84. Etta James “The Best Of Etta James” 2000. (cd nuovo, Spectrum, € 2.00).
Ricordo ancora il mio primo contatto con Jamesetta Hawkins. Fu in realtà un contatto con Sugar Pie Desanto. Cosa passasse nella testa, dei coniugi Desanto al momento di chiamare la figlia Sugar Pie non lo so, e se fosse invece un nome d’arte non so nemmeno cosa passasse nella sua di testa quando lo scelse. Ma la signorina ebbe comunque una popolarità minore grazie ad alcune incisioni per la Chess, radunate in una compilation della stessa Chess che misi su per pura curiosità (Sugar Pie Desanto, non so se mi spiego) nell’impianto del megastore musicale dove lavoravo.
Partì “In The Basement - Part One”, e nel tempo necessario al cervello per comunicare alle mani di stoppare immediatamente il cd e metterlo al sicuro una ragazza se lo era già comprato e messo in borsa. Una che stava al 99% comprando il suo primo disco soul, forse perché le ricordava qualche pubblicità vista in tv. Ne stava comprando l’unica copia in negozio, molto probabilmente rimasta a pigliare polvere nello scaffale fino a cinque minuti prima, e gliela stavo vendendo io. Incapace di raffazzonare un “Mi spiace ma è prenotato” qualunque, mi abbandonai a un patetico quanto perdente in partenza tentativo di farmelo almeno registrare su cassetta (addavenì masterizzatore…) e portare “la prossima volta che passi di qui”. Patetico, patetico.
La suddetta perla, e qui veniamo al dunque, vedeva la nostra Tortina duettare con l’amica d’infanzia Etta James (anche Jamesetta non scherza come nome, eh?) in un torrido rhythm’n’blues botta-e-risposta che rianimerebbe anche il più loffio dei dancefloor nello spazio di otto battute. “In The Basement - Part One”, appunto. Che meraviglia. Ora, finalmente, anche mia.
Il resto della presente raccolta, ottimo sunto di una carriera luminosa punteggiata da problemi di droga, copre grossomodo il periodo tra il 1960 ed il 1968 con qualche puntata nei primi/medi anni ’70, ed è un concentrato di vitalità e grinta. Dopo settimane di Motown, con tutto il rispetto, questo è un salutare cazzotto in faccia. Etta canta dalle viscere, ha meno sezioni di archi ad accompagnarla e più blues a guidarla. Poco confronto, insomma: dove la Motown è sostanzialmente intrattenimento di gran classe qui si assapora la vita, e i giorni chiari o bui che di volta in volta ci riserva. Se Brenda Holloway canta “You’ve Made Me So Very Happy”, Etta qualche anno prima grida “I Just Want To Make Love To You” fuori dai polmoni, sottoscrivendone ogni sillaba. Questo colpisce di Etta: la carica, la sfacciataggine, la passione, la voce da cattiva ragazza. Il suo è un rhythm’n’blues che sconfina di volta in volta nel soul, nel funk, nel gospel o nel blues e basta, umano fino in fondo e oltre come solo i più grandi hanno saputo essere, essenziale crocevia tra la Chicago dove risiede e il sud dove spesso registra. Grande, grande, grande.
PS - D’obbligo, a questo punto, un pezzo di Eddy Cilìa su uno dei prossimi “Blow Up”.
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