19/07/12
18/07/12
17/07/12
14/07/12
Si dice ancora "outfit" a Milano?
(Nella foto: Janieve Russell, vincitrice dei 400 ostacoli ai mondiali juniores di atletica in corso)
13/07/12
12/07/12
Mala luna se levanta
Forse ascoltare troppa musica fa male.
Solo grazie a un provvidenziale commento al video su YouTube, mi accorgo che questo canto della curva del San Lorenzo de Almagro - da me celebrato senza lesinare retorica in un post di qualche tempo fa - è modellato esattamente sulla melodia di uno dei pezzi più celebri di uno dei miei gruppi preferiti.
Una buona scusa per rivedere e risentire entrambi, e per rileggere una recensione che nel 2008 scrissi in occasione della ristampata totale globale dell'opera omnia del gruppo.
San Francisco, fine anni ’60. In piena ubriacatura hippie, quattro ragazzi del sobborgo di El Cerrito si vestono da bovari, sognano il Mississippi e il Tennessee invece dell’India, e mescolano in maniera ispiratissima e pop tutto quanto rende grande la tradizione musicale nordamericana, bianca e nera: country, blues, rock’n’roll, soul. Il batterista Doug Clifford, il bassista Stu Cook e il chitarrista ritmico Tom Fogerty sono il metronomo, la sostanza di un suono essenziale, caldo, moderno. Il cantante, chitarrista solista e autore John Fogerty, fratello di Tom, è talento puro e voce straordinaria. I quattro arrivano dal garage, si chiamavano Golliwogs. Ora si chiamano Creedence Clearwater Revival, e quello che faranno di lì a poco li renderà la più grande rock band americana di quello scorcio di decennio, e una delle più amate di tutti i tempi.
Succede tutto nel giro di tre anni o forse meno. Nel 1968 un album di debutto omonimo acerbo ma convincente, che sottopone al trattamento della casa classici come Suzie Q (Dale Hawkins) e I Put a Spell on You (Screaming Jay Hawkins). Nell’anno di grazia 1969 l’esplosione: a gennaio Bayou Country, con le scure Born on the Bayou e Graveyard Train, e l’eterna Proud Mary; ad agosto Green River, fangosa elettricità e Bad Moon Rising, incubo amaro travestito da canzoncina; a novembre Willy and the Poor Boys, con l’immensa Fortunate Son e una più marcata impronta tradizionale. Una tripletta micidiale, che introduce il capolavoro Cosmo’s Factory, del 1970. Copertina orrenda, disco sublime: Run Through the Jungle è il buio, Who’ll Stop the Rain? la luce, gli undici minuti di I Heard Through the Grapevine di Marvin Gaye una delle cover più riuscite di sempre, di quelle che superano l’originale. Pendulum, stesso anno, non può essere all’altezza, ma almeno Have You Ever Seen the Rain?, Hey Tonight e la potente Pagan Baby meritano la menzione.
E bovari non sono, con tutto il rispetto per i bovari. Sotto la crosta di jeans e flanella agiscono un cuore e un cervello in piena sintonia con i tempi, capaci di picchiare duro o girare intorno al bersaglio, per i quali il guardare indietro è metafora più che nostalgia, e l’America è amata profondamente più che sbandierata. Difficile riconoscere la Terra delle Opportunità sotto il cielo color piombo di Bad Moon Rising, non a caso adottata come titolo e umore dai Sonic Youth più cattivi. Difficile fraintendere Fortunate Son, l’esempio più lampante, come in seguito verrà fatto con il povero Springsteen: la rabbia proletaria di Fogerty esce letteralmente dai solchi e riempie l’aria, e in 2’19” smaschera ipocrisie a stelle e strisce passate, presenti e future. Facilissimo innamorarsene.
*****
È una la principale fonte di tracce inedite sparse fra le sei ristampe (tutte rimasterizzate ed accompagnate dalle note di decani del giornalismo musicale americano): i concerti del tour europeo del 1971, ultime apparizioni dal vivo della band, già in formazione a tre per l’abbandono di Tom Fogerty. Il solo John regge ovviamente bene le maggiori responsabilita, e il suono è quello immediato e potente di sempre. Sfilano quasi solo classici: a Bayou Country toccano Born on the Bayou e Proud Mary; a Green River una spiritata title-track che sfocia in Suzie Q, oltre a Bad Moon Rising e Lodi; a Willy and the Poor Boys l’accelerata Fortunate Son e It Came out of the Sky; a Cosmo's Factory la sola Up Around the Bend; a Pendulum, ovviamente, Hey Tonight. La curiosità più grande, però, è una session televisiva con Booker T. and the MGs, spina dorsale del suono Stax, registrata nella sala prove dei Creedence a Berkeley: sentire le sei corde di Steve Cropper e quelle di John Fogerty insieme, con quell’Hammond sotto, in Down on the Corner (su Willy and the Poor Boys) ma soprattutto in Born on the Bayou (su Cosmo's Factory) è un vero piacere. Altro da segnalare? Su Pendulum, le due parti di 45 Revolutions Per Minute, bizzarro montaggio di musica e finte trasmissioni radio, singolo promozionale ispirato dai Beatles dell’album bianco. Su Green River, due brani mai finiti dei quali resta solo la base strumentale (bella soprattutto Glory Be). Su Bayou Country una bella versione alternativa lunga il doppio di Bootleg, e una jam blues chilometrica registrata al Fillmore di San Francisco nel 1969. Sul debutto, infine, il retro del primo singolo dei Golliwogs (perchè non anche il davanti?) e dodici roventi minuti di Suzie Q dallo stesso concerto al Fillmore.
Come cazzo ho fatto a non accorgermene?
Che razza di boost avrebbe dato al mio post per quei dieci minuti in cui è stato agli onori delle cronache? Altri cinque minuti almeno, sicuro.
Che razza di boost avrebbe dato al mio post per quei dieci minuti in cui è stato agli onori delle cronache? Altri cinque minuti almeno, sicuro.
Solo grazie a un provvidenziale commento al video su YouTube, mi accorgo che questo canto della curva del San Lorenzo de Almagro - da me celebrato senza lesinare retorica in un post di qualche tempo fa - è modellato esattamente sulla melodia di uno dei pezzi più celebri di uno dei miei gruppi preferiti.
Una buona scusa per rivedere e risentire entrambi, e per rileggere una recensione che nel 2008 scrissi in occasione della ristampata totale globale dell'opera omnia del gruppo.
San Francisco, fine anni ’60. In piena ubriacatura hippie, quattro ragazzi del sobborgo di El Cerrito si vestono da bovari, sognano il Mississippi e il Tennessee invece dell’India, e mescolano in maniera ispiratissima e pop tutto quanto rende grande la tradizione musicale nordamericana, bianca e nera: country, blues, rock’n’roll, soul. Il batterista Doug Clifford, il bassista Stu Cook e il chitarrista ritmico Tom Fogerty sono il metronomo, la sostanza di un suono essenziale, caldo, moderno. Il cantante, chitarrista solista e autore John Fogerty, fratello di Tom, è talento puro e voce straordinaria. I quattro arrivano dal garage, si chiamavano Golliwogs. Ora si chiamano Creedence Clearwater Revival, e quello che faranno di lì a poco li renderà la più grande rock band americana di quello scorcio di decennio, e una delle più amate di tutti i tempi.
Succede tutto nel giro di tre anni o forse meno. Nel 1968 un album di debutto omonimo acerbo ma convincente, che sottopone al trattamento della casa classici come Suzie Q (Dale Hawkins) e I Put a Spell on You (Screaming Jay Hawkins). Nell’anno di grazia 1969 l’esplosione: a gennaio Bayou Country, con le scure Born on the Bayou e Graveyard Train, e l’eterna Proud Mary; ad agosto Green River, fangosa elettricità e Bad Moon Rising, incubo amaro travestito da canzoncina; a novembre Willy and the Poor Boys, con l’immensa Fortunate Son e una più marcata impronta tradizionale. Una tripletta micidiale, che introduce il capolavoro Cosmo’s Factory, del 1970. Copertina orrenda, disco sublime: Run Through the Jungle è il buio, Who’ll Stop the Rain? la luce, gli undici minuti di I Heard Through the Grapevine di Marvin Gaye una delle cover più riuscite di sempre, di quelle che superano l’originale. Pendulum, stesso anno, non può essere all’altezza, ma almeno Have You Ever Seen the Rain?, Hey Tonight e la potente Pagan Baby meritano la menzione.
E bovari non sono, con tutto il rispetto per i bovari. Sotto la crosta di jeans e flanella agiscono un cuore e un cervello in piena sintonia con i tempi, capaci di picchiare duro o girare intorno al bersaglio, per i quali il guardare indietro è metafora più che nostalgia, e l’America è amata profondamente più che sbandierata. Difficile riconoscere la Terra delle Opportunità sotto il cielo color piombo di Bad Moon Rising, non a caso adottata come titolo e umore dai Sonic Youth più cattivi. Difficile fraintendere Fortunate Son, l’esempio più lampante, come in seguito verrà fatto con il povero Springsteen: la rabbia proletaria di Fogerty esce letteralmente dai solchi e riempie l’aria, e in 2’19” smaschera ipocrisie a stelle e strisce passate, presenti e future. Facilissimo innamorarsene.
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È una la principale fonte di tracce inedite sparse fra le sei ristampe (tutte rimasterizzate ed accompagnate dalle note di decani del giornalismo musicale americano): i concerti del tour europeo del 1971, ultime apparizioni dal vivo della band, già in formazione a tre per l’abbandono di Tom Fogerty. Il solo John regge ovviamente bene le maggiori responsabilita, e il suono è quello immediato e potente di sempre. Sfilano quasi solo classici: a Bayou Country toccano Born on the Bayou e Proud Mary; a Green River una spiritata title-track che sfocia in Suzie Q, oltre a Bad Moon Rising e Lodi; a Willy and the Poor Boys l’accelerata Fortunate Son e It Came out of the Sky; a Cosmo's Factory la sola Up Around the Bend; a Pendulum, ovviamente, Hey Tonight. La curiosità più grande, però, è una session televisiva con Booker T. and the MGs, spina dorsale del suono Stax, registrata nella sala prove dei Creedence a Berkeley: sentire le sei corde di Steve Cropper e quelle di John Fogerty insieme, con quell’Hammond sotto, in Down on the Corner (su Willy and the Poor Boys) ma soprattutto in Born on the Bayou (su Cosmo's Factory) è un vero piacere. Altro da segnalare? Su Pendulum, le due parti di 45 Revolutions Per Minute, bizzarro montaggio di musica e finte trasmissioni radio, singolo promozionale ispirato dai Beatles dell’album bianco. Su Green River, due brani mai finiti dei quali resta solo la base strumentale (bella soprattutto Glory Be). Su Bayou Country una bella versione alternativa lunga il doppio di Bootleg, e una jam blues chilometrica registrata al Fillmore di San Francisco nel 1969. Sul debutto, infine, il retro del primo singolo dei Golliwogs (perchè non anche il davanti?) e dodici roventi minuti di Suzie Q dallo stesso concerto al Fillmore.
06/07/12
Poco da festeggiare
È sempre bello, ok, ma tutti quei mammasantissima della polizia li hanno condannati non per la violenza dentro la Diaz, bensi per aver inventato le prove necessarie a giustificare l'irruzione.
Non festeggerei troppo, visto il meccanismo che ciò rende esplicito per l'ennesima volta (ricordate il ragazzo nero pestato e insultato dai vigili a Parma perché "pensavamo fosse uno spacciatore"?) e che probabilmente già funziona da tempo nella testa di molti italiani: se le molotov alla Diaz ci fossero state davvero, o se non si fossero fatti beccare come quattro truffatori alle prime armi, non ci sarebbe stato nulla da segnalare, e tutta quella violenza sarebbe stata ok. Accettata, lecita. Anzi dovuta, grazie ragazzi.
Non festeggerei troppo, visto il meccanismo che ciò rende esplicito per l'ennesima volta (ricordate il ragazzo nero pestato e insultato dai vigili a Parma perché "pensavamo fosse uno spacciatore"?) e che probabilmente già funziona da tempo nella testa di molti italiani: se le molotov alla Diaz ci fossero state davvero, o se non si fossero fatti beccare come quattro truffatori alle prime armi, non ci sarebbe stato nulla da segnalare, e tutta quella violenza sarebbe stata ok. Accettata, lecita. Anzi dovuta, grazie ragazzi.
03/07/12
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