(Poche note aggiunte qui in cima, ma a posteriori: la tracotanza e la menzogna sono sotto gli occhi di tutti, così come l'orrore, ed è davvero poca la voglia di dire la mia. L'impero colpisce ancora, tutto lascia pensare che sia solo l'inizio e tutto sembra andare come deve andare che noi lo vogliamo o no. Preferisco invitarvi, ma sono sicuro che non avete bisogno del mio invito, a cercare informazioni contaminate il meno possibile e a boicottare il più possibile. STOP THE SON OF A BUSH!!!)
Trattandosi del quinto titolo reggae su sei (ed essendocene molti altri già in coda) mi pare sensato ribadire un paio di cosa già dette e ormai sperdute da qualche parte negli archivi.
Mi raffiguro la maggior parte dei lettori di “Soul Food” come fruitori di rock indipendente in senso lato, e come tali me li immagino soprassedere di fronte alla spesso schiacciante maggioranza black dei dischi di cui mi trovo a parlare. Soprassedere non tanto in sede di lettura del weblog, quanto in sede di approfondimento successivo. Almeno fino a quando qualche bianco non si metterà a fare musica direttamente influenzata da questa e noi la compreremo. Quella, ovviamente, non questa.
Chi legge Sodapop mi avrà già sentito blaterare di queste cose (e di altre, vedi la non-differenza tra dub e reggae). Chi non la legge farebbe bene a leggerla: un manipolo di valorosi si occupa con competenza e rigore che mi sono sconosciuti di rock indipendente in senso lato. Il sottoscritto si occupa di reggae. Se volete leggere le mie recensioni, cliccate sui nomi che non conoscete
Se state cominciando a capire che la musica è tutta bella ma il reggae lo è un po’ di più, e desiderate ulteriori e ben più seri approfondimenti, vi consiglio l’acquisto immediato di “The Rouch Guide To Reggae” di Steve Barrow e Peter Dalton. La si trova piuttosto facilmente, ed è qualcosa di imprescindibile.
6. Phil Pratt Phil Pratt Thing
(Pressure Sounds 2000, cd nuovo, € 11.00)
Da tempo avevo messo gli occhi su questo tributo alle produzioni del misconosciuto Phil Pratt, produttore non kingstoniano e quindi per certi versi al di fuori del caotico music-biz della capitale. Beh, non mi sbagliavo. Pratt aveva stile, gusto ed esperienza degni dei più illustri contemporanei, e lavorò con nomi di primissimo piano.
Ken Boothe, per esempio. Campione del pop-reggae, inaugura le danze da par suo con I’m Not For Sale, per cedere subito la scena a Big Youth ed alla sua drammatica Keep Your Dread, senza dubbio uno dei vertici di Manley Buchanan. Di seguito, due versioni strumentali del pezzo, una accreditata a Bobby Kalphat ed alle sue tastiere, l’altra dubbata a dovere.
Ancora roots & culture per continuare, e del migliore: ascoltate Going The Wrong Way di Al Campbell –o il trattamento deejay maestoso che ancora Big Youth le riserva- e ditemi se non è al livello dei grandi classici del reggae. Dello stesso Al Campbell Take These Shackles ed Every Man Say, ma quei livelli restano ineguagliati. Party Time è una versione precedente a quella che decretò la fama definitiva degli Heptones sotto l’egida di Lee Perry.
Verso la fine, si torna a temi più rilassati e terra terra: Who Gets Your Love è una delle tante prove della classe di Ken Boothe, una delle migliori (peccato non sia presente qui nella spettacolare verisone estesa con deejay contenuta nell’omonimo album). Talk About Love di un suadente Pat Kelly sul quale irrompe un Dillinger in forma smagliante è una versione discomix da manuale. Let Love In è l’unico contributo del principe Dennis Brown alla compilation, ma è più che sufficiente. Big Score, infine, è di nuovo Dillinger sulla suddetta.
PS- Per approfondimenti ulteriori sulla figura di Phil Pratt e sulle sue produzioni, impossibile non citare la web radio/zine australiana Fire Corner: lo speciale intitolato come questo cd è una meraviglia.
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