150. Simple Minds “Sons And Fascination” 1981.(lp usato, Virgin, € 3.00).
151. Simple Minds “Sister Feelings Call” 1981.(lp usato, Virgin, € 3.00).
Come i lettori di più vecchi adata sanno, sono cresciuto a pane e U2 (vedi archivio di maggio). E non solo, non mi sono negato nemmeno i vari altri rappresentanti di quello che le riviste dell’epoca definirono più o meno rock dei sentimenti. Ero giovane e idealista, cercate di capire. Vai quindi di Alarm, Big Country e Simple Minds, soprattutto.
Non frequentando Jim Kerr e soci da moltissimo tempo (all’incirca dal singolone “Ballad Of The Streets”, quello con “Mandela Day” e le cover di “Belfast Child” e “Biko”), la mia cognizione della loro discografia è diventata assai vaga. So che “New Gold Dream (81-82-83-84)” ha un titolo da compilation ma è un album vero (A&M, 1982) ed è il loro top. So che nei dischi precedenti, di cui conosco i titoli ma non l’ordine, ci sono varie belle cose perché da qualche parte a casa dei miei genitori ci sono delle c90 scrause a testimoniarlo.
Quando vedo i due titoli di cui sopra nello scaffale a questo prezzo, quindi, li estraggo senza indugiare, scoprendo solo in seguito che si tratta dei due episodi forse meno significativi della prima parte di carriera della band scozzese. Se infatti il buon esordio “Life In A Day” e i seguenti “Real To Real Cacophony” e “Empires And Dance” passarono con disinvoltura dal post-punk alla sperimentazione alla disco, questi due virano verso il pop, preparando la strada per il citato “New Gold Dream (81-82-83-84)” ma senza la verve e le canzoni che lo resero grande.
Non mancano i momenti validi, ok. Ma forse ho fatto troppo affidamento sugli anni che passano e sulla mia sempre crescente (ma non ancora completa, anzi…) capacità di accostarmi all’ascolto di qualunque cosa. Forse per queste tastiere onnipresenti e per la voce di Jim Kerr è ancora troppo presto. Forse bisognerà attendere il prossimo speciale estivo di “Blow Up”. Forse avrei fatto meglio a tralasciare questi e a non abbandonare nello stesso scaffale “New Gold Dream (81-82-83-84)”. Di cui ho la cassetta originale, peraltro.
O forse avrei fatto meglio a tralasciare i Simple Minds in generale, e a prendere “Court And Spark” di Joni Mitchell e “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder per quattro monete da uno in più.
152. AA.VV. “Studio One Story” 2002. (cd+dvd nuovo, Soul Jazz, € 35.60).
Un cd con sedici pezzi, per forza di cose limitativo -e Horace Andy? E Burning Spear? E Ken Boothe? E i Wailers?- ma nondimeno esaltante. Un libretto extralusso di novanta pagine. Soprattutto, un DVD di quattro ore che ripercorre la storia della prima e forse migliore etichetta reggae mai esistita e del suo leggendario fondatore Clement “Coxsone” Dodd, con interviste illuminanti ed immagini fantastiche. Inutile aggiungere altro. Se amate il reggae, non esitate. Se volete amarlo, idem. Se non lo amate, peggio per voi.
27/01/03
26/01/03
Questa è capitata in un altro negozio, ma è cugina delle mie (magari i miei picchiatelli si limitassero a prendere roma per toma, come si dice qui...).
Vorrei soltanto avere la metà della prontezza e dello spirito di Blatter, invece di somatizzzare all'istante.
Lui: "Cercavo il primo di Jaco Pastorius..."
Blatter: "Quale è?"
Lui: "Il primo, non ha titolo... è inedito"
Blatter: "Omonimo?"
Lui: "No no, inedito!"
Blatter: "Ah... allora non ce l'ho"
149. The La’s “The La’s” 2001.(cd nuovo, € 12.00).
Hanno quelle facce insopportabili e pure un po’ tristi dei gruppi inglesi osannati per un anno e scomparsi presto, ed una fama apparentemente sproporzionata per un gruppo esistito a sprazzi di pochi mesi, autore di qualche singolo ed un solo album e legato nel bene e nel male agli estri di un solo songwriter/cantante/chitarrista/leader chiamato Lee Mavers e a innumerevoli cambi di formazione.
“The La’s” è l’unico album in questione, uscito nel 1990 e ristampato nel 2001 con l’aggiunta di cinque brani, e comincia come cominciano solo i grandi album: con un tris che stende. In “Son Of A Gun”, “I Can’t Sleep” e “Timeless Melody” (nomen omen) il quartetto sciorina scintillante guitar-pop dall’indelebile impronta sixties (primi Beatles, primi Who, Small Faces) e dal piglio moderno di certi R.E.M. o degli indimenticabili Chesterfield Kings di “Don’t Open ‘Till Doomsday” (a tratti la somiglianza è davvero sorprendente, non solo per la somiglianza tra la voce di Mavers e quella di Greg Prevost).
“Liberty Ship” abbassa solo di poco il ritmo, con il suo Bo Diddley beat semiacustico che non esplode mai, e subito il singolone d’epoca “There She Goes” si fa largo con un jingle-jangle vicino agli Smiths più spensierati (e un testo molto facilmente interpretabile in chiave junkie con la Lei a cui state pensando… che qualcuno mi soccorra e mi spieghi dove stava ancora nel 1990 -e dove sta tuttora e dove è mai stato, se è per questo- il glamour dell’eroina, grazie). “Doledrum” riprende in mano le acustiche per un pimpante ritmo quasi bluegrass, mentre “Feeling”, “Way Out” e “I.O.U.” tornano a spingere.
“Freedom Song” introduce amarezza su atmosfere quasi cabarettistiche, ma subito “Failure” torna su quello che è ormai stile La’s al 100% con la faccia tosta degli Stones di metà ’60. “Looking Glass” sono i sette minuti finali che cominciano e continuano acustici e finiscono in rumore. I cinque bonus non sono da meno, dalla rarefatta “All By Myself” alla versione alternativa di “I.O.U.” (ancora più Chesterfield Kings!), passando per l’urgente “Clean Prophet”, la classica “Knock Me Down” e la grezza registrazione live di “Over”.
Fama meritata.
Vorrei soltanto avere la metà della prontezza e dello spirito di Blatter, invece di somatizzzare all'istante.
Lui: "Cercavo il primo di Jaco Pastorius..."
Blatter: "Quale è?"
Lui: "Il primo, non ha titolo... è inedito"
Blatter: "Omonimo?"
Lui: "No no, inedito!"
Blatter: "Ah... allora non ce l'ho"
149. The La’s “The La’s” 2001.(cd nuovo, € 12.00).
Hanno quelle facce insopportabili e pure un po’ tristi dei gruppi inglesi osannati per un anno e scomparsi presto, ed una fama apparentemente sproporzionata per un gruppo esistito a sprazzi di pochi mesi, autore di qualche singolo ed un solo album e legato nel bene e nel male agli estri di un solo songwriter/cantante/chitarrista/leader chiamato Lee Mavers e a innumerevoli cambi di formazione.
“The La’s” è l’unico album in questione, uscito nel 1990 e ristampato nel 2001 con l’aggiunta di cinque brani, e comincia come cominciano solo i grandi album: con un tris che stende. In “Son Of A Gun”, “I Can’t Sleep” e “Timeless Melody” (nomen omen) il quartetto sciorina scintillante guitar-pop dall’indelebile impronta sixties (primi Beatles, primi Who, Small Faces) e dal piglio moderno di certi R.E.M. o degli indimenticabili Chesterfield Kings di “Don’t Open ‘Till Doomsday” (a tratti la somiglianza è davvero sorprendente, non solo per la somiglianza tra la voce di Mavers e quella di Greg Prevost).
“Liberty Ship” abbassa solo di poco il ritmo, con il suo Bo Diddley beat semiacustico che non esplode mai, e subito il singolone d’epoca “There She Goes” si fa largo con un jingle-jangle vicino agli Smiths più spensierati (e un testo molto facilmente interpretabile in chiave junkie con la Lei a cui state pensando… che qualcuno mi soccorra e mi spieghi dove stava ancora nel 1990 -e dove sta tuttora e dove è mai stato, se è per questo- il glamour dell’eroina, grazie). “Doledrum” riprende in mano le acustiche per un pimpante ritmo quasi bluegrass, mentre “Feeling”, “Way Out” e “I.O.U.” tornano a spingere.
“Freedom Song” introduce amarezza su atmosfere quasi cabarettistiche, ma subito “Failure” torna su quello che è ormai stile La’s al 100% con la faccia tosta degli Stones di metà ’60. “Looking Glass” sono i sette minuti finali che cominciano e continuano acustici e finiscono in rumore. I cinque bonus non sono da meno, dalla rarefatta “All By Myself” alla versione alternativa di “I.O.U.” (ancora più Chesterfield Kings!), passando per l’urgente “Clean Prophet”, la classica “Knock Me Down” e la grezza registrazione live di “Over”.
Fama meritata.
22/01/03
146. The Allman Brothers Band “Brothers & Sisters” 1973.(cd usato, Unicorn, € 6.00).
Non sono granchè pratico della discografia della band, e tra i vari album che la bancarella ha scelgo questo. Perché tempo fa è uscito allegato all’Espresso nella collana sui classici del rock (ogni tanto toppano, ma di solito il titolo scelto è realmente il più significativo nella carriera dell’artista), ma soprattutto perché ha una copertina splendida che pare preannunciarne il contenuto. Ed una foto di gruppo sul retro che è qualcosa di fantastico: quelli che intuisco essere i membri della band ritratti insieme a donne, bambini, amici e cani in un pomeriggio autunnale, di fronte ad una casa nel bosco, sereni e sorridenti nonostante le traversie che ne avevano già segnato l’esistenza (la morte dei fondatori Duane Allman e Berry Oakley, due incidenti motociclistici a un anno e a pochi metri di distanza). Una foto di gruppo, probabilmente scattata nella casa di Macon dove la band viveva, che spande una sensazione di relax e di America primi ’70. America sudista, ovvio, ma quella America sudista che fece dell’integrazione e della commistione di stili e razze una ricchezza. Come nella foto vediamo bianchi e neri, nel suono sentiamo il blues e il rock’n’roll fondersi con il country in quello che fu celebrato come southern rock.
“Brothers And Sisters” è però, appunto, più rilassato rispetto agli esordi del gruppo e ai contemporanei Lynyrd Skynyrd. La chitarra solista di Dickey Betts e il piano di Chuck Leavell duettano a meraviglia in jam che dal vivo venivano dilatate oltremisura per il puro piacere di farlo, mentre le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe stendono il ritmo insieme al basso di Berry Oakley (nei due pezzi registrati prima di morire) o Lamar Williams.
147. Blur “The Great Escape” 1995.(cd usato, Food/EMI, € 7.00).
Chiedo venia, ma i Blur prima dell’eccezionale album omonimo del 1997 li conosco solo dai singoli, e qui di singoli ce ne sono tre di memorabili: “Country House”, più british della regina, la gloriosa “The Universal” e la scoppiettante “Charmless Man”. E forse anche “Stereotypes”, chissà. Il resto dell’album lo scopro ora ai medesimi livelli, forse solo un po’ troppo lungo con i suoi quindici brani in tutto, spesso impostati sullo stesso canovaccio.
Sorta di concept a 360° su splendori e miserie della classe media inglese –che fa molto Kinks, ma lo si è già detto- “The Great Escape” è l’ultimo atto dei Blur prima parte, l’apice della popolarità in chiave brit-pop e la prova che lo spessore del quartetto andava e va ben oltre i singoli da classifica. Nello stesso tempo, la gran parte dei pezzi avrebbe potuto esserlo, ma senza per questo perdere un grammo di inventiva, complessità, significato.
Loro vestiti da manager, nella foto sul retro, sono raccapriccianti (o forse raccapricciante è soltanto l’effetto che fanno quattro manager inglesi vestiti come otto anni fa), ma il progetto grafico dell’album è davvero notevole.
148. The Untold Fables “Aesop’s Apocalypse” 1989.(lp nuovo, Dionysus, € 5.16).
Oh, un disco che mi riporta indietro di una quindicina di anni, ai tempi di “Lost Trails” e dell’esplosione garage di metà ’80, di “Rockerilla” e dei viaggi in città una o due volte al mese per comprare (uno o due) dischi, di “Do The Pop” e dei concerti allo Studio Due o al vecchio Hiroshima (a trenta metri dal quale, guarda un po’ il destino, sono finito ad abitare molti anni dopo). Concerti ai quali noi teenagers di provincia con l’ultimo treno utile a mezzanotte e mezza ci facevamo accompagnare da mio papà, che inizialmente si spinse fin dentro i locali (citando ancora adesso con destrezza Husker Du e Died Pretty) e successivamente optò per un più consono cinema.
Uno tra i più memorabili di questi concerti, in ogni caso, fu quello dei Miracle Workers. Era da poco uscito “Overdose”, lo strepitoso album della svolta punk/hard, e come nuovo bassista presentavano in formazione tale Robert Butler. Il capellone non ci mise molto a diventare il nostro idolo, più che per la maglietta con enormi falce e martello che indossava quella sera, per la sua orgogliosa militanza nelle schiere beach punk losangelene che all’epoca adoravamo senza riserve. Bassista di un nome di punta del revival garage-rock appena affrancatosi dagli stilemi revivalisti ormai ripetuti a memoria del genere, citava Circle Jerks e Black Flag come sue influenze primarie, ricollegando così idealmente il punk dei ’60, quello delle miriadi di garage bands da un singolo e via, con quello dei ’70 e dei primi ’80.
Suo biglietto da visita -oltre ai Miracle Workers- il suo primo gruppo, gli Untold Fables. Anche loro partiti dal revival, ma fin da subito animati da un fuoco punk (vedi il chitarrista John Niederbrach in maglietta Ramones) e hardcore, irruppero sulla scena con un album (“Every Mother’s Nightmare”, Dionysus 1985, registrato al Westbeach da Brett Gurewitz, tanto per capirci) da allora considerato tra i fondamentali del garage rock anni ’80. Oltre che tra i più grossi rimpianti del sottoscritto, che lo ha visto una volta sola intorno a quegli anni e non lo ha comprato.
Uscito postumo nel 1989, “Aesop’s Apocalypse” comprende undici brani registrati in due sessioni nel 1986 e nel 1987. Due -“Wendylyn” e la memorabile ballata “The Man And The Wooden God”- avevano già visto la luce su un 7” del 1987 per Dionysus (insieme a “For My Woman” e alla grandissima cover di “When The Night Falls” degli inglesi Eyes), tutto proveniente dalle sessions del 1986. Altre cinque, dalle sessions seguenti e sempre più frenetiche e veloci, su un 7” del 1988 per la tedesca Mystery Scene e su una compilation (“Dimensions Of Sound”, 1987) per la stessa etichetta. Dischi che ho tutti, a scanso di equivoci. Fesso una volta sì, due no.
Onore quindi al solito Blatter, che mette una copia ancora sigillata di “Aesop’s Apocalypse” nello scomparto delle super-offerte e mi fa tuffare nel passato, con quattro inedite: il selvaggio stomp di “I Think” e le cover di “Shot Down” (Sonics), “Cry In The Night” (Q65) e “By My Side” (non so di chi sia), quest’ultima però mai selvaggia come la versione dei Morlocks sul loro primo, introvabile, inascoltabile, meraviglioso primo album “Emerge”. Olè!
E oggi? Robert Butler ha ritrovato un altro Miracle Worker, il cantante Gerry Mohr, nei Get Lost. Il cantante Paul Carey ha militato nei Witch Doctors (esistono ancora?). Di John Niederbrach e del batterista Paul Sakry nessuna traccia. Ma occhio, si parla di un cd riepilogativo in uscita prima o poi!
Non sono granchè pratico della discografia della band, e tra i vari album che la bancarella ha scelgo questo. Perché tempo fa è uscito allegato all’Espresso nella collana sui classici del rock (ogni tanto toppano, ma di solito il titolo scelto è realmente il più significativo nella carriera dell’artista), ma soprattutto perché ha una copertina splendida che pare preannunciarne il contenuto. Ed una foto di gruppo sul retro che è qualcosa di fantastico: quelli che intuisco essere i membri della band ritratti insieme a donne, bambini, amici e cani in un pomeriggio autunnale, di fronte ad una casa nel bosco, sereni e sorridenti nonostante le traversie che ne avevano già segnato l’esistenza (la morte dei fondatori Duane Allman e Berry Oakley, due incidenti motociclistici a un anno e a pochi metri di distanza). Una foto di gruppo, probabilmente scattata nella casa di Macon dove la band viveva, che spande una sensazione di relax e di America primi ’70. America sudista, ovvio, ma quella America sudista che fece dell’integrazione e della commistione di stili e razze una ricchezza. Come nella foto vediamo bianchi e neri, nel suono sentiamo il blues e il rock’n’roll fondersi con il country in quello che fu celebrato come southern rock.
“Brothers And Sisters” è però, appunto, più rilassato rispetto agli esordi del gruppo e ai contemporanei Lynyrd Skynyrd. La chitarra solista di Dickey Betts e il piano di Chuck Leavell duettano a meraviglia in jam che dal vivo venivano dilatate oltremisura per il puro piacere di farlo, mentre le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe stendono il ritmo insieme al basso di Berry Oakley (nei due pezzi registrati prima di morire) o Lamar Williams.
147. Blur “The Great Escape” 1995.(cd usato, Food/EMI, € 7.00).
Chiedo venia, ma i Blur prima dell’eccezionale album omonimo del 1997 li conosco solo dai singoli, e qui di singoli ce ne sono tre di memorabili: “Country House”, più british della regina, la gloriosa “The Universal” e la scoppiettante “Charmless Man”. E forse anche “Stereotypes”, chissà. Il resto dell’album lo scopro ora ai medesimi livelli, forse solo un po’ troppo lungo con i suoi quindici brani in tutto, spesso impostati sullo stesso canovaccio.
Sorta di concept a 360° su splendori e miserie della classe media inglese –che fa molto Kinks, ma lo si è già detto- “The Great Escape” è l’ultimo atto dei Blur prima parte, l’apice della popolarità in chiave brit-pop e la prova che lo spessore del quartetto andava e va ben oltre i singoli da classifica. Nello stesso tempo, la gran parte dei pezzi avrebbe potuto esserlo, ma senza per questo perdere un grammo di inventiva, complessità, significato.
Loro vestiti da manager, nella foto sul retro, sono raccapriccianti (o forse raccapricciante è soltanto l’effetto che fanno quattro manager inglesi vestiti come otto anni fa), ma il progetto grafico dell’album è davvero notevole.
148. The Untold Fables “Aesop’s Apocalypse” 1989.(lp nuovo, Dionysus, € 5.16).
Oh, un disco che mi riporta indietro di una quindicina di anni, ai tempi di “Lost Trails” e dell’esplosione garage di metà ’80, di “Rockerilla” e dei viaggi in città una o due volte al mese per comprare (uno o due) dischi, di “Do The Pop” e dei concerti allo Studio Due o al vecchio Hiroshima (a trenta metri dal quale, guarda un po’ il destino, sono finito ad abitare molti anni dopo). Concerti ai quali noi teenagers di provincia con l’ultimo treno utile a mezzanotte e mezza ci facevamo accompagnare da mio papà, che inizialmente si spinse fin dentro i locali (citando ancora adesso con destrezza Husker Du e Died Pretty) e successivamente optò per un più consono cinema.
Uno tra i più memorabili di questi concerti, in ogni caso, fu quello dei Miracle Workers. Era da poco uscito “Overdose”, lo strepitoso album della svolta punk/hard, e come nuovo bassista presentavano in formazione tale Robert Butler. Il capellone non ci mise molto a diventare il nostro idolo, più che per la maglietta con enormi falce e martello che indossava quella sera, per la sua orgogliosa militanza nelle schiere beach punk losangelene che all’epoca adoravamo senza riserve. Bassista di un nome di punta del revival garage-rock appena affrancatosi dagli stilemi revivalisti ormai ripetuti a memoria del genere, citava Circle Jerks e Black Flag come sue influenze primarie, ricollegando così idealmente il punk dei ’60, quello delle miriadi di garage bands da un singolo e via, con quello dei ’70 e dei primi ’80.
Suo biglietto da visita -oltre ai Miracle Workers- il suo primo gruppo, gli Untold Fables. Anche loro partiti dal revival, ma fin da subito animati da un fuoco punk (vedi il chitarrista John Niederbrach in maglietta Ramones) e hardcore, irruppero sulla scena con un album (“Every Mother’s Nightmare”, Dionysus 1985, registrato al Westbeach da Brett Gurewitz, tanto per capirci) da allora considerato tra i fondamentali del garage rock anni ’80. Oltre che tra i più grossi rimpianti del sottoscritto, che lo ha visto una volta sola intorno a quegli anni e non lo ha comprato.
Uscito postumo nel 1989, “Aesop’s Apocalypse” comprende undici brani registrati in due sessioni nel 1986 e nel 1987. Due -“Wendylyn” e la memorabile ballata “The Man And The Wooden God”- avevano già visto la luce su un 7” del 1987 per Dionysus (insieme a “For My Woman” e alla grandissima cover di “When The Night Falls” degli inglesi Eyes), tutto proveniente dalle sessions del 1986. Altre cinque, dalle sessions seguenti e sempre più frenetiche e veloci, su un 7” del 1988 per la tedesca Mystery Scene e su una compilation (“Dimensions Of Sound”, 1987) per la stessa etichetta. Dischi che ho tutti, a scanso di equivoci. Fesso una volta sì, due no.
Onore quindi al solito Blatter, che mette una copia ancora sigillata di “Aesop’s Apocalypse” nello scomparto delle super-offerte e mi fa tuffare nel passato, con quattro inedite: il selvaggio stomp di “I Think” e le cover di “Shot Down” (Sonics), “Cry In The Night” (Q65) e “By My Side” (non so di chi sia), quest’ultima però mai selvaggia come la versione dei Morlocks sul loro primo, introvabile, inascoltabile, meraviglioso primo album “Emerge”. Olè!
E oggi? Robert Butler ha ritrovato un altro Miracle Worker, il cantante Gerry Mohr, nei Get Lost. Il cantante Paul Carey ha militato nei Witch Doctors (esistono ancora?). Di John Niederbrach e del batterista Paul Sakry nessuna traccia. Ma occhio, si parla di un cd riepilogativo in uscita prima o poi!
19/01/03
145. AA.VV. “Warp:Routine” 2001. (cd nuovo, Warp, € 10.00).
Ultimo arrivato, la nota testata a cui collaboro mi destina al report della tappa torinese del carrozzone Warp, nonché all’intervista con il capoccia dell’etichetta in questione. Mi reco sul luogo con il fido Bati, che di elettronica in genere ne sa ben più di me, e ad intervista fatta la mancata (quanto attesa) munificità del suddetto boss in quanto a cd promozionali e gadgets vari mi costringe all’acquisto di questo sampler di materiale edito, perché da bravo cronista mi tocca documentarmi (io marchiato Warp ho soltanto “Out Of Nowhere” di Jimi Tenor, che pur se molto bello non penso rappresenti l’essenza dell’etichetta). Edito e nemmeno nice price, tra l’altro.
Passata la serata (invero piuttosto dura per un neofita, con quattro live act e tre deejay set ad alternarsi), mi avvicino timoroso all’ascolto. E se fosse una palla pazzesca? Non lo è, e se non riesco a parlarvene in modo competente, sappiate che fa un buon ascolto di sottofondo e che qua e là qualche passetto di danza parte spontaneo. Niente male Plaid, Two Lone Swordsmen, Squarepusher, Jamie Lidell, Nightmares On Wax e Boards Of Canada, quindi più o meno tutti. Mi aspettavo un po’ di più da Prefuse 73, che in molti mi avevano indicato come possibile mio favorito. Amen.
Ultimo arrivato, la nota testata a cui collaboro mi destina al report della tappa torinese del carrozzone Warp, nonché all’intervista con il capoccia dell’etichetta in questione. Mi reco sul luogo con il fido Bati, che di elettronica in genere ne sa ben più di me, e ad intervista fatta la mancata (quanto attesa) munificità del suddetto boss in quanto a cd promozionali e gadgets vari mi costringe all’acquisto di questo sampler di materiale edito, perché da bravo cronista mi tocca documentarmi (io marchiato Warp ho soltanto “Out Of Nowhere” di Jimi Tenor, che pur se molto bello non penso rappresenti l’essenza dell’etichetta). Edito e nemmeno nice price, tra l’altro.
Passata la serata (invero piuttosto dura per un neofita, con quattro live act e tre deejay set ad alternarsi), mi avvicino timoroso all’ascolto. E se fosse una palla pazzesca? Non lo è, e se non riesco a parlarvene in modo competente, sappiate che fa un buon ascolto di sottofondo e che qua e là qualche passetto di danza parte spontaneo. Niente male Plaid, Two Lone Swordsmen, Squarepusher, Jamie Lidell, Nightmares On Wax e Boards Of Canada, quindi più o meno tutti. Mi aspettavo un po’ di più da Prefuse 73, che in molti mi avevano indicato come possibile mio favorito. Amen.
18/01/03
143. Tragedy “Can We Call This Life?” 2002. (7” nuovo, Tragedy, € 3.00).
Due chitarre, due casse Marshall per ciascuna chitarra, volumi allucinanti. Ci sanguinavano le orecchie quando uscimmo nel cortiletto della casa occupata, appena finito il concerto. Tre di loro erano gli His Hero Is Gone, fondamentali. Ripeto, fondamentali. Tre di loro e un quarto che stava nei From Ashes Rise (anche loro da non farsi scappare) sono ora i Tragedy. Che rispetto agli His Hero Is Gone hanno rallentato un po’ e dato una sterzata decisa verso territori crust con sprazzi di oi (e non a caso dal vivo coverizzano i Blitz), ma con progressioni chitarristiche super melodiche (quasi Bad Religion). La voce è il solito urlo e l’immaginario è sempre quello da declino della società occidentale. Con questi tre brani si attende il secondo album, ma l’effetto-nostalgia rischia di fare capolino.
144. Q And Not U “Different Damage” 2002. (cd nuovo, Dischord, € 10.00).
Non di solo passato vive la Dischord, chi la conosce lo sa. Se il box antologico di cui diciamo altrove è cruciale, il presente lo è di più: in esso sta da sempre la ragion d’essere dell’etichetta di Washington, e se qui ed ora ci sono i Q And Not U, come darle torto? “Different Damage” li consacra campioni, enfatizzando le potenzialità melodiche intraviste in “No Kill no Beep Beep” (per chi scrive nella top ten Dischord di sempre) e scarnificandone contemporaneamente l’impianto sonoro, complice la dipartita del bassista Matt Borlik.
I rimanenti John Davis, Harris Klahr e Chris Richards, più maturi e ancora di più disposti ad osare, guardano verso l’Inghilterra di 20 anni fa e ne escono con qualcosa che è loro soltanto. Quando tirano il fiato (“Snow Pattern”), subito si lasciano andare in entusiasmanti sfuriate pop-wave da due minuti (“Everybody Ruins”, una “When the Lines Go Down” che tanto sarebbe piaciuta ai primi Cure). L’uno/due iniziale, con il dub giocattolo di “Soft Pyramids” ad impennarsi nell’adrenalinica “So Many Animal Calls”, è istantanea attendibile di un grande album, costruito su ritmi tribali irresistibili e melodie sghembe ma immediate.
Due chitarre, due casse Marshall per ciascuna chitarra, volumi allucinanti. Ci sanguinavano le orecchie quando uscimmo nel cortiletto della casa occupata, appena finito il concerto. Tre di loro erano gli His Hero Is Gone, fondamentali. Ripeto, fondamentali. Tre di loro e un quarto che stava nei From Ashes Rise (anche loro da non farsi scappare) sono ora i Tragedy. Che rispetto agli His Hero Is Gone hanno rallentato un po’ e dato una sterzata decisa verso territori crust con sprazzi di oi (e non a caso dal vivo coverizzano i Blitz), ma con progressioni chitarristiche super melodiche (quasi Bad Religion). La voce è il solito urlo e l’immaginario è sempre quello da declino della società occidentale. Con questi tre brani si attende il secondo album, ma l’effetto-nostalgia rischia di fare capolino.
144. Q And Not U “Different Damage” 2002. (cd nuovo, Dischord, € 10.00).
Non di solo passato vive la Dischord, chi la conosce lo sa. Se il box antologico di cui diciamo altrove è cruciale, il presente lo è di più: in esso sta da sempre la ragion d’essere dell’etichetta di Washington, e se qui ed ora ci sono i Q And Not U, come darle torto? “Different Damage” li consacra campioni, enfatizzando le potenzialità melodiche intraviste in “No Kill no Beep Beep” (per chi scrive nella top ten Dischord di sempre) e scarnificandone contemporaneamente l’impianto sonoro, complice la dipartita del bassista Matt Borlik.
I rimanenti John Davis, Harris Klahr e Chris Richards, più maturi e ancora di più disposti ad osare, guardano verso l’Inghilterra di 20 anni fa e ne escono con qualcosa che è loro soltanto. Quando tirano il fiato (“Snow Pattern”), subito si lasciano andare in entusiasmanti sfuriate pop-wave da due minuti (“Everybody Ruins”, una “When the Lines Go Down” che tanto sarebbe piaciuta ai primi Cure). L’uno/due iniziale, con il dub giocattolo di “Soft Pyramids” ad impennarsi nell’adrenalinica “So Many Animal Calls”, è istantanea attendibile di un grande album, costruito su ritmi tribali irresistibili e melodie sghembe ma immediate.
10/01/03
(Scena Uno)
Lei: "Avete del lievito di birra in scaglie?"
Io: "Sì, abbiamo queste tre marche. Questa costa (...) quest'altra costa (...) e la terza costa (...)"
Lei: "E che differenza c'è?"
Io: "La marca"
Lei: "Quanto ce n'è?"
Io: "In questa 200 grammi... in quest'altra anche 200 grammi e nella terza... aspetti che guardo... 200 grammi anche in questa"
Lei: "Allora prendo questa, che mi sembra ce ne sia un po' di meno"
(Scena Due)
Io: "Sono 8 euro e 99"
Lei (mi porge una banconota da 10 euro): "Di moneta cosa le serve? Uno?"
Tutto vero, amici. Tutto vero.
Lei: "Avete del lievito di birra in scaglie?"
Io: "Sì, abbiamo queste tre marche. Questa costa (...) quest'altra costa (...) e la terza costa (...)"
Lei: "E che differenza c'è?"
Io: "La marca"
Lei: "Quanto ce n'è?"
Io: "In questa 200 grammi... in quest'altra anche 200 grammi e nella terza... aspetti che guardo... 200 grammi anche in questa"
Lei: "Allora prendo questa, che mi sembra ce ne sia un po' di meno"
(Scena Due)
Io: "Sono 8 euro e 99"
Lei (mi porge una banconota da 10 euro): "Di moneta cosa le serve? Uno?"
Tutto vero, amici. Tutto vero.
01/01/03
Anno nuovo, dischi vecchi. L’utopia di chiudere il 2002 parlando di tutti i dischi che ho acquistato nel 2002, come vedete, utopia è rimasta. Ma sono molto meno indietro di quanto mi sono ritrovato a temere qualche settimana fa (gli aggiornamenti continui dei giorni scorsi hanno fatto al differenza). Solo una quindicina di titoli ed è fatta, insomma. In attesa delle statistiche complete, vi dico che il totale è 158.
E il 2003? Purtroppo, mi tocca lasciare voi fedeli lettori nel dubbio. Sto riconsiderando i miei impegni, e se riuscirò a tagliare dove è necessario potrebbe anche esserci un futuro per SOUL FOOD così come la conosciamo. Altrimenti? Weblog classico? Ci penserò.
Mi piacerebbe però sentire cosa ne pensate, se questo esperimento vi è piaciuto, se siete andati a cercare qualcuno dei dischi citati, se siete stati d’accordo o meno con me una volta ascoltatolo. So che siete tanti, spesso più di quelli che immaginavo, ma raramente vi sento. Io sono qua.
142. J Church/Minority Blues Band - split - 2002. (7” nuovo, Snuffy Smile, € 3.00).
Dio benedica i J Church. Ne ha passate più di molti di noi messi insieme, il buon Lance Hahn, ma ogni volta si è rialzato, si è dato una spolverata alla felpa nera col cappuccio ed ha ricominciato a fare quello che ha sempre fatto: scrivere canzoni, suonare, fare uscire dischi suoi, fare uscire dischi di altri gruppi sulla sua etichetta Honey Bear, scrivere imperdibili newsletters per gli iscritti alla mailing list del gruppo (contattatelo qui. L’ultima sventura in ordine di tempo è un incendio che ha quasi completamente distrutto la sua casa e tutte le sue cose.
Ma i J Church, come detto, non si fermano davanti a nulla. Attivi da una decina d’anni e titolari di album capolavoro quali “Prophylaxis” o “The Drama Of Alienation”, sono conosciuti per essere una delle band più prolifiche al mondo. Date un’occhiata alla loro discografia e ve ne renderete conto. Se non li avete mai ascoltati, il loro è un ormai riconoscibilissimo incrocio di pop-punk ed indie-rock, con testi in media molto belli ed un’attitudine splendida.
In questo split, Lance e soci offrono un live radiofonico di due cover, due classici minori di quel punk politico a loro così caro: “People Are Scared” dei Subhumans (non è specificato quali Subhumans, a naso direi quelli inglesi) e “Petrograd” dei Cringer (grandissima band californiana di cui Lance stesso fu il cantante/chitarrista). Sull’altro lato, i giapponesi Minority Blues Band suonano due brani con l’invidiabile adrenalina che da sempre contraddistingue il punk-rock del sol levante. “Metaphisical Burst” è più melodica e pop, “Running” decisamente più cattiva. Carini.
Non sono questi comunque i dischi che hanno fatto e fanno grandi i J Church, o quelli da cui cominciare se non li conoscete. Partite piuttosto dagli album, o da questo singolo (he he he).
E il 2003? Purtroppo, mi tocca lasciare voi fedeli lettori nel dubbio. Sto riconsiderando i miei impegni, e se riuscirò a tagliare dove è necessario potrebbe anche esserci un futuro per SOUL FOOD così come la conosciamo. Altrimenti? Weblog classico? Ci penserò.
Mi piacerebbe però sentire cosa ne pensate, se questo esperimento vi è piaciuto, se siete andati a cercare qualcuno dei dischi citati, se siete stati d’accordo o meno con me una volta ascoltatolo. So che siete tanti, spesso più di quelli che immaginavo, ma raramente vi sento. Io sono qua.
142. J Church/Minority Blues Band - split - 2002. (7” nuovo, Snuffy Smile, € 3.00).
Dio benedica i J Church. Ne ha passate più di molti di noi messi insieme, il buon Lance Hahn, ma ogni volta si è rialzato, si è dato una spolverata alla felpa nera col cappuccio ed ha ricominciato a fare quello che ha sempre fatto: scrivere canzoni, suonare, fare uscire dischi suoi, fare uscire dischi di altri gruppi sulla sua etichetta Honey Bear, scrivere imperdibili newsletters per gli iscritti alla mailing list del gruppo (contattatelo qui. L’ultima sventura in ordine di tempo è un incendio che ha quasi completamente distrutto la sua casa e tutte le sue cose.
Ma i J Church, come detto, non si fermano davanti a nulla. Attivi da una decina d’anni e titolari di album capolavoro quali “Prophylaxis” o “The Drama Of Alienation”, sono conosciuti per essere una delle band più prolifiche al mondo. Date un’occhiata alla loro discografia e ve ne renderete conto. Se non li avete mai ascoltati, il loro è un ormai riconoscibilissimo incrocio di pop-punk ed indie-rock, con testi in media molto belli ed un’attitudine splendida.
In questo split, Lance e soci offrono un live radiofonico di due cover, due classici minori di quel punk politico a loro così caro: “People Are Scared” dei Subhumans (non è specificato quali Subhumans, a naso direi quelli inglesi) e “Petrograd” dei Cringer (grandissima band californiana di cui Lance stesso fu il cantante/chitarrista). Sull’altro lato, i giapponesi Minority Blues Band suonano due brani con l’invidiabile adrenalina che da sempre contraddistingue il punk-rock del sol levante. “Metaphisical Burst” è più melodica e pop, “Running” decisamente più cattiva. Carini.
Non sono questi comunque i dischi che hanno fatto e fanno grandi i J Church, o quelli da cui cominciare se non li conoscete. Partite piuttosto dagli album, o da questo singolo (he he he).
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