30/12/15

Gli album del 2015 / 1



1. Sufjan Stevens Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty)

Uno che, badasse al portafoglio e all'ego, avrebbe capitalizzato da tempo su un talento enorme. E invece dal 2000 ha vagato fra progetti tanto affascinanti quanto improbabili (un album per ogni stato degli Usa: finora ne sono usciti due), divagazioni fra elettronica, classica e sperimentazione, messe a fuoco ripetute di uno stile già nitido da tempo. Quello che brilla in Carrie & Lowell, ridotto ai minimi termini di una voce, una chitarra acustica e poco altro. In undici canzoni intime e personali che ascoltate una volta non vi lasceranno più, nate da un'esigenza privata d'amore - Carrie è la madre, Lowell il suo compagno - e fattesi amore universale come capita solo con i fuoriclasse. (da Soundwall)


29/12/15

Gli album del 2015 / 2



2. Mbongwana Star From Kinshasa (World Circuit)

From Kinshasa to the Moon, in realtà. Come il brano che apre, e come la sensazione che subito vince. Un viaggio verso l'ignoto che spaventa ed elettrizza, unico riferimento in cielo la stella del cambiamento, mbongwana in Lingala. Cambiamento in opera nei presupposti e nei fatti. Dopo lo scioglimento degli Staff Benda Bilili, senzatetto paraplegici diventati fenomeno pop globale, i cinquantenni Coco Ngambali e Theo Nzonza ricominciano con tre di cui potrebbero essere padri, e col parigino Liam Farrell. Scordare il passato: l'incontro fra generazioni e culture è dirompente, i confini si fanno sfocati. Farrell non solo produce senza il rispetto verista che di solito muove i suoi omologhi, ma entra nel gruppo a tutti gli effetti, suona, campiona, distorce, dà e riceve in un rapporto alla pari senza limiti. I congolesi portano materiale straordinario, energia umana e minacciosa in parti uguali: tradizione in odore di rumba e spinta in avanti che ingloba bassi post-punk, chitarre rumorose, intrecci vocali imprendibili, echi, ritmi elettronici pulsanti (fino all'assalto di Suzanna, mostruosa techno berlinese con dolce cantato gospel), gli immancabili likembe elettrificati (a cura dei Konono N°1 in Malukayi). Tutto insieme è qualcosa che non si era ancora sentito, ed è fantastico. Un disco che alza il livello Congotronics di tre tacche, il migliore uscito fin qui dalla Kinshasa odierna. Afrofuturismo, per usare un termine in voga. Ma sul serio. (da Rumore n. 282/283)

28/12/15

Gli album del 2015 / 3



3. Sleater-Kinney No Cities To Love (Sub Pop)

Otto anni dopo, annunciate da un misterioso 7" inserito senza preavviso nel box antologico Start Together
, le stesse Sleater-Kinney di sempre. Non suoni come una bocciatura, anzi. Come un'affermazione di identità e sicurezza dei propri mezzi, piuttosto. Come conferma di una cosa che è stata ben chiara fin da subito: il gruppo appartiene alla ristretta cerchia di chi fa musica perché deve, senza ragionare a tavolino su come questa musica debba suonare, lasciando che venga fuori e basta, e lì cominciando a lavorare per darle la miglior forma possibile. Nessuno ha nemmeno provato ad imitarle, in questi anni di pausa. Come se fossero qualcosa di intoccabile, una sfida persa in partenza. Come i Fugazi, altro gruppo della cerchia, altro gruppo ufficialmente in pausa.

Poi certo, ci sono le sfumature. Rispetto alle bordate distorte di The Woods, questo No Cities to Love suona piuttosto come un ritorno al clima fresco e immediato degli album precedenti, ma con la potenza accumulata strada facendo come bonus. Brucia di un'urgenza che ci piacerebbe trovare in ogni lavoro di un gruppo riunito dopo tanto tempo, ed entra subito in testa. C'è anche una netta intenzione funk, nella declinazione bianca e tagliente nata con il post-punk, che emerge in modo più o meno esplicito. Come se le tre avessero scoperto adesso, naturalmente a modo loro, i Franz Ferdinand del primo album, che per quanto démodé possa apparire la citazione restano una delle migliori ipotesi di lavoro pop su quel suono. Ci sono anche quattro o cinque delle migliori canzoni mai firmate dal trio, e una carica in fondo prevedibile, ma non fino a questo punto. Di meglio non si poteva sperare.

27/12/15

Gli album del 2015 / 4



4. Insanlar/Ricardo Villalobos Kime Ne (Honest Jon's)

“Il ritmo è un linguaggio universale, mentre le melodie appartengono a culture specifiche”, diceva Ricardo Villalobos nel 2008, quando Rumore andò a Berlino a intervistarlo e la sua faccia finì sulla copertina del numero 197, una delle più eretiche della storia di questo giornale. Erano i giorni di tracce come Enfants o Primer Encuentro Latino-Americano, e di album come Sei Es Drum: fenomenali. In molti cominciavano a unire ritmiche house minimali e fonti strumentali o vocali periferiche, in pochi (vengono in mente i romeni Petre Inspirescu e Rhadoo, e il turco Onur Özer) riuscivano ad andare oltre la semplice giustapposizione e la ricerca dell'effetto esotico, forse lui solo riusciva a trasformare il tutto in un discorso davvero organico e coerente, evolvendosi senza limiti apparenti. Ricardo firmava tracce sempre più lunghe, ipnotiche, slegate da qualunque dinamica dance convenzionale, perfezionando anche dal punto di vista tecnico e sonoro uno stile sempre più unico. Ecco, a quei giorni siamo tornati improvvisamente ascoltando Kime Ne, doppio 12" (inciso su tre lati, sul quarto c'è un lavoro dell'artista Katharina Immekus) pubblicato da Honest Jon's e intestato al maestro cileno/berlinese e alla band turca Insanlar.
Trattasi di un collettivo acustico/elettronico di Istanbul, radunato intorno al DJ e produttore disco/psichedelico Barış K, al polistrumentista e cantante Cem Yıldız e al percussionista Hogır. Kime Ne - registrata dal vivo nel 2010 - esce per la prima volta il 27 dicembre 2013, divisa sui due lati di un 12" pubblicato dalla concittadina Aboov Plak. Il testo è un adattamento dei versi di due poeti e mistici ottomani del sedicesimo e diciassettesimo secolo rispettivamente, Kul Nesîmî e Pir Sultan Abdal, e la musica... beh, la musica è qualcosa di sublime. Qualcosa di molto vicino al sogno bagnato del lettore-tipo di questa umile pagina. Ventiquattro minuti di Bosforo, Baleari e Berlino in combinazione, una sinuosa pulsazione dubby a 100 bpm su cui volteggiano corde di chitarra acustica e di acidissima bağlama, cori epici e specie di scat vocali velocissimi. Sullo sfondo, mentre il sole sorge o tramonta, i minareti della Moschea Blu o la torre di Alexanderplatz, chi li distingue più. Già introvabile l'originale, Honest Jon's ripara ristampando e convocando appunto Villalobos, per due remix che al confronto paiono quasi normali. Velocità aumentata a 120, groove minimalista solido e multiforme, dettagli che si rincorrono, vena più solare nel primo e più scura e tesa nel secondo. Un'ora di musica in tutto, meravigliosa. (da Rumore n. 278)

26/12/15

Gli album del 2015 / 5



5. Downtown Boys Full Communism (Don Giovanni)
In breve, quello che un gruppo punk deve essere. Dentro i propri tempi e i loro movimenti (vedi video di Wave of History). Senza paura di esporsi contro razzismo, sessismo, capitalismo e -ismi vari che per troppo tempo è stato figo tralasciare. Bruciante e spontaneo, come la California al passaggio fra punk e hardcore, o certa no wave. Creativo, perché con gli strumenti soliti pompano anche due sax. In più, ed è un punto di forza dei sei di Providence: fatto di sessi e culture diverse, e capace di fare della diversità un messaggio in forma (testi in spagnolo e inglese) e sostanza. Aggiungere una citazione di Yasiin Bey/Mos Def come manifesto, e una di quelle cover inattese che dopo un solo ascolto cambiano proprietà, Dancing in the Dark di Springsteen. Non puoi accendere un fuoco senza una scintilla, claro. (da Rumore n. 281)

25/12/15

Gli album del 2015 / 6



6. Heroin In Tahiti Sun and Violence (Boring Machines)

Chiamatela psichedelia occulta italiana o chiamatela come vi pare, ma alcune cose vanno date per certe: parliamo di alcune delle cose migliori sentite nel nostro paese da un lustro circa in qua, e di un nome collettivo tanto artificiale e imposto (come tutti i nomi collettivi, peraltro: Viv Albertine nella sua splendida autobiografia scrive "punk", tra virgolette) quanto efficace nella sua inclusività, capace di rappresentare un'attitudine più che un suono preciso, e di calzare addosso a un insieme di gruppi in cui è davvero difficile pescarne due uguali.
Difficilissimo per gli Heroin In Tahiti, duo romano che dopo un album già notevole (Death Surf, 2012), uno altrettanto valido diviso con Ensemble Economique (No Highway/Black Vacation, 2013) e uno uscito solo su cassetta (Canicola, 2014) 
cala l'asso con questo monumentale doppio. Un lavoro che nasce proprio da quella cassetta, e dal suo lavoro ancora grezzo ma già interessantissimo su field recordings dell'Italia meridionale degli anni '50, raccolti da Diego Carpitella e Alan Lomax. Sun and Violence riprende quel lavoro con minore improvvisazione e più ragionamento, sviscerando l'anima cupa ed esoterica di quei luoghi e di quei tempi, con Sud e magia di Ernesto De Martino come testo di riferimento.
Ne esce un'ora di musica vibrante e ispirata, che allarga sensibilmente la visuale oltre la Spaghetti Wasteland di chitarre riverberate e ritmi narcotici ben nota a chi segue le gesta del gruppo, dilatandosi e complicandosi, muovendosi fra momenti di stasi bruciati dal sole e ipnotiche cavalcate kraute, frenesie psichedeliche e malinconie mediterranee.

24/12/15

Gli album del 2015 / 7



7. SQUADRA OMEGA Altri occhi ci guardano (Sound Of Cobra/Macina Dischi)

A chiusura della terna di dischi con cui ha inaugurato un 2015 fertile a dir poco, la Squadra piazza il colpo del KO. Con quello che non solo suona come il suo vero secondo album, cinque anni dopo il debutto omonimo, ma diventa anche pietra di paragone, apice di una carriera che da qui potrebbe procedere con moltiplicato slancio. Altri occhi ci guardano è per ampiezza di sguardo, ambizione e dimensioni - nove tracce in quasi settanta minuti, su vinile doppio o CD singolo - il manifesto del trio veneto. Sintesi di quanto detto fin qui, di pulsioni note e non, di plausibili direzioni future. Matura e sorprendentemente accessibile.
Prima facciata: Sospesi nell'oblio, otto minuti e mezzo di basso ossessivo e twang chitarristico orientaleggiante, ritmo incalzante e melodia sul finale che suona come un lampo beat dal passato remoto, tutto incastrato fra la tensione rarefatta di Il buio dentro e la pace cosmica di La nube di Oorth. Seconda: Il labirinto, portata avanti per tredici minuti dal sax e da un'altra linea di basso senza fine, con fase acida californiana e percussioni in coda, prima che Sepolto dalle sabbie del tempo alzi la temperatura con tiro funk da blaxploitation. Terza: acustiche arpeggiate in Hyoscyhamus, e poi il prog folk a combustione lenta di Il grande idolo, altri undici minuti di viaggio. Quarta: altro funk e altro wah-wah, con assolo elettrico a oltranza e sax protagonista della decomposizone finale, nei dodici e mezzo della title track, e altre corde acustiche nella conclusiva Le rovine circolari. E siamo appena a metà anno. (da Rumore n. 281)

23/12/15

Gli album del 2015 / 8



8. Roger Robinson Dis Side Ah Town (Jahtari)

Con i riflettori puntati sulla pregevole collaborazione fra Fennesz e quei King Midas Sound di cui è una delle due voci, rischiavamo di perderci l'entrata trionfale di Roger Robinson nel ristretto novero dei dub poet. Il pensiero va dritto al più grande fra loro, Linton Kwesi Johnson, alle sue cronache di ordinaria ingiustizia in pieno incubo thatcheriano, declamate con tono caldo e severo sul potente incedere della Dub Band di Dennis Bovell. Robinson restringe il campo, concentrandosi su un quartiere londinese. Uno solo, ma pesantissimo in quanto a portata simbolica, snodo fondamentale di ogni discorso sui mutamenti dell'Inghilterra urbana e multietnica: Brixton.
Nato ad Hackney e cresciuto a Trinidad, già residente della zona, il nostro passa da Brixton di ritorno da un tour nell'agosto del 2011, e si ritrova in mezzo ai disordini che stanno mettendo a ferro e fuoco quella e varie altre zone della città, e del paese. Subito comincia a prendere appunti, mentali e reali, registrati al volo sul suo dittafono, usati come punto di partenza per una sorta di documentario sul luogo, la sua gente, la sua storia, il suo futuro. 
Walk with Me, dice uno dei titoli. Ed è proprio quello facciamo, in un tour con la miglior guida possibile, che trova la miglior colonna sonora possibile nel reggae retro/futurista dello specialista Disrupt. Il suo lavoro è quello di un artigiano giamaicano, sepolto da campionatori di una volta, ampli valvolari ed effetti autocostruiti, ma con una sensibilità dub(step) moderna. La base perfetta per le cronache sporche e immediate - o per le rare, splendide melodie cantate - di Roger.

22/12/15

Gli album del 2015 / 9



9. Black Zone Myth Chant Mane Thecel Phares (Editions Gravats)

Come un oggetto volante non identificato, che dichiara fin dalla copertina la sua devozione all'eterno Sun Ra, il secondo del francese High Wolf come Black Zone Myth Chant piomba fra noi e lascia del tutto spiazzati. Affascinati e impauriti in parti uguali. Pare di riconoscere sembianze familiari, ma subito dopo appare altro. Pare di essere avviati su una strada, e quando è troppo tardi per tornare indietro ci si accorge che invece è un'altra. Sono otto labirinti, ostici a prima vista, inebrianti una volta dentro. E dentro c'è tutto: footwork, ma distante anni luce da quasi tutto il footwork sentito fin qua; un'Africa immaginata più che reale; amore per dub e jazz; techno, come attitudine all'esplorazione elettronica; beatmaking astratto e dopato; l'esperienza del Lupo con droni e psichedelia. Pazzesco. (da Rumore n. 280)

21/12/15

Gli album del 2015 / 10



10. Jamie xx In colour (Young Turks)

Non ha avuto fretta, Jamie Smith. Si era capito da subito, dall'epocale debutto dei suoi xx nel 2009, che in ballo c'era qualcosa di grosso, il talento puro di un giovane musicista britannico e la sua capacità di intrecciare generi e mondi. Ma nonostante la giovane età il ragazzo è riuscito a dosarsi perfettamente, a rilasciare esempi di quel talento con il contagocce, o quasi. Un album condiviso con la leggenda afroamericana Gil Scott-Heron, un altro con la band, qualche singolo, qualche remix. E oggi, finalmente, questo palpitante In Colour
. Un lavoro che mantiene tutte le promesse, e oltre, virando in chiave dance le atmosfere rarefatte e le melodie intimiste per cui va famoso. Una dance delicata, estatica, fatta di campionamenti sorprendenti - su tutti, la magistrale interpolazione di Could Heaven Ever Be Like This di Idris Muhammad in Loud Places, con effetti da pelle d'oca - e trame di chitarra, beat fra il balearico e le tensioni garage/dub urbane londinesi, strizzate d'occhio al Four Tet più orecchiabile (che infatti collabora, insieme ai compagni di band Oliver Sim e Romy Madley Croft, e agli MC giamaicani Young Thug e Popcaan) e placide derive tropicali. In tutto, fanno tre quarti d'ora di musica serena ed empatica, che eleva lo spirito e scorre con naturalezza rara, pronta per ricominciare immediatamente. (da DJ Mag Italia n. 51)

19/05/15

Li salviamo, signò?

Le evidentemente ricchissime Filippine offrono accoglienza ai migranti Rohingya in fuga, che nessun altro paese della zona ha voluto.
Sono musulmani massacrati dalla pulizia etnica dei buddisti, in Myanmar.
Sono troppe due notizie destabilizzanti in un colpo solo?
Facciamo tre allora, anzi quattro:
- le Filippine sono un paese al 90% cristiano e all'80% cattolico;
- nelle Filippine è in corso da circa 45 anni una ribellione armata di alcune province a maggioranza musulmana.
Lasciate perdere la religione, insomma.
Sono sempre i ricchi (o i meno poveri), che non vogliono i poveri (o i più poveri).
Con qualche eccezione, per fortuna.

16/05/15

DEATH METAL ANGOLA



Cercate di vedere Death Metal Angola.
Un film commovente, che mette in un'altra prospettiva più o meno il 99% delle discussioni ciniche, sterili, paracule o ironiche in cui noi che abbiamo a che fare con la musica perdiamo tempo ogni giorno.
Poi, se avete voglia, parliamo della polemica fra Sun Kil Moon e i War On Drugs.
O di Max Pezzali.

07/05/15

Tre cose



Dopo un sacco di tempo, e con il ritorno della famiglia in città dopo un po' di anni in provincia, torno a mettere dischi a Torino.
Succede domani, venerdì 8 maggio, al Dunque di via Santa Giulia. Bar notevole che Google Maps pone a 250 metri esatti dal portone di casa mia. Passi piccoli insomma, meglio così.
La modalità è quella a me molto cara di Globo, selezione di pop, psichedelia, funk e rock da paesi lontani che vado proponendo grossomodo da quando gli hipster ancora ascoltavano gli Interpol invece di William Onyeabor.
HIC SUNT LEONES!





Il 12 maggio, quindi martedì, esce invece questo qui: il vinile di Prodotto degli Altro.
Senza farla troppo lunga: anni fa avevo una piccola etichetta discografica, si chiamava Love Boat Records & Buttons (perché facevamo anche spillette). Prodotto è la sua uscita che ha avuto più "successo", ma soprattutto una delle più belle. Arrivò all'inizio del 2004, e fu la conferma che gli Altro erano un gruppo unico e inimitabile.
Non a caso, continuarono e continuano a fare dischi per un sacco di altre etichette, prima fra tutte La Tempesta.
Da oggi possiamo dire che Love Boat è tornata, non so bene come e per quanto, ma insomma a casa oggi sono arrivate 300 copie di un LP, quindi è tornata.
L'edizione è in vinile nero 180 grammi, limitata a 300 copie numerate a mano.
Potete scrivermi e vi spiego come si compra. Fra poco dovrebbe arrivare pure nei negozi.





Lui invece si chiama Ben Seretan, ne abbiamo già parlato qualche tempo fa.
Viene a suonare in Italia a luglio, e ci sono ancora un po' di date da piazzare.
Per esempio, a Torino il 12 luglio.
Per esempio, al sud e al centro fra il 20 e il 24 luglio.
Costa poco, è simpatico, è bravissimo. Scrivete a Jacopo se avete delle idee.
Scrivete a me se invece volete/potete prestargli la sala prove o lo studio il 27 luglio.

20/04/15

Su Grillu

Ancora una volta, dalla Sardegna arrivano le parole giuste.
L'amico Francesco Abate, su Facebook, così sintetizza quanto accaduto nel canale di Sicilia e i commenti seguenti. Chiudendo ogni discussione, e ogni possibilità di dibattito.


12/03/15

Da Paolo Conte a Libero senza passare dal via

Semina il vento, romanzo di successo dello scrittore Alessandro Perissinotto.
Ad aprile 2011 esce con questa copertina.




A settembre 2012 esce in prima edizione economica, con questa copertina (e virgolettato di Paolo Conte, tanto per sottolineare il tipo di pubblico che si voleva raggiungere).




A luglio 2013 esce in seconda edizione economica, con questa copertina.




Siccome però c'è di mezzo la moglie iraniana di un italiano - la quale, da laica che era, si rifugia nella religione come reazione alla diffidenza e all'ostilità verso la straniera (ma dai! davvero?) che trova nel borgo sperduto sulle montagne piemontesi dove la coppia si trasferisce - e quando occasioni del genere le hai già in catalogo non è il caso di farsi troppi scrupoli (nemmeno se nel libro è lei che muore, e l'accusato è proprio il marito italiano, ma non sottilizziamo), la casa editrice si butta a volo d'angelo sull'emozione post-parigina, e ne pubblica a febbraio 2015 una terza edizione economica.
Con questa copertina, decisamente più orientalista e al passo coi tempi (anche se pare un ninja più che una donna iraniana).
E con uno strillo che dice tutto.




PS - Sostieni e diffondi Orientalis(si)mo!

10/03/15

"Tout le monde/Watch tout le monde"




"(...) José Louis Modabi in arte Pierre Kwenders, congolese trasferitosi adolescente a Montreal, conciato come una via di mezzo fra un sapeur della sua Kinshasa e un hipster nordamericano, con scenografia di ghetto blaster cartonati e giungla urbana non meglio definita.
Sicuro dei propri mezzi a dire poco, tanto da definire la sua musica "World 2.0" e da definirsi nientemeno che "portavoce dell'Africa moderna" e "ultimo imperatore Bantu", il ragazzo ha effettivamente numeri fuori dal comune. I segni di un'Africa urbana e all'avanguardia ci sono, congolesi ma non solo. Espliciti quando il cantato è in lingala, quando in Kuna Na Goma spunta l'asso Baloji, o quando i titoli sono cose come African Dream, Popolipo, Kuna Na Goma, Mami Wata. Riconoscibili quando emergono melodie corali e ritmiche che evocano la tradizione della rumba. Mai dominanti però, e mai ostentati.
Servono puttosto a inserire Le Dernier Empereur Bantou in un contesto electro/soul davvero globale, in cui giocarsela come lavoro tanto africano quanto canadese o - perdonate la banalità - cittadino del mondo. Anche per questo, e perchè siamo nel 2015 e non nel 1915, non stona affatto la scelta di Pierre da parte di Radio-Canada come rivelazione 2014-2015, ma stona la sua sistemazione nella vetusta e a quanto pare intramontabile categoria della "world music". A meno che la si intenda non in senso esclusivo (noi siamo noi, il resto è world) bensì inclusivo.
Perché c'è molto mondo, in queste undici canzoni: il ritmo incalzante e i suoni della splendida Mardi Gras, ad esempio, rimandano proprio alla Louisiana cajun, e le strofe rap dell'ospite Jacobous (Radio Radio) sono in chiac, francese acadiano misto a parole e costruzioni sintattiche inglesi, con influenze nativo-americane, lingua molto in voga fra le nuove generazioni del canada francofono. Il concittadino di origine mozambicana Samito rima invece in portoghese in Popolipo e Ali Boma Ye. Ani Kuni sembra avere come riferimento principale il pop mediorientale, piuttosto.
E la produzione - curata da Nom De Plume e Poirier - fornisce al tutto una polpa elettronica attuale e senza confini, con bassi prepotenti negli episodi ballabili e raffinatezza sintetica in quelli r&b, confondendo forme e stili, creando il supporto ideale per la bella voce di Kwenders, e marchiando un disco che potrebbe essere fatto a Montreal come a Kinshasa, a Parigi come a New York, a Nairobi come a Johannesburg." (Rumore n. 276)

09/03/15

All things go (a.k.a. Falla girare)

I miei sospetti cominciano a rivelarsi fondati.
Far girare i propri dischi gratuitamente, se lo si fa con il disco giusto nel modo giusto, conviene. A tutte le parti in causa.
Al punto che farlo con il disco giusto nel modo giusto può voler dire (ipotizzo?) mandarlo di propria iniziativa a un blog musicale illegale molto seguito. Ad esempio. Cioè essere noi stessi alle origini di un leak, perché più piccoli - in termini di popolarità e fanbase - del blog stesso. Oppure non scomporsi quando un proprio disco ci arriva, dare la cosa più o meno per scontata e reagire con classe e attitudine positiva (o semplicemente realista).
Prove non ce ne sono, solo scenari verosimili.

***

La prima metà del merito è di Ben Seretan e del suo straordinario album omonimo, uscito a fine 2014 e da me scoperto grazie a Nodata, ovvero uno dei blog dove scaricare illegalmente musica più ricchi e seguiti della Rete.

Avendo impostato il sito come pagina di partenza del mio browser, ci passo spesso. Il più delle volte ho tempo ed attenzione a sufficienza per dare giusto un'occhiata veloce a nomi e copertine, scaricando i dischi che già so mi interesseranno, e aprendo le pagine di altri due o tre per approfondire (con nome dell'etichetta, tag di genere ed eventuali commenti degli utenti: non c'è nulla di più). Il più delle volte, sembra tutta una massa indefinita di roba, costantemente aggiornata e molto uniforme dal punto di vista grafico. Poco riesce a spiccare, a catturare l'attenzione.
Questa, ad esempio.



Vado avanti, dunque, e scopro uno dei miei dieci dischi dell'anno.
Ma non è questo il punto. Il punto è che si tratta di un disco autoprodotto da Ben stesso, e venduto tramite la sua pagina Bandcamp in due formati: download digitale, ed edizione limitata di 250 copie in doppio vinile colorato.
Fortunato io che ci ho creduto - un disco con una copertina così non può essere brutto, anzi deve per forza avere qualcosa che la maggior parte degli altri non ha - e ho approfondito: con il ritmo con cui solitamente Nodata posta nuovi dischi, sarebbe bastato aprire la pagina qualche ora più tardi e la suddetta copertina, da bassa che era nella pagina, sarebbe finita fra le "older entries", e allora ciao Ben Seretan, ciao Ben Seretan, ciao disco del mese fra i più apprezzati degli ultimi anni di Rumore, ciao disco del mese che più di tantissimi altri ha senso di essere disco del mese di Rumore (a che servono altrimenti, Rumore e testate analoghe, se non a raccontare cose che nessuno sa?) e anche ciau bale, come dicono dalle mie parti.
Ma un artista così, sostanzialmente sconosciuto e con in casa 250 copie di un album su doppio vinile pagato in proprio, non ha solo ed esclusivamente da guadagnare da una cosa simile?
In altre parole: a un Ben Seretan qualunque, soprattutto se bravo come il Ben Seretan non qualunque, non converrebbe addirittura mandare di sua iniziativa, volontariamente, il disco a un sito illegale come Nodata, che di fatto - con la sua sorta di redazione invisibile ma evidentemente molto attenta a cosa pubblicare e cosa no - si è ormai guadagnato una credibilità pari se non superiore a quella di tante testate ufficiali? Non è una mossa di marketing più efficace dell'invio di cento link promozionali a cento diverse testate specializzate? Pubblicità gratuita?

Ora, non sto dicendo che questo sia il caso di Ben.
Lui mi aveva chiesto come avessi fatto a scoprirlo, io gli avevo spiegato e lui aveva ribattuto
Ah! You know what? That Nodata post has been really good for me, actually... I'm sure there were lots of illegal downloads, but a lot of people have been reaching out. Cool!
Ma per sicurezza glielo ho chiesto abbastanza esplicitamente, in un'intervista uscita purtroppo sintetizzata sul numero 276 di Rumore, ma che prima o poi sistemerò e pubblicherò da qualche parte.
(io) The album comes out as a download on Bandcamp, plus very limited prints on vinyl and tape. I, as I think many others if not most others, bumped into it via Nodata, and followed the "illegal download to physical purchase” path. Correct me if I’m wrong, but I think it’s a perfect example of a trend that’s more and more common, and that could possibly become a viable way of handling things for small and very small artists: my impression is that, with Nodata and the illegal downloads, you will sell not less but more physical copies of your album. 
(Ben Seretan) I'm really stoked that someone felt moved enough to post my record - which really sticks out like a sore thumb - to Nodata. I got a Google alert about it! Which was kind of surreal. And it really seems like a lot of people checked out the audio that way. Ultimately that's what I really want - for the music to be heard, in any way. The thing about illegal downloads is that they're basically impossible to track, so I actually have no idea what percentage of people who downloaded the record also purchased copies. Because of the huge response I got after the record got posted - lots of friends telling me they saw it on the website, modest sales, some totally random blog posts, an email from the venerable Mr. Andrea Pomini, etc - I think probably 1,000s of people downloaded the record. Which means less than a percent of people actually bought something! That's not viable, right?
Lui nicchia dunque, in qualche mail che non trovo più mi pare accennasse a qualche suo amico che poteva averlo fatto a sua insaputa, ma insomma. L'impressione è che senza quel post invece di essere esaurito da un mesetto (un quinto circa delle copie sta in Italia, fra l'altro) l'album avrebbe avuto una diffusione molto meno vasta e capillare.
E che una buona percentuale di materiale presente su Nodata (facciamo il 33%?) sia lì perché lo hanno mandato gli stessi che lo hanno prodotto.

***



La seconda metà del merito è invece della Asthmatic Kitty Records.
Il 7 marzo, sempre su Nodata compare Carrie & Lowell, il nuovo album di Sufjan Stevens, proprietario e artista di punta dell'etichetta. Disco che esce ufficialmente il 31 marzo, ma che molti giornalisti hanno ovviamente già ricevuto.
Invece di passare giornate intere con i propri avvocati a caccia di link da fare rimuovere, l'etichetta ne prende atto, e posta questo commento:



Non solo i link per scaricarlo restano su.
Non solo si chiede il supporto di coloro che ascolteranno e apprezzeranno il disco, invitandoli ad acquistarlo nei vari modi a disposizione.
Si va oltre: "Se vi piace ma non avete i soldi per comprarlo, potete aiutarci condividendo la musica con un amico. In entrambi i casi, grazie per l'ascolto!"

Basta che lo facciate girare, insomma. E grazie.
E parliamo di una delle uscite più attese dell'anno, del ritorno a cinque anni di distanza dall'album precedente di uno degli artisti più originali, dotati e amati in ambito "indie" internazionale. Il nuovo di Sufjan Stevens, insomma. Un'uscita su cui l'etichetta avrà investito sicuramente moltissimo, non potendosi permettere un suo fallimento commerciale.

Quindi: c'è chi dice "non scaricate, siamo un'etichetta indipendente e i soldi per fare questo disco sono gran parte del nostro budget, tenetene conto", c'è chi dice "non scaricate, pezzi di merda" e basta, e c'è chi dice esattamente il contrario.
E se la strategia che paga - in tutti i sensi - di più fosse la seconda?

I commenti al post, fino ad ora, paiono una smentita (tutta da verificare dal 30 marzo in poi, per carità) dell'assunto secondo cui chi scarica non compra.



Certo, il download illegale di album interi resta un protagonista della fruizione musicale di questi tempi, e uno dei responsabili principali della crisi della discografia, ma pare ormai scavalcato da altre forme più semplici e meno da appassionati.
A usarlo restano i compratori forti, quelli che scaricano e poi vanno in negozio o su Amazon. Quelli che portano i soldi alle etichette, come hanno sempre fatto o come hanno imparato a fare. Nodata e simili sono essenziali, per loro.

Per questo, la sensazione è che la strada presa da Asthmatic Kitty sia probabilmente quella giusta. L'altra la si è provata, e non sembra aver portato tutti questi risultati.
Voi, a parità di bellezza del disco, comprereste quello di Asthmatic Kitty o quello di chi toglie i link e minaccia vie legali?

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