146. The Allman Brothers Band “Brothers & Sisters” 1973.(cd usato, Unicorn, € 6.00).
Non sono granchè pratico della discografia della band, e tra i vari album che la bancarella ha scelgo questo. Perché tempo fa è uscito allegato all’Espresso nella collana sui classici del rock (ogni tanto toppano, ma di solito il titolo scelto è realmente il più significativo nella carriera dell’artista), ma soprattutto perché ha una copertina splendida che pare preannunciarne il contenuto. Ed una foto di gruppo sul retro che è qualcosa di fantastico: quelli che intuisco essere i membri della band ritratti insieme a donne, bambini, amici e cani in un pomeriggio autunnale, di fronte ad una casa nel bosco, sereni e sorridenti nonostante le traversie che ne avevano già segnato l’esistenza (la morte dei fondatori Duane Allman e Berry Oakley, due incidenti motociclistici a un anno e a pochi metri di distanza). Una foto di gruppo, probabilmente scattata nella casa di Macon dove la band viveva, che spande una sensazione di relax e di America primi ’70. America sudista, ovvio, ma quella America sudista che fece dell’integrazione e della commistione di stili e razze una ricchezza. Come nella foto vediamo bianchi e neri, nel suono sentiamo il blues e il rock’n’roll fondersi con il country in quello che fu celebrato come southern rock.
“Brothers And Sisters” è però, appunto, più rilassato rispetto agli esordi del gruppo e ai contemporanei Lynyrd Skynyrd. La chitarra solista di Dickey Betts e il piano di Chuck Leavell duettano a meraviglia in jam che dal vivo venivano dilatate oltremisura per il puro piacere di farlo, mentre le due batterie di Butch Trucks e Jaimoe stendono il ritmo insieme al basso di Berry Oakley (nei due pezzi registrati prima di morire) o Lamar Williams.
147. Blur “The Great Escape” 1995.(cd usato, Food/EMI, € 7.00).
Chiedo venia, ma i Blur prima dell’eccezionale album omonimo del 1997 li conosco solo dai singoli, e qui di singoli ce ne sono tre di memorabili: “Country House”, più british della regina, la gloriosa “The Universal” e la scoppiettante “Charmless Man”. E forse anche “Stereotypes”, chissà. Il resto dell’album lo scopro ora ai medesimi livelli, forse solo un po’ troppo lungo con i suoi quindici brani in tutto, spesso impostati sullo stesso canovaccio.
Sorta di concept a 360° su splendori e miserie della classe media inglese –che fa molto Kinks, ma lo si è già detto- “The Great Escape” è l’ultimo atto dei Blur prima parte, l’apice della popolarità in chiave brit-pop e la prova che lo spessore del quartetto andava e va ben oltre i singoli da classifica. Nello stesso tempo, la gran parte dei pezzi avrebbe potuto esserlo, ma senza per questo perdere un grammo di inventiva, complessità, significato.
Loro vestiti da manager, nella foto sul retro, sono raccapriccianti (o forse raccapricciante è soltanto l’effetto che fanno quattro manager inglesi vestiti come otto anni fa), ma il progetto grafico dell’album è davvero notevole.
148. The Untold Fables “Aesop’s Apocalypse” 1989.(lp nuovo, Dionysus, € 5.16).
Oh, un disco che mi riporta indietro di una quindicina di anni, ai tempi di “Lost Trails” e dell’esplosione garage di metà ’80, di “Rockerilla” e dei viaggi in città una o due volte al mese per comprare (uno o due) dischi, di “Do The Pop” e dei concerti allo Studio Due o al vecchio Hiroshima (a trenta metri dal quale, guarda un po’ il destino, sono finito ad abitare molti anni dopo). Concerti ai quali noi teenagers di provincia con l’ultimo treno utile a mezzanotte e mezza ci facevamo accompagnare da mio papà, che inizialmente si spinse fin dentro i locali (citando ancora adesso con destrezza Husker Du e Died Pretty) e successivamente optò per un più consono cinema.
Uno tra i più memorabili di questi concerti, in ogni caso, fu quello dei Miracle Workers. Era da poco uscito “Overdose”, lo strepitoso album della svolta punk/hard, e come nuovo bassista presentavano in formazione tale Robert Butler. Il capellone non ci mise molto a diventare il nostro idolo, più che per la maglietta con enormi falce e martello che indossava quella sera, per la sua orgogliosa militanza nelle schiere beach punk losangelene che all’epoca adoravamo senza riserve. Bassista di un nome di punta del revival garage-rock appena affrancatosi dagli stilemi revivalisti ormai ripetuti a memoria del genere, citava Circle Jerks e Black Flag come sue influenze primarie, ricollegando così idealmente il punk dei ’60, quello delle miriadi di garage bands da un singolo e via, con quello dei ’70 e dei primi ’80.
Suo biglietto da visita -oltre ai Miracle Workers- il suo primo gruppo, gli Untold Fables. Anche loro partiti dal revival, ma fin da subito animati da un fuoco punk (vedi il chitarrista John Niederbrach in maglietta Ramones) e hardcore, irruppero sulla scena con un album (“Every Mother’s Nightmare”, Dionysus 1985, registrato al Westbeach da Brett Gurewitz, tanto per capirci) da allora considerato tra i fondamentali del garage rock anni ’80. Oltre che tra i più grossi rimpianti del sottoscritto, che lo ha visto una volta sola intorno a quegli anni e non lo ha comprato.
Uscito postumo nel 1989, “Aesop’s Apocalypse” comprende undici brani registrati in due sessioni nel 1986 e nel 1987. Due -“Wendylyn” e la memorabile ballata “The Man And The Wooden God”- avevano già visto la luce su un 7” del 1987 per Dionysus (insieme a “For My Woman” e alla grandissima cover di “When The Night Falls” degli inglesi Eyes), tutto proveniente dalle sessions del 1986. Altre cinque, dalle sessions seguenti e sempre più frenetiche e veloci, su un 7” del 1988 per la tedesca Mystery Scene e su una compilation (“Dimensions Of Sound”, 1987) per la stessa etichetta. Dischi che ho tutti, a scanso di equivoci. Fesso una volta sì, due no.
Onore quindi al solito Blatter, che mette una copia ancora sigillata di “Aesop’s Apocalypse” nello scomparto delle super-offerte e mi fa tuffare nel passato, con quattro inedite: il selvaggio stomp di “I Think” e le cover di “Shot Down” (Sonics), “Cry In The Night” (Q65) e “By My Side” (non so di chi sia), quest’ultima però mai selvaggia come la versione dei Morlocks sul loro primo, introvabile, inascoltabile, meraviglioso primo album “Emerge”. Olè!
E oggi? Robert Butler ha ritrovato un altro Miracle Worker, il cantante Gerry Mohr, nei Get Lost. Il cantante Paul Carey ha militato nei Witch Doctors (esistono ancora?). Di John Niederbrach e del batterista Paul Sakry nessuna traccia. Ma occhio, si parla di un cd riepilogativo in uscita prima o poi!
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