Di ritorno dall’edizione 2002 di “Musica Nelle Valli”, who’s who del rock indipendente italiano. In breve, i miei highlights: Redworms’farm (li ho visti suonare meglio, ma l’energia è sempre lì, ed un loro concerto così così vale tre concerti di quasi chiunque altro), Thalia Zedek (lei alla chitarra ed Emanuele dei Giardini Di Mirò al violino, chiusura straziante e favolosa del festival), Perturbazione (ormai una sicurezza, di loro mi piacciono soprattutto i pezzi più lenti. E “Agosto”, ovviamente, ma questo l’avevo scritto già nel report dell’anno scorso), Jaron Brittle (anche loro visti suonare meglio, ma sempre ottimi. Manca ancora qualcosa che non riesco a concretizzare, ma ne sentiremo delle belle), Sprinzi (la freschezza in persona, obbligatori nelle vostre autoradio), Bartòk (molto interessanti, a parte un cantato/cantante un po’ troppo teatrale per i miei gusti), Zu (non so se ascolterei mai un loro disco fino alla fine, ma dal vivo sono impressionanti e per nulla autoindulgenti). E poi sarò parziale, ma i Deep End hanno fatto uno dei loro concerti migliori.
Bocciati a 360°: My Cat Is An Alien.
Felicità è: avere finito la raccolta bollini da Ricordi, avere 45 euro di buono e scoprire una ventina di ristampe Tamla Motown a 4.99 l'una.
45. VV.AA. “Dub/Original Bass Culture” 2001. (cd Metro, nuovo, € 8.73).
Ancora una volta, una compilation economica da avere. La già valida Metro si conferma marchio minore ma di qualità, a cominciare dall’eccellente veste grafica della raccolta in questione. Certo, anche pescando a caso dal repertorio di colossi quali King Tubby, Prince Jammy, Niney The Observer e Lee Perry difficilmente verrà fuori un album meno che fantastico (oddio, il buon Scratch qualche cazzata l’ha fatta…), ma è anche la scelta dei brani che conta.
“Straight To The Capitalist Head” ad esempio, trattamento King Tubby di “Money” di Linval Thompson, farebbe da sola la fortuna di qualunque compilation. Beh, sappiate che il resto è praticamente tutto all’altezza. Dall’evocativo Bunny Clarke alle prese con Bobby Womack in puro stile Perry ad un Niney in forma mondiale, dalla scarnificata “Dreader Locks” di Lee (Perry) & Junior (Byles) più deejay non identificato all’unico contributo di Prince Far I & The Arabs, una “Foundation Steppers” che riecheggia minacciosa accompagnata da fiati invece caldi e jazzati. Gli Upsetters in vena mistica risplendono in “Black Bat” (su “Black Candle” di Leo Graham) e soprattutto in “Nyambie Dub” (su “Travelling” di Debra Keese & The Black 5), istantanea degli ultimi giorni dei leggendari Black Ark Studios.
Quando poi la voce ad emergere da strati di echi è quella celestiale di Horace Andy, beh, ogni commento è superfluo. Sleepy gareggia da solo.
All’interno, breve ma documentata storia del genere e note su ogni brano con originale di provenienza della versione dub. Peccato (si fa per dire) che la traccia numero 11 non sia “Better Collie” ma “Skylarking”, sempre di Horace Andy.
Comprare senza ritegno.
28/05/02
18/05/02
44. The Meditations “I Love Jah” 1980. (cd Wackies, nuovo, € 14.85).
In tempi di Blood & Fire e di ristampe colorate e documentatissime, rischiano di passare inosservate la veste ultra-spartana e le note assai parche di questo “I Love Jah”, album registrato nel 1980 e fino a ieri inedito del quale ben poco si sapeva e si sa. Tipico trio vocale, con collaborazioni di primissimo ordine (Bob Marley, Lee Perry, Gregory Isaacs, The Congoes) all’attivo, sotto l’egida del produttore Lloyd “Bullwackie” Barnes i Meditations aggiornano appena lo stile ai dettami della decade nascente, conservando inalterata la carica roots mistica di sempre. Nell’arco di sei brani medio-lunghi, talvolta ulteriormente allungati in timide version, il leader Ansel Cridland e i fidi Danny Clarke e Winston Watson cantano che è un piacere, e confezionano una piccola chicca di reggae-soul minore.
In tempi di Blood & Fire e di ristampe colorate e documentatissime, rischiano di passare inosservate la veste ultra-spartana e le note assai parche di questo “I Love Jah”, album registrato nel 1980 e fino a ieri inedito del quale ben poco si sapeva e si sa. Tipico trio vocale, con collaborazioni di primissimo ordine (Bob Marley, Lee Perry, Gregory Isaacs, The Congoes) all’attivo, sotto l’egida del produttore Lloyd “Bullwackie” Barnes i Meditations aggiornano appena lo stile ai dettami della decade nascente, conservando inalterata la carica roots mistica di sempre. Nell’arco di sei brani medio-lunghi, talvolta ulteriormente allungati in timide version, il leader Ansel Cridland e i fidi Danny Clarke e Winston Watson cantano che è un piacere, e confezionano una piccola chicca di reggae-soul minore.
17/05/02
43. VV.AA. “Pulp Fusion – Return To The Tough Side” 1998. (cd Harmless, nuovo, € 15.15, AMG).
Passate oltre il pessimo nome che questa serie di raccolte si è scelta, e prestate piuttosto attenzione all’occhiello (“Original 1970’s Ghetto Jazz & Funk Classics”), perchè il contenuto è serissimo, anche se altalenante a seconda dei vari volumi e all’interno del volume stesso. Puro funk dal sapore jazzato, brani per la maggior parte strumentali, lunghi e dilatati.
L’iniziale “Wiggle Waggle” (un Herbie Hancock stellare da manuale del groove), i seguenti 9 minuti di Blue Mitchell (a scanso di equivoci ex-partner dei suoi soul brothers Red e Whitey in un trio), la toccante versione strumentale di “Slippin’ Into Darkness” dei War a cura del Ramsey Lewis Trio, il fluido funk africanizzato di O’Donel Levy, l’abuso di wah-wah dei Mandrill nella bizzarra “Fat City Strut”, i soliti scatenati Soul Searchers, Eumir Deodato e la sua torrenziale “September 13” in odore di Cymande, la celebre “Right On” di Clarence Wheeler And The Enforcers. Solo una manciata di pezzi minori, ma pur sempre ottimi esempi di musica nera anni ’70, evita la classificazione del disco come Manuale Bello e Buono.
Passate oltre il pessimo nome che questa serie di raccolte si è scelta, e prestate piuttosto attenzione all’occhiello (“Original 1970’s Ghetto Jazz & Funk Classics”), perchè il contenuto è serissimo, anche se altalenante a seconda dei vari volumi e all’interno del volume stesso. Puro funk dal sapore jazzato, brani per la maggior parte strumentali, lunghi e dilatati.
L’iniziale “Wiggle Waggle” (un Herbie Hancock stellare da manuale del groove), i seguenti 9 minuti di Blue Mitchell (a scanso di equivoci ex-partner dei suoi soul brothers Red e Whitey in un trio), la toccante versione strumentale di “Slippin’ Into Darkness” dei War a cura del Ramsey Lewis Trio, il fluido funk africanizzato di O’Donel Levy, l’abuso di wah-wah dei Mandrill nella bizzarra “Fat City Strut”, i soliti scatenati Soul Searchers, Eumir Deodato e la sua torrenziale “September 13” in odore di Cymande, la celebre “Right On” di Clarence Wheeler And The Enforcers. Solo una manciata di pezzi minori, ma pur sempre ottimi esempi di musica nera anni ’70, evita la classificazione del disco come Manuale Bello e Buono.
11/05/02
Non so se vi è mai capitato di prendere dieci minuti di permesso dal lavoro per andare a comprare un cd usato visto la sera prima ma non comprato perchè senza soldi. Se vi è capitato, siete miei amici. Due album degli Impressions su un solo cd per 10 euro non potevano aspettare.
42. The Great Deceiver "Cave-In" 1999. (mcd Bridge, nuovo, € 6.00, AMG).
Pur avendo suonato fino a qualche settimana fa in un gruppo di hardcore brutale tendente al metallo, ascolto davvero poca roba del genere. Di tanto in tanto, però, mi capita di mettere la mani su qualcosa di favoloso, ultimi in ordine cronologico i canadesi Black Hand. Non sono quindi un grosso esperto in materia, ma questi svedesi si aggiungono con prepotenza alla lista. Guidati dalla voce mostruosa si Tomas Lindberg, che i più capelloni tra voi ricorderanno nei campioni del death melodico At The Gates, The Great Deceiver inanellano riff micidiali e ritmi devastanti su un solido impianto hardcore-noise. Mai velocissimi nè prolissi, spesso inclini all’apertura melodica così come alle linee di chitarra lancinanti. Peccato che nella foto mostrino delle facce un po' da cazzo, il (fu) metallaro Lindberg soprattutto.
42. The Great Deceiver "Cave-In" 1999. (mcd Bridge, nuovo, € 6.00, AMG).
Pur avendo suonato fino a qualche settimana fa in un gruppo di hardcore brutale tendente al metallo, ascolto davvero poca roba del genere. Di tanto in tanto, però, mi capita di mettere la mani su qualcosa di favoloso, ultimi in ordine cronologico i canadesi Black Hand. Non sono quindi un grosso esperto in materia, ma questi svedesi si aggiungono con prepotenza alla lista. Guidati dalla voce mostruosa si Tomas Lindberg, che i più capelloni tra voi ricorderanno nei campioni del death melodico At The Gates, The Great Deceiver inanellano riff micidiali e ritmi devastanti su un solido impianto hardcore-noise. Mai velocissimi nè prolissi, spesso inclini all’apertura melodica così come alle linee di chitarra lancinanti. Peccato che nella foto mostrino delle facce un po' da cazzo, il (fu) metallaro Lindberg soprattutto.
10/05/02
41. U2 “11 O’Clock Tick Tock/Touch” 1980. (7” Island, usato, € 10.00, AMG).
Per farla breve, gli U2 sono stati il mio primo ascolto non convenzionale e non mainstream. Vero, anche il Franco Battiato periodo “La Voce Del Padrone” in seconda media era un ascolto sicuramente non convenzionale (i canzonieri da campo estivo con accordi per chitarra tentavano “Cuccuruccuccu” o “Bandiera Bianca”, ma si vedeva che faticavano a considerare il siciliano cantautore tra schiere di De Gregori e Venditti…), ma baciato da sufficiente popolarità per poter essere considerato (quasi) mainstream.
“Under A Blood Red Sky” è il primo disco che ho comprato con i miei risparmi, 8500 lire, dopo uno speciale a “Deejay Television” che mi aveva cambiato la vita. “The Unforgettable Fire” me lo aveva regalato mia mamma il giorno dell’esame di terza media. E non ridete, gli U2 nel 1985 erano un ascolto non convenzionale, all’istituto tecnico non li cagava nessuno. Giusto io primino e un’altra tipa in un’altra prima che però girava con gente di quinta. E questa gente di quinta, ovvio. Ma io ero iscritto al fan club italiano, loro no.
Di “11 O’Clock Tick Tock” conosco quindi a memoria la versione muscolare ed ispirata presente sul disco dal vivo, ma non quella in studio presente solo su questo singolo. Quando comincia stento a riconoscerla, così timida e abbozzata, con una batteria fin troppo in primo piano. E anche il pezzo, lo si conceda a un fan di vecchia data, non mi è mai sembrato memorabile come la quasi totalità di quelli presenti su “Boy” (oh, “Boy”). Stesso discorso per “Touch”, inedito assoluto reperibile solo su questo dischetto: c’è la fragilità delle prime cose del gruppo, su un pezzo appena più aggressivo del suo lato A. Detto questo, staccherei assegni per vedere dal vivo gli U2 degli esordi.
Per farla breve, gli U2 sono stati il mio primo ascolto non convenzionale e non mainstream. Vero, anche il Franco Battiato periodo “La Voce Del Padrone” in seconda media era un ascolto sicuramente non convenzionale (i canzonieri da campo estivo con accordi per chitarra tentavano “Cuccuruccuccu” o “Bandiera Bianca”, ma si vedeva che faticavano a considerare il siciliano cantautore tra schiere di De Gregori e Venditti…), ma baciato da sufficiente popolarità per poter essere considerato (quasi) mainstream.
“Under A Blood Red Sky” è il primo disco che ho comprato con i miei risparmi, 8500 lire, dopo uno speciale a “Deejay Television” che mi aveva cambiato la vita. “The Unforgettable Fire” me lo aveva regalato mia mamma il giorno dell’esame di terza media. E non ridete, gli U2 nel 1985 erano un ascolto non convenzionale, all’istituto tecnico non li cagava nessuno. Giusto io primino e un’altra tipa in un’altra prima che però girava con gente di quinta. E questa gente di quinta, ovvio. Ma io ero iscritto al fan club italiano, loro no.
Di “11 O’Clock Tick Tock” conosco quindi a memoria la versione muscolare ed ispirata presente sul disco dal vivo, ma non quella in studio presente solo su questo singolo. Quando comincia stento a riconoscerla, così timida e abbozzata, con una batteria fin troppo in primo piano. E anche il pezzo, lo si conceda a un fan di vecchia data, non mi è mai sembrato memorabile come la quasi totalità di quelli presenti su “Boy” (oh, “Boy”). Stesso discorso per “Touch”, inedito assoluto reperibile solo su questo dischetto: c’è la fragilità delle prime cose del gruppo, su un pezzo appena più aggressivo del suo lato A. Detto questo, staccherei assegni per vedere dal vivo gli U2 degli esordi.
07/05/02
40. That Petrol Emotion “Manic Pop Thrill” 1986. (lp Demon, usato, € 12.00, AMG).
Quando un disco non lo si ascolta da così tanto tempo, riprenderlo in mano è un terno al lotto. I ricordi più calorosi possono lasciare il posto al più crudo dei come eravamo nel breve volgere dei primi due pezzi, ed il timore questa volta era davvero forte. Ma è andato tutto bene.
Fedele lettore di “Rockerilla” e “Mucchio Selvaggio”, ma acquirente giocoforza timido vista l’età e la mai sufficiente paghetta, avevo prontamente allungato la mia Sony da 90 al fratello di Andrea Barral per farmi registrare questi That Petrol Emotion di cui si dicevano meraviglie. Di vinili se ne compravano uno o due al mese, andando apposta in città col treno, il resto erano cassette e cassette. E “Stereodrome”. “Manic Pop Thrill”, comunque, era diventato uno dei miei dischi preferiti. Aspro e fiero, mi portava tentatore verso quell’undeground che il primo amore U2 cominciava ad abbandonare. “Psychocandy”, dell’anno prima, era un discorso a parte. Nordirlandesi con gli occhi aperti, in parte reduci dall’esperienza Undertones, That Petrol Emotion affascinavano con il loro rock chitarristico né punk né new-wave, ma aggressivo come il primo ed oscuro come la seconda, ed occasionalmente spezzato da ballate velvettiane placide solo in superfice (velvettiane, appunto). Per un quindicenne già guardato strano perché a scuola portava gli U2 e i R.E.M., loro erano un passo ulteriore dentro il nuovo, un rischio corso non ancora completamente convinti. Ma corso, e a ragione.
Ovvio quindi l’acquisto non appena il titolo compare nelle liste sempre dense di sorprese dell’amico Debrodo. La stessa edizione di allora (vinile giallo strombazzato dall’adesivo in copertina, elegante busta interna con testi) non porta forse le stesse emozioni pericolose di allora, ma si conferma quindici anni dopo come un lavoro che regge magnificamente il peso del tempo.
Quando un disco non lo si ascolta da così tanto tempo, riprenderlo in mano è un terno al lotto. I ricordi più calorosi possono lasciare il posto al più crudo dei come eravamo nel breve volgere dei primi due pezzi, ed il timore questa volta era davvero forte. Ma è andato tutto bene.
Fedele lettore di “Rockerilla” e “Mucchio Selvaggio”, ma acquirente giocoforza timido vista l’età e la mai sufficiente paghetta, avevo prontamente allungato la mia Sony da 90 al fratello di Andrea Barral per farmi registrare questi That Petrol Emotion di cui si dicevano meraviglie. Di vinili se ne compravano uno o due al mese, andando apposta in città col treno, il resto erano cassette e cassette. E “Stereodrome”. “Manic Pop Thrill”, comunque, era diventato uno dei miei dischi preferiti. Aspro e fiero, mi portava tentatore verso quell’undeground che il primo amore U2 cominciava ad abbandonare. “Psychocandy”, dell’anno prima, era un discorso a parte. Nordirlandesi con gli occhi aperti, in parte reduci dall’esperienza Undertones, That Petrol Emotion affascinavano con il loro rock chitarristico né punk né new-wave, ma aggressivo come il primo ed oscuro come la seconda, ed occasionalmente spezzato da ballate velvettiane placide solo in superfice (velvettiane, appunto). Per un quindicenne già guardato strano perché a scuola portava gli U2 e i R.E.M., loro erano un passo ulteriore dentro il nuovo, un rischio corso non ancora completamente convinti. Ma corso, e a ragione.
Ovvio quindi l’acquisto non appena il titolo compare nelle liste sempre dense di sorprese dell’amico Debrodo. La stessa edizione di allora (vinile giallo strombazzato dall’adesivo in copertina, elegante busta interna con testi) non porta forse le stesse emozioni pericolose di allora, ma si conferma quindici anni dopo come un lavoro che regge magnificamente il peso del tempo.
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