58. James Brown “Hell” 1974. (cd nuovo, Polygram, € 9.99).
Nasce strano questo album di metà anni settanta del Godfather Of Soul: un doppio quasi concept sulle miserie della società, con sette brani che sono rifacimenti dal proprio repertorio e solo quattro brani con i suoi magici J.B.’s ad accompagnarlo. Eppure funziona, merda se funziona, e suona pure molto più compatto di quanto si potrebbe pensare.
L’inizio è infatti funk con il bollino oro, quattro bombe in rapida sequenza: “Coldblooded”, la title-track, “My Thang” e “Sayin’ And Doin’ It”. Piglia su e porta a casa. Ma quando parte la traccia numero 5, rifacimento in chiave salsa del superclassico “Please, Please, Please”, il pacchiano è dietro l’angolo. Tanto più se al numero 6 sta una “When The Saints Go Marching In” funkizzata come fosse creatura propria. Eppure, come già detto, superato lo shock iniziale si fanno ascoltare pure loro. Si va avanti, e c’è posto per altro funk stellare (“Stormy Monday”, “I Can’t Stand It 76”, “Don’t Tell A Lie About Me And I Won’t Tell The Truth About You”), lentazzi mozzafiato (“A Man Has To Go Back To The Crossroad Before He Finds Himself”) e soul di classe (“These Foolish Things Remind Me Of You”, “Lost Someone”). Fino al gran finale in pura maniera JB, con i quasi quattordici minuti di “Papa Don’t Take No Mess”.
Da leggenda la copertina, il retro (“He’s too strong, we can’t stop him” dice un mostro, “That’s because he’s the Godfather” risponde un altro) e l’interno, con il Nostro in completo scuro e baffi tra le parole al vetriolo della title-track (“In the streets it’s hell/In the ghetto it’s hell/In the White House it’s hell/It’s hell giving up the best years of your soul/It’s hell when you don’t have a job and you can’t eat” e avanti così).
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