a dovere qualche mese fa (vedi archivio di settembre) per una esaustiva ed economicissima raccolta ed un intero album originale, ecco di nuovo i Temptations con quello che della loro produzione funk è forse l’album simbolo. “Cloud Nine” è puro godimento, con armonie vocali appunto da settimo cielo e il duo compositivo Whitfield/Strong a vergare gemme assolute quali la title-track o “Runaway Child, Running Wild”. La cover di “I Heard It Through The Grapevine” non è all’altezza di quella memorabile dei Creedence, ma è sempre un piacere da ascoltare.
Più sottovalutato, ma impostato sullo stesso canovaccio (funk potente alternato a soul), il seguente “Puzzle People”. Sono forse “I Can’t Get Next To You”, “Don’t Let The Joneses Get You Down” e i sei minuti di “Message From A Black Man” da meno? E i sette di “Slave” allora? Ecco da dove viene la memorabile versione che ne realizzò Derrick Harriott in Jamaica, cristo, uno dei miei pezzi preferiti! Pensavo fosse farina del sacco di Harriott -che peraltro la sottopone ad un trattamento dub-dance tribale da antologia- e invece risale ai Temptations… avrei potuto immaginarlo.
Due grandi album insomma. Su un solo cd, edito nel 1986, purtroppo privo di note se non quelle essenziali.
129. Damien Jurado “Four Songs” 2002. (12” nuovo, Burnt Toast Vinyl, € 8.00).
Per me, fondamentalista cristiano o meno, Damien Jurado sarà sempre la firma sotto il meraviglioso “Rehearsals For Departure” (Sub Pop, 1999): canzoni come “Letters And Drawings”, “Ohio”, “Tornado”, “Love The Same” e “Honey Baby” fanno ormai parte del mio corredo genetico, ed il solo nominarle provoca in me un certo struggimento. Già è bello leggere una recensione del disco e di un concerto del suo autore, uscire con la ferma determinazione di comprarlo usato ed effettivamente trovarlo usato. Se poi il disco è bello pure lui, allora è il massimo. Se poi lo si ascolta in cuffia seduti su un Greyhound che ci riporta a casa (scusate la banalità, ma davvero così è successo), allora è davvero un cerchio che si chiude. Ecco, se quello di quella mattina sull’autobus che da Richmond andava a Baltimore fosse stato l’unico mio ascolto di “Rehearsals For Departure”, mi ricorderei tutte le canzoni ugualmente. E se anche quell’album fosse la sua unica testimonianza, Damien Jurado starebbe ugualmente ai primi posti tra i miei cantautori del cuore.
Registrate nelle stesse sessions dell’ultimo “I Break Chaits”, queste “Four Songs” vedono la luce in curiosa veste vinilica. Da un lato la musica. Dall’altro, incise sul vinile, una illustrazione di Jeremy Dybash ed una storia breve di Adam Voith.
La musica, dicevamo. “Spitting Teeth” e “How I Broke My Legs” (allegria!) sono tutte e due interamente acustiche, la voce così particolare e fragile di Damien in primissimo piano. “The Killer” aumenta il ritmo ed aggiunge una band alla tipica melodia alla Jurado, quindi malinconica e forte. “Flowers In the Yard” chiude nuovamente soffusa, fino al solco incantato finale.
Non fondamentale, ma se amate Damien dovete sbattervi per cercarlo.
Per me, fondamentalista cristiano o meno, Damien Jurado sarà sempre la firma sotto il meraviglioso “Rehearsals For Departure” (Sub Pop, 1999): canzoni come “Letters And Drawings”, “Ohio”, “Tornado”, “Love The Same” e “Honey Baby” fanno ormai parte del mio corredo genetico, ed il solo nominarle provoca in me un certo struggimento. Già è bello leggere una recensione del disco e di un concerto del suo autore, uscire con la ferma determinazione di comprarlo usato ed effettivamente trovarlo usato. Se poi il disco è bello pure lui, allora è il massimo. Se poi lo si ascolta in cuffia seduti su un Greyhound che ci riporta a casa (scusate la banalità, ma davvero così è successo), allora è davvero un cerchio che si chiude. Ecco, se quello di quella mattina sull’autobus che da Richmond andava a Baltimore fosse stato l’unico mio ascolto di “Rehearsals For Departure”, mi ricorderei tutte le canzoni ugualmente. E se anche quell’album fosse la sua unica testimonianza, Damien Jurado starebbe ugualmente ai primi posti tra i miei cantautori del cuore.
Registrate nelle stesse sessions dell’ultimo “I Break Chaits”, queste “Four Songs” vedono la luce in curiosa veste vinilica. Da un lato la musica. Dall’altro, incise sul vinile, una illustrazione di Jeremy Dybash ed una storia breve di Adam Voith.
La musica, dicevamo. “Spitting Teeth” e “How I Broke My Legs” (allegria!) sono tutte e due interamente acustiche, la voce così particolare e fragile di Damien in primissimo piano. “The Killer” aumenta il ritmo ed aggiunge una band alla tipica melodia alla Jurado, quindi malinconica e forte. “Flowers In the Yard” chiude nuovamente soffusa, fino al solco incantato finale.
Non fondamentale, ma se amate Damien dovete sbattervi per cercarlo.
128. Charles Wright And The Watts 103rd Street Rhythm Band “Express Yourself: The Best Of” 1993. (cd usato, Warner, € 10.00).
”Come band che seppe trovare un terreno comune tra Otis Redding e James Brown -e forse bisognerebbe aggiungere anche Sly And The Family Stone- Wright e soci sono stati una delle più importanti ed influenti band del loro tempo”.
Basterebbe l’incipit delle note di retro copertina, confermato non appena il disco parte: il soul dei ’60 cede gradualmente il passo al funk duro dei ’70 nel suono di questi otto losangeleni, che della loro terra riportarono fedelmente la languida vibrazione festaiola in una manciata di album usciti a cavallo dei due decenni.
Il brano che intitola la raccolta fu ripreso dagli NWA pari pari, le seguenti “Till You Get Enough” e “The Joker (On A Trip Thru The Jungle)” puzzano di Meters e di New Orleans, così come la minimale e incalzante “Do Your Thing” e la torrida e visionaria “Ninety Day Cycle People”. E via di seguito.
Ma non fa fatica ad emergere un’anima soul-pop degna della grande scuola Stax, ed una confidenza sorprendente nei musicisti impegnati. Gran parte dei pezzi nasce infatti da lunghe jam sessions di studio, o da altrettanto lunghe versioni live di brani già compiuti. Il feeling è quello inimitabile di un periodo fertilissimo e di una comunità, egualmente a suo agio con temi pacifisti di stampo hippie e consapevolezza nera (l’area di Watts, per chi non lo sapesse, fu teatro nel 1965 di violenti scontri causati dall’intervento brutale di alcuni poliziotti in un quartiere afroamericano), ma anche party interminabili e sensualità a go-go.
La raccolta è definitiva, comprende tre inediti e un booklet esauriente ed è consigliatissima.
”Come band che seppe trovare un terreno comune tra Otis Redding e James Brown -e forse bisognerebbe aggiungere anche Sly And The Family Stone- Wright e soci sono stati una delle più importanti ed influenti band del loro tempo”.
Basterebbe l’incipit delle note di retro copertina, confermato non appena il disco parte: il soul dei ’60 cede gradualmente il passo al funk duro dei ’70 nel suono di questi otto losangeleni, che della loro terra riportarono fedelmente la languida vibrazione festaiola in una manciata di album usciti a cavallo dei due decenni.
Il brano che intitola la raccolta fu ripreso dagli NWA pari pari, le seguenti “Till You Get Enough” e “The Joker (On A Trip Thru The Jungle)” puzzano di Meters e di New Orleans, così come la minimale e incalzante “Do Your Thing” e la torrida e visionaria “Ninety Day Cycle People”. E via di seguito.
Ma non fa fatica ad emergere un’anima soul-pop degna della grande scuola Stax, ed una confidenza sorprendente nei musicisti impegnati. Gran parte dei pezzi nasce infatti da lunghe jam sessions di studio, o da altrettanto lunghe versioni live di brani già compiuti. Il feeling è quello inimitabile di un periodo fertilissimo e di una comunità, egualmente a suo agio con temi pacifisti di stampo hippie e consapevolezza nera (l’area di Watts, per chi non lo sapesse, fu teatro nel 1965 di violenti scontri causati dall’intervento brutale di alcuni poliziotti in un quartiere afroamericano), ma anche party interminabili e sensualità a go-go.
La raccolta è definitiva, comprende tre inediti e un booklet esauriente ed è consigliatissima.
23/12/02
20/12/02
127. Jacob Miller “With The Inner Circle Band & Augustus Pablo” 1992. (cd usato, Lagoon, € 10.00).
Eccola qua: l’esempio principe della ristampa reggae come non va fatta (l’hanno fatta dei francesi, sarà un caso?). La copertina è bella, bisogna ammetterlo. Jacob ha un trippone che sembra me, ma la copertina è bella. Già dal retro, però, le cose cambiano. Squallido e senza nessun progetto grafico. Nel 1992 per la Lagoon contava la musica, certo (e il loro catalgo parla chiaro). Conta ancora oggi ed è grande musica. Ma prima sembra venire l’improvvisazione: proprio perché la musica conta così tanto, diamole il giusto risalto e mettiamola in condizione di rendere al massimo. O no?
Le note interne sono scandalose per approssimazione e fretta. E forse pure inesatte: potrei sbagliarmi, ma Jacob Miller e gli Inner Circle su Trojan all’inizio dei ’70 con violini e steel guitars a fare cover Motown proprio non mi risultano. Tanto più se subito dopo mi dici che i brani della presente raccolta sono tratti da quel periodo, ma di violini, steel guitars e cover Motown non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono però grandi interpretazioni di classici di Bob Marley, Junior Byles, Dennis Brown e Johnny Clarke, ci sono successi dello stesso Miller e dub del sommo Pablo (sotto l’egida del quale jacob ha detto le sue cose migliori nell’album “Who Say Jah No Dread”).
Per chi non conoscesse il personaggio, sappiate che a metà settanta rivaleggiava con Bob Marley in quanto a popolarità sull’isola, e che la sua voce è un marchio di fabbrica. Come recita il titolo di un altro suo grande album, Killer Miller!
Eccola qua: l’esempio principe della ristampa reggae come non va fatta (l’hanno fatta dei francesi, sarà un caso?). La copertina è bella, bisogna ammetterlo. Jacob ha un trippone che sembra me, ma la copertina è bella. Già dal retro, però, le cose cambiano. Squallido e senza nessun progetto grafico. Nel 1992 per la Lagoon contava la musica, certo (e il loro catalgo parla chiaro). Conta ancora oggi ed è grande musica. Ma prima sembra venire l’improvvisazione: proprio perché la musica conta così tanto, diamole il giusto risalto e mettiamola in condizione di rendere al massimo. O no?
Le note interne sono scandalose per approssimazione e fretta. E forse pure inesatte: potrei sbagliarmi, ma Jacob Miller e gli Inner Circle su Trojan all’inizio dei ’70 con violini e steel guitars a fare cover Motown proprio non mi risultano. Tanto più se subito dopo mi dici che i brani della presente raccolta sono tratti da quel periodo, ma di violini, steel guitars e cover Motown non c’è nemmeno l’ombra. Ci sono però grandi interpretazioni di classici di Bob Marley, Junior Byles, Dennis Brown e Johnny Clarke, ci sono successi dello stesso Miller e dub del sommo Pablo (sotto l’egida del quale jacob ha detto le sue cose migliori nell’album “Who Say Jah No Dread”).
Per chi non conoscesse il personaggio, sappiate che a metà settanta rivaleggiava con Bob Marley in quanto a popolarità sull’isola, e che la sua voce è un marchio di fabbrica. Come recita il titolo di un altro suo grande album, Killer Miller!
Non esattamente la colonna sonora ideale per una rissa tra pusher a colpi di bottiglie rotte proprio qua sotto la mia finestra, nè dal punto di vista della musica nè da quello del titolo. L'opposto della purezza che questo disco emana.
126. David Axelrod “Song Of Innocence” 1968. (cd usato, EMI, € 9.00).
Dopo essermi esaltato per il suo omonimo ritorno sulle scene dell’anno scorso (vedi archivio di luglio), patrocinato da DJ Shadow, scovo uno degli album che del losangeleno dai capelli bianchi hanno contribuito a creare la leggenda. E a ragione, direi.
Ispirato al lavoro del poeta William Blake, “Song Of Innocence” è il primo album a lui intestato dopo gli exploit come produttore e arrangiatore (Cannonball Adderley, Lou Rawls, Electric Prunes). Solo ventisette minuti e poco più, ma perché la scarsa durata deve essere un limite per un disco così bello? Prendete l’iniziale “Urizen”, che si sviluppa su una classica orchestrazione solare e perfetta tipicamente Axelrod e nel bel mezzo tira fuori un groove potentissimo degno del migliore Herbie Hancock e poi ritorna al tema iniziale tra strati di archi cinematicissimi. E il resto continua su questo tenore. Che uomo.
126. David Axelrod “Song Of Innocence” 1968. (cd usato, EMI, € 9.00).
Dopo essermi esaltato per il suo omonimo ritorno sulle scene dell’anno scorso (vedi archivio di luglio), patrocinato da DJ Shadow, scovo uno degli album che del losangeleno dai capelli bianchi hanno contribuito a creare la leggenda. E a ragione, direi.
Ispirato al lavoro del poeta William Blake, “Song Of Innocence” è il primo album a lui intestato dopo gli exploit come produttore e arrangiatore (Cannonball Adderley, Lou Rawls, Electric Prunes). Solo ventisette minuti e poco più, ma perché la scarsa durata deve essere un limite per un disco così bello? Prendete l’iniziale “Urizen”, che si sviluppa su una classica orchestrazione solare e perfetta tipicamente Axelrod e nel bel mezzo tira fuori un groove potentissimo degno del migliore Herbie Hancock e poi ritorna al tema iniziale tra strati di archi cinematicissimi. E il resto continua su questo tenore. Che uomo.
17/12/02
123. Wire “154” 1979. (cd nuovo, Emi/Harvest, €11.83).
Attenzione attenzione, eresia in arrivo: a me questo terzo album dei Wire non è mica piaciuto. Dirò di più: stavo per toglierlo dal lettore prima della fine (e effettivamene lo ho fatto, ma perché dovevo uscire). “Pink Flag” mi è piaciuto, “Chairs Missing” pure, ma questo proprio no. Facciamo così, lo riascolto con più calma e ne riparliamo nel 2003, ok?
124. Detroit Cobras “Life, Love And Leaving“ 2001. (cd nuovo, Sympathy For The Record Industry, € 20.00).
Vi sono piaciuti (come logica vorrebbe se non siete dei cadaveri) Come Ons, Now Time Delegation e Bellrays? Bene, i Detroit Cobras completeranno il vostro poker. Suonano solo cover, ma non sono una cover-band. Banalità? Ascoltateli, e vi pentirete di averlo pensato anche solo per un istante. I Detroit Cobras sono grandi.
Suonano standard più o meno popolari di rhytm’n’blues, soul e rock’n’roll rivisti con una carica ed una sincerità commoventi. Rachel Nagy canta divinamente ed umanamente, mentre dietro di lei il resto di Cobra girano a mille tra slow vibranti ed assalti di energia pura. Non serve dire altro, se non ancora grazie Blatter.
125. Panthers “Are You Down??” 2002. (lp nuovo, Troubleman Unlimited, € 11.00).
Potrebbe essere un capolavoro che illumina la via verso il futuro, come potrebbe avere ragione Pitchfork. Ci ho provato, e temo di dover propendere per la seconda ipotesi. Forse un concerto dei Panthers potrebbe essere la rivoluzione fatta party. Il disco no. Nulla da aggiungere. Ah, sì: è in vendita.
Attenzione attenzione, eresia in arrivo: a me questo terzo album dei Wire non è mica piaciuto. Dirò di più: stavo per toglierlo dal lettore prima della fine (e effettivamene lo ho fatto, ma perché dovevo uscire). “Pink Flag” mi è piaciuto, “Chairs Missing” pure, ma questo proprio no. Facciamo così, lo riascolto con più calma e ne riparliamo nel 2003, ok?
124. Detroit Cobras “Life, Love And Leaving“ 2001. (cd nuovo, Sympathy For The Record Industry, € 20.00).
Vi sono piaciuti (come logica vorrebbe se non siete dei cadaveri) Come Ons, Now Time Delegation e Bellrays? Bene, i Detroit Cobras completeranno il vostro poker. Suonano solo cover, ma non sono una cover-band. Banalità? Ascoltateli, e vi pentirete di averlo pensato anche solo per un istante. I Detroit Cobras sono grandi.
Suonano standard più o meno popolari di rhytm’n’blues, soul e rock’n’roll rivisti con una carica ed una sincerità commoventi. Rachel Nagy canta divinamente ed umanamente, mentre dietro di lei il resto di Cobra girano a mille tra slow vibranti ed assalti di energia pura. Non serve dire altro, se non ancora grazie Blatter.
125. Panthers “Are You Down??” 2002. (lp nuovo, Troubleman Unlimited, € 11.00).
Potrebbe essere un capolavoro che illumina la via verso il futuro, come potrebbe avere ragione Pitchfork. Ci ho provato, e temo di dover propendere per la seconda ipotesi. Forse un concerto dei Panthers potrebbe essere la rivoluzione fatta party. Il disco no. Nulla da aggiungere. Ah, sì: è in vendita.
15/12/02
122. The Walkabouts “Rag & Bone/Cataract” 1989. (cd nuovo, Glitterhouse, €14.93).
Immaginatevi l’epoca: Sub Pop sfonda in tutto il mondo grazie a quello che verrà chiamato grunge e a gruppi di capelloni indemoniati come Nirvana, Mudhoney, Tad. Ma nel catalogo della più celebre etichetta di seattle spunta un quintetto che a molti sembra fuori posto: sembrano quasi dei fricchettoni. Non degli hippies, proprio dei fricchettoni moderni di ambientazione campagnola, uno con i dreadlocks, una con il vestitone largo, potrebbero essere clienti del negozio dove lavoro, gente ammirevole che si fa il pane in casa, che compra il riso integrale in sacchi da 25 kili. Gente pacifica e serena, altro che Mark Arm.
Con gli sturmenti in mano, incantano. Immaginate il folk-rock dei Fairport Convention trasfigurato da un approccio rock indipendente, quasi punk, con strumenti elettrici ed acustici che creano insieme atmosfere assolutamente ammalianti ed evocative, alimentate da un’inquietudine sotterranea e guidate dalle voci ormai caposcuola di Carla Torgerson e Chris Eckman.
“Cataract”, secondo album, è il loro debutto su Sub Pop, ed è un colpo al cuore. Erano anni che non lo riascoltavo, e cristo se me le sono cantate tutte. Una più bella dell’altra. “Rag & Bone” è il mini lp che seguì di pochi mesi, sei pezzi altrettanto belli.
Entrambi stanno su questo cd. Sono i primi Walkabouts, quelli che regaleranno altri gioielli con i seguenti “Scavenger”, “New West Motel” e “Setting The Woods On Fire”, prima di pacificarsi e cercare nuove strade. Sono un gruppo eccezionale al massimo della loro forma.
Non vi basta? Sappiate che ai Walkabouts di questi dischi, e in particolare ad un loro ipotetico ascolto in auto guidando con i finestrini aperti nelle notti estive della pedemontana, chi scrive ha persino dedicato un paio di righe in una di quelle… ehm… poesie… che a una certa età tutti scrivono per un motivo o per l’altro. Nel mio caso, per una persona poi rivelatasi pressochè priva di senso dell’umorismo. Ditemi voi se c’è di peggio. Comprate questo disco.
Immaginatevi l’epoca: Sub Pop sfonda in tutto il mondo grazie a quello che verrà chiamato grunge e a gruppi di capelloni indemoniati come Nirvana, Mudhoney, Tad. Ma nel catalogo della più celebre etichetta di seattle spunta un quintetto che a molti sembra fuori posto: sembrano quasi dei fricchettoni. Non degli hippies, proprio dei fricchettoni moderni di ambientazione campagnola, uno con i dreadlocks, una con il vestitone largo, potrebbero essere clienti del negozio dove lavoro, gente ammirevole che si fa il pane in casa, che compra il riso integrale in sacchi da 25 kili. Gente pacifica e serena, altro che Mark Arm.
Con gli sturmenti in mano, incantano. Immaginate il folk-rock dei Fairport Convention trasfigurato da un approccio rock indipendente, quasi punk, con strumenti elettrici ed acustici che creano insieme atmosfere assolutamente ammalianti ed evocative, alimentate da un’inquietudine sotterranea e guidate dalle voci ormai caposcuola di Carla Torgerson e Chris Eckman.
“Cataract”, secondo album, è il loro debutto su Sub Pop, ed è un colpo al cuore. Erano anni che non lo riascoltavo, e cristo se me le sono cantate tutte. Una più bella dell’altra. “Rag & Bone” è il mini lp che seguì di pochi mesi, sei pezzi altrettanto belli.
Entrambi stanno su questo cd. Sono i primi Walkabouts, quelli che regaleranno altri gioielli con i seguenti “Scavenger”, “New West Motel” e “Setting The Woods On Fire”, prima di pacificarsi e cercare nuove strade. Sono un gruppo eccezionale al massimo della loro forma.
Non vi basta? Sappiate che ai Walkabouts di questi dischi, e in particolare ad un loro ipotetico ascolto in auto guidando con i finestrini aperti nelle notti estive della pedemontana, chi scrive ha persino dedicato un paio di righe in una di quelle… ehm… poesie… che a una certa età tutti scrivono per un motivo o per l’altro. Nel mio caso, per una persona poi rivelatasi pressochè priva di senso dell’umorismo. Ditemi voi se c’è di peggio. Comprate questo disco.
121. Stiff Little Fingers “Nobody’s Heroes” 1980. (cd nuovo, EMI, € 10.78).
Venire dopo “Inflammable Material” (vedi archivio di luglio) è compito ingrato. Ma gli Stiff Little Fingers riescono a cavarsela con un album che del suo illustrissimo predecessore può essere considerato la versione più abbordabile e matura.
Mancano infatti l’effetto sorpresa, la rabbia che straborda da ogni solco, la spontaneità incoercibile e sgraziata di “Inflammable Material”, e non è certo cosa da poco. Ma non tutto il male viene per nuocere: il suono è infatti più pieno e focalizzato, e la penna dei quattro ha ancora in serbo un bel po’ di classici solo leggermente più melodici dei precedenti. “At The Edge” è il loro singolo più famoso (roba da classifica e “Top Of The Pops”), ma tutto il primo lato viaggia che è un piacere, e sotto certi aspetti pone le basi per il pop-punk da venire: “Gotta Getaway”, “Wait And See”, “Fly The Flag” e la title-track sono inni che anche dal vivo trascinano le folle.
Comincia all’insegna dei ritmi jamaicani il lato b, con la strumentale “Bloody Dub” (versione appunto dub di una b-side) e l’altra celebre cover dei quattro di Belfast. Dopo Bob Marley e “Johnny Was” sul primo album, ecco i contemporanei Specials e “Doesn’t Make It Alright”. Meraviglia. “I Don’t Like You” e “No Change” (scritta e cantata dal chitarrista Henry Cluney) aggiungono poco, “Tin Soldiers” chiude epica.
Anche in questa ristampa, un po’ di inediti: “Bloody Sunday” innanzitutto, la b-side di cui sopra. “Straw Dogs”, il primo singolo consegnato per onorare il nuovo contratto major, roba pensata invendibile e invece finita al numero 44 delle classifiche. “You Can’t Say Crap On The Radio”, polemica come il titolo lascia intendere. Infine, la seconda parte dell’intervista a Jake Burns cominciata nella ristampa di “Inflammable Material”.
Venire dopo “Inflammable Material” (vedi archivio di luglio) è compito ingrato. Ma gli Stiff Little Fingers riescono a cavarsela con un album che del suo illustrissimo predecessore può essere considerato la versione più abbordabile e matura.
Mancano infatti l’effetto sorpresa, la rabbia che straborda da ogni solco, la spontaneità incoercibile e sgraziata di “Inflammable Material”, e non è certo cosa da poco. Ma non tutto il male viene per nuocere: il suono è infatti più pieno e focalizzato, e la penna dei quattro ha ancora in serbo un bel po’ di classici solo leggermente più melodici dei precedenti. “At The Edge” è il loro singolo più famoso (roba da classifica e “Top Of The Pops”), ma tutto il primo lato viaggia che è un piacere, e sotto certi aspetti pone le basi per il pop-punk da venire: “Gotta Getaway”, “Wait And See”, “Fly The Flag” e la title-track sono inni che anche dal vivo trascinano le folle.
Comincia all’insegna dei ritmi jamaicani il lato b, con la strumentale “Bloody Dub” (versione appunto dub di una b-side) e l’altra celebre cover dei quattro di Belfast. Dopo Bob Marley e “Johnny Was” sul primo album, ecco i contemporanei Specials e “Doesn’t Make It Alright”. Meraviglia. “I Don’t Like You” e “No Change” (scritta e cantata dal chitarrista Henry Cluney) aggiungono poco, “Tin Soldiers” chiude epica.
Anche in questa ristampa, un po’ di inediti: “Bloody Sunday” innanzitutto, la b-side di cui sopra. “Straw Dogs”, il primo singolo consegnato per onorare il nuovo contratto major, roba pensata invendibile e invece finita al numero 44 delle classifiche. “You Can’t Say Crap On The Radio”, polemica come il titolo lascia intendere. Infine, la seconda parte dell’intervista a Jake Burns cominciata nella ristampa di “Inflammable Material”.
120. VV.AA. “Voodoo Soul – Deep & Dirty New Orleans Funk” 2001. (cd nuovo, Union Square, 8.73).
Ha un suono unico, la musica prodotta a New Orleans. Un’unicità che ha radici nella particolare storia della città, nella sua multietnicità e più direttamente nelle parate funebri che nelle sue vie si svolgevano e (immagino) si svolgono. Un’unicità esplicita negli schemi percussivi dei batteristi: non sono un batterista e non ve lo saprei spiegare in nessun modo, ma è così.
Raccolta fondamentale per la conoscenza della materia è sicuramente “New Orleans Funk” della Soul Jazz (c’è anche un seguito, “Saturday Night Fish Fry”. Chi lo avesse è pregato di mettersi in contatto con il sottoscritto): confezione curatissima e musica sopraffina a cura di Meters, fratelli Neville vari, Allen Toussaint, Dr. John, Eddie Bo, Robert Parker, Lee Dorsey e via così.
Questa compilation economica della già lodata Union Square non ha, per evidenti motivi di budget, la lussuosa presentazione tipica della Soul Jazz, e anche le note sono per forza di cose un po’ stringate, ma è molto ben fatta ugualmente. E la musica, quella sta ai livelli di sempre.
Aprono i Meters, vera band di casa, maestri indiscussi del funk più scarnificato ed originale, influenza tuttora riscontrabile qua e là e alle radici persino dell’evoluzione del reggae/dub. La loro “Cissy Strut” è storia, e basta. “Here Comes The Metermen” e “Ease Back” sono meno celebri, ma il sound è sempre quello.
Per “Everything I Do Gohn Be Funky” di Lee Dorsey basterebbe il titolo, o quella citazione/tributo dei Beastie Boys in un loro testo. Poggia su un groove di chitarra acustica ed è memorabile. Robert Parker scrive una delle sue pagine più funk con “Get Ta Steppin’”, mentre Allen Toussaint presta il suo tipico stile pianistico a “Louie” e Eddie Bo dal canto suo chiude con “We’re Doing It (Thang)” all’insegna del sudore.
Ma al solito, anche i meno noti dicono la loro: “Fairchild” di Willie West è puro Meters-sound ridotto all’osso e interpretato con splendida verve soul; Skip Easterling offre una lettura personale del classico “I’m Your Hoochie Coochie Man”; “Brother Man, Sister Ann” di Clemon Smith, “Sissy Walk” di Sonny Jones e “Soul Junction” dei Backyard Heavies sono puro rare groove da manuale del funk.
Altrettanto al solito, le signorine dicono la loro altrettanto chiaramente: Betty Harris in “Ride Your Pony” e la scatenata Inez Cheatham spalleggiata da Eddie Bo in “A Lover & A Friend” valgono da sole l’acquisto. Ora, trovatemi l’album di Mary Jane Hooper, per dio!
Ha un suono unico, la musica prodotta a New Orleans. Un’unicità che ha radici nella particolare storia della città, nella sua multietnicità e più direttamente nelle parate funebri che nelle sue vie si svolgevano e (immagino) si svolgono. Un’unicità esplicita negli schemi percussivi dei batteristi: non sono un batterista e non ve lo saprei spiegare in nessun modo, ma è così.
Raccolta fondamentale per la conoscenza della materia è sicuramente “New Orleans Funk” della Soul Jazz (c’è anche un seguito, “Saturday Night Fish Fry”. Chi lo avesse è pregato di mettersi in contatto con il sottoscritto): confezione curatissima e musica sopraffina a cura di Meters, fratelli Neville vari, Allen Toussaint, Dr. John, Eddie Bo, Robert Parker, Lee Dorsey e via così.
Questa compilation economica della già lodata Union Square non ha, per evidenti motivi di budget, la lussuosa presentazione tipica della Soul Jazz, e anche le note sono per forza di cose un po’ stringate, ma è molto ben fatta ugualmente. E la musica, quella sta ai livelli di sempre.
Aprono i Meters, vera band di casa, maestri indiscussi del funk più scarnificato ed originale, influenza tuttora riscontrabile qua e là e alle radici persino dell’evoluzione del reggae/dub. La loro “Cissy Strut” è storia, e basta. “Here Comes The Metermen” e “Ease Back” sono meno celebri, ma il sound è sempre quello.
Per “Everything I Do Gohn Be Funky” di Lee Dorsey basterebbe il titolo, o quella citazione/tributo dei Beastie Boys in un loro testo. Poggia su un groove di chitarra acustica ed è memorabile. Robert Parker scrive una delle sue pagine più funk con “Get Ta Steppin’”, mentre Allen Toussaint presta il suo tipico stile pianistico a “Louie” e Eddie Bo dal canto suo chiude con “We’re Doing It (Thang)” all’insegna del sudore.
Ma al solito, anche i meno noti dicono la loro: “Fairchild” di Willie West è puro Meters-sound ridotto all’osso e interpretato con splendida verve soul; Skip Easterling offre una lettura personale del classico “I’m Your Hoochie Coochie Man”; “Brother Man, Sister Ann” di Clemon Smith, “Sissy Walk” di Sonny Jones e “Soul Junction” dei Backyard Heavies sono puro rare groove da manuale del funk.
Altrettanto al solito, le signorine dicono la loro altrettanto chiaramente: Betty Harris in “Ride Your Pony” e la scatenata Inez Cheatham spalleggiata da Eddie Bo in “A Lover & A Friend” valgono da sole l’acquisto. Ora, trovatemi l’album di Mary Jane Hooper, per dio!
04/12/02
119. Creedence Clearwater Revival “Cosmo’s Factory” 1970. (cd nuovo, Fantasy, € 8.73).
La copertina più brutta della storia del rock, dischi brutti esclusi. Accetto altre nominations, ma sappiate che è dura: date un’occhiata qua, anche se piccola rende l’idea. Ma c’è un pezzo, in questo disco, che lo rende da solo memorabile, perché il pezzo in sé è memorabile. La madre di tutte le cover.
Se “I Heard It Through The Grapevine” era un capolavoro nelle mani di Marvin Gaye, in quelle di John Fogerty è pura dinamite. Stirata fino a durare undici minuti, attraversata da folate chitarristiche ma sempre capace di tornare all’andamento controllato della strofa e del suo immortale riff, mentre la sezione ritmica continua imperterrita a scandire il tempo. Da brividi.
Se poi aggiungete i sette minuti in apertura di “Ramble Tamble” con quel break centrale semplicemente geniale, il classico voodoo “Run Through The Jungle”, l’ulteriore omaggio alla leggenda del rock’n’roll (“Before You Accuse Me” di Bo Diddley e “My Baby Left Me” di Arthur Crudup), le ballata a sei stelle “Who’ll Stop The Rain” e “Long As I Can See The Light” e “Travelin’ Band” tanto per gradire, beh, capirete di essere di fronte all’ennesimo exploit di una band capace di pubblicare in due anni quattro capolavori e un quinto album non all’altezza ma comunque valido. In due anni!!!
C’è qualcosa di rassicurante, nonostante le tematiche spesso scure, nei Creedence Clearwater Revival. Qualcosa che mi ha definitivamente rapito.
La copertina più brutta della storia del rock, dischi brutti esclusi. Accetto altre nominations, ma sappiate che è dura: date un’occhiata qua, anche se piccola rende l’idea. Ma c’è un pezzo, in questo disco, che lo rende da solo memorabile, perché il pezzo in sé è memorabile. La madre di tutte le cover.
Se “I Heard It Through The Grapevine” era un capolavoro nelle mani di Marvin Gaye, in quelle di John Fogerty è pura dinamite. Stirata fino a durare undici minuti, attraversata da folate chitarristiche ma sempre capace di tornare all’andamento controllato della strofa e del suo immortale riff, mentre la sezione ritmica continua imperterrita a scandire il tempo. Da brividi.
Se poi aggiungete i sette minuti in apertura di “Ramble Tamble” con quel break centrale semplicemente geniale, il classico voodoo “Run Through The Jungle”, l’ulteriore omaggio alla leggenda del rock’n’roll (“Before You Accuse Me” di Bo Diddley e “My Baby Left Me” di Arthur Crudup), le ballata a sei stelle “Who’ll Stop The Rain” e “Long As I Can See The Light” e “Travelin’ Band” tanto per gradire, beh, capirete di essere di fronte all’ennesimo exploit di una band capace di pubblicare in due anni quattro capolavori e un quinto album non all’altezza ma comunque valido. In due anni!!!
C’è qualcosa di rassicurante, nonostante le tematiche spesso scure, nei Creedence Clearwater Revival. Qualcosa che mi ha definitivamente rapito.
117. Delroy Wilson “Cool Operator” 1996. (cd nuovo, Music Club, € 8.73).
Citato insieme ad altri suoi pari in quel memorabile tributo che è “White Man In Hammersmith Palais” dei Clash, il cool operator Delroy Wilson è uno di quelli che hanno raccolto meno di quello che meritavano, prima di morire prematuramente nel 1995, a soli 46 anni, per alcolismo.
Bambino prodigio dello ska e del rocksteady sotto l’ala protettiva di Coxsone Dodd e della sua Studio One, fa comunella in tempi di reggae con Bunny Lee e sforna pietre miliari del calibro di “Better Must Come”, suo brano più celebre adottato come inno per la campagna elettorale del 1971 dal PNP di Michael Manley.
Da entrambi i periodi arrivano le chicche che rendono questa antologia a medio prezzo un ottimo punto di partenza: “Dancing Mood”, “Riding For A Fall”, “Trying To Conquer Me”, “Rain From The Skies” dal primo; “I’m Still Waiting”, “Here Comes The Heartaches”, la citata “Better Must Come e, appunto, “Cool Operator” dal secondo. Chiudono il conto un po’ di pezzi successivi, per una voce tra le più espressive e versatili nate dall’isola delle meraviglie, e forse una tra le meno jamaicane del lotto: potreste scambiarlo per un contemporaneo cantante soul americano, insomma.
118. Love “Forever Changes” 1967. (cd nuovo, Elektra, € 8.73).
Uno dei venti (dieci?) album fondamentali della storia del rock. Magnificamente bello, clamorosamente attuale. Fantastico. Questa volta davvero non devo dirvi altro. Uscite ORA e andate a comprarlo.
(Postilla: questa edizione rimasterizzata ed ampliata, con outtakes e libretto monumentale e a sacrosantissimo medio prezzo, sostituisce nella mia collezione quella semplice, finita quindi in vendita. Beh, venderla mi è costato. Cazzo se mi è costato. Quasi non volevo. Anzi, a ripensarci ho fatto una cazzata. Che male faranno mai due copie di “Forever Changes”? Ma soprattutto, perché due settimane dopo era ancora lì? Accetto solo una risposta: tutti hanno già questa edizione.)
Citato insieme ad altri suoi pari in quel memorabile tributo che è “White Man In Hammersmith Palais” dei Clash, il cool operator Delroy Wilson è uno di quelli che hanno raccolto meno di quello che meritavano, prima di morire prematuramente nel 1995, a soli 46 anni, per alcolismo.
Bambino prodigio dello ska e del rocksteady sotto l’ala protettiva di Coxsone Dodd e della sua Studio One, fa comunella in tempi di reggae con Bunny Lee e sforna pietre miliari del calibro di “Better Must Come”, suo brano più celebre adottato come inno per la campagna elettorale del 1971 dal PNP di Michael Manley.
Da entrambi i periodi arrivano le chicche che rendono questa antologia a medio prezzo un ottimo punto di partenza: “Dancing Mood”, “Riding For A Fall”, “Trying To Conquer Me”, “Rain From The Skies” dal primo; “I’m Still Waiting”, “Here Comes The Heartaches”, la citata “Better Must Come e, appunto, “Cool Operator” dal secondo. Chiudono il conto un po’ di pezzi successivi, per una voce tra le più espressive e versatili nate dall’isola delle meraviglie, e forse una tra le meno jamaicane del lotto: potreste scambiarlo per un contemporaneo cantante soul americano, insomma.
118. Love “Forever Changes” 1967. (cd nuovo, Elektra, € 8.73).
Uno dei venti (dieci?) album fondamentali della storia del rock. Magnificamente bello, clamorosamente attuale. Fantastico. Questa volta davvero non devo dirvi altro. Uscite ORA e andate a comprarlo.
(Postilla: questa edizione rimasterizzata ed ampliata, con outtakes e libretto monumentale e a sacrosantissimo medio prezzo, sostituisce nella mia collezione quella semplice, finita quindi in vendita. Beh, venderla mi è costato. Cazzo se mi è costato. Quasi non volevo. Anzi, a ripensarci ho fatto una cazzata. Che male faranno mai due copie di “Forever Changes”? Ma soprattutto, perché due settimane dopo era ancora lì? Accetto solo una risposta: tutti hanno già questa edizione.)
03/12/02
115. Joy Division “Substance” 1988. (cd usato, Factory, € 6.00).
Se cercate commossi ricordi di Ian Curtis non li troverete qui. Non ho vissuto i Joy Division da contemporaneo, non sono mai stato uno di quelli che solo qui in Italia si chiamavano dark e in tutto il resto del mondo goth. Vi dirò di più: leggendo la sua biografia (“Così Vicino, Così Lontano”, scritta da sua moglie Deborah, edizione Giunti) il tipo mi è stato discretamente sulle palle, e mi sono chiesto in che stato dovesse essere la gioventù di fine ’70 per farne un idolo di tali proporzioni. Cristo, basta veramente un suicidio?
Ho sempre ascoltato però con piacere i Joy Division, apprezzandone soprattuto il memorabile “Unknown Pleasures” e la sua carica punkeggiante. Ricordo di aver trovato piuttosto pesante “Closer”, che giace intonso nel mio scaffale da una decina di anni, ma probabilmente oggi, se solo avessi il tempo di riascoltarlo, potrebbe piacermi un sacco.
Questo “Substance”, sottotitolato anche “1977-1980”, è una compilation di singoli e b-sides per la maggior parte mai apparsi su album. Parte dagli scarni esordi dell’ep “An Ideal For Living” ed arriva alla celebratissima “Love Will Tear us Apart”, passando per “Transmission”, “Incubation”, “Dead Souls”, “Atmosphere”, “Komakino” e non solo. Singoli che hanno segnato un’epoca e quelle seguenti, densi di intuizioni attualissime. Alla fin fine la cosa che mi entusiasma di meno è la voce di Curtis, e se la aggiungiamo al mal di testa feroce che mi attanaglia da questo pomeriggio, all’anestesia del dentista che se ne sta andando e al freddo, signori è ora di cambiare disco.
116. Hot Snakes “Suicide Invoice” 2002. (cd nuovo, Swami, € 20.14).
Non commettiamo l’errore di considerarlo un semplice progetto parallelo. Lo è di nome, non di fatto. O se anche lo è stato, Suicide Invoice metterà John Reis di fronte alle proprie responsabilità.
Lider maximo dei Rocket From The Crypt, formava con il ritrovato Rick Froberg l’asse chitarre-voci dei seminali Drive Like Jehu, mentre il batterista Jason Kourkounis stava con Delta 72 e Mule. Ma potete scordarvene, perché questo è il miglior gruppo in cui tutti loro hanno suonato.
L’epifania è datata 2000, quando “Automatic Midnight” esplose nei nostri stereo totalmente inaspettato, puro istinto e futuro incerto. Suicide Invoice replica oggi con immutata energia e un concentrato di rock chitarristico a 24 carati: punk-rock, wave grezza, i Sonic Youth più garage, i Drive Like Jehu più diretti. Melodie melanconiche e voce strafottente, ritornelli come ganci da macellaio, attitudine a pacchi da dodici. È San Diego al massimo splendore, altro che progetto parallelo!
Se cercate commossi ricordi di Ian Curtis non li troverete qui. Non ho vissuto i Joy Division da contemporaneo, non sono mai stato uno di quelli che solo qui in Italia si chiamavano dark e in tutto il resto del mondo goth. Vi dirò di più: leggendo la sua biografia (“Così Vicino, Così Lontano”, scritta da sua moglie Deborah, edizione Giunti) il tipo mi è stato discretamente sulle palle, e mi sono chiesto in che stato dovesse essere la gioventù di fine ’70 per farne un idolo di tali proporzioni. Cristo, basta veramente un suicidio?
Ho sempre ascoltato però con piacere i Joy Division, apprezzandone soprattuto il memorabile “Unknown Pleasures” e la sua carica punkeggiante. Ricordo di aver trovato piuttosto pesante “Closer”, che giace intonso nel mio scaffale da una decina di anni, ma probabilmente oggi, se solo avessi il tempo di riascoltarlo, potrebbe piacermi un sacco.
Questo “Substance”, sottotitolato anche “1977-1980”, è una compilation di singoli e b-sides per la maggior parte mai apparsi su album. Parte dagli scarni esordi dell’ep “An Ideal For Living” ed arriva alla celebratissima “Love Will Tear us Apart”, passando per “Transmission”, “Incubation”, “Dead Souls”, “Atmosphere”, “Komakino” e non solo. Singoli che hanno segnato un’epoca e quelle seguenti, densi di intuizioni attualissime. Alla fin fine la cosa che mi entusiasma di meno è la voce di Curtis, e se la aggiungiamo al mal di testa feroce che mi attanaglia da questo pomeriggio, all’anestesia del dentista che se ne sta andando e al freddo, signori è ora di cambiare disco.
116. Hot Snakes “Suicide Invoice” 2002. (cd nuovo, Swami, € 20.14).
Non commettiamo l’errore di considerarlo un semplice progetto parallelo. Lo è di nome, non di fatto. O se anche lo è stato, Suicide Invoice metterà John Reis di fronte alle proprie responsabilità.
Lider maximo dei Rocket From The Crypt, formava con il ritrovato Rick Froberg l’asse chitarre-voci dei seminali Drive Like Jehu, mentre il batterista Jason Kourkounis stava con Delta 72 e Mule. Ma potete scordarvene, perché questo è il miglior gruppo in cui tutti loro hanno suonato.
L’epifania è datata 2000, quando “Automatic Midnight” esplose nei nostri stereo totalmente inaspettato, puro istinto e futuro incerto. Suicide Invoice replica oggi con immutata energia e un concentrato di rock chitarristico a 24 carati: punk-rock, wave grezza, i Sonic Youth più garage, i Drive Like Jehu più diretti. Melodie melanconiche e voce strafottente, ritornelli come ganci da macellaio, attitudine a pacchi da dodici. È San Diego al massimo splendore, altro che progetto parallelo!
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