31/12/11

Sempre più in altoooo!


Ammesso che i Babbo Natale rampicanti abbiano un senso, questo qui a chi cazzo sta portando i regali?

19/12/11

Senti questo


Dal 15 gennaio, una domenica sì e una no dalle 19 in avanti, il mio prepotente ritorno sulla scena torinese. Il tutto grazie agli amici di Astoria, nuovo bar/club a due passi da dove ho abitato per cinque anni, quando San Salvario e movida erano ancora due parole che raramente comparivano nella stessa frase. Qui di seguito le due righe ufficiali della cosa. Alex Ross abbi pazienza.

SENTI QUESTO
DJ Andrea Pomini
A spasso per gli scaffali del giornalista musicale e dj pinerolese. L'unico dj che non solo vi dirà che pezzo sta suonando, ma sarà ben felice di farlo, e ne approfitterà per farvi un pippone di venti minuti al riguardo.
Tag: ritmo, lingue, globale, locale, disco, funk, jazz, house, psichedelia, afrobeat, cumbia, edits, basso, batteria, bonghetti, stanza dell'eco, relax, domenica, Novantesimo Minuto, Al Jazeera English, Ryszard Kapuściński, Leovegildo Lins da Gama Júnior, Diego Armando Maradona, Óscar Wáshington Tabárez, Abedi Ayew, famolo strano, Londra, Lagos, New York, Kingston, Tehran, Monaco di Baviera, Phnom Penh, Lazise, Addis Abeba, Barranquilla, Poggio Bustone, Mumbai, Cairo.

11/12/11

"Bravi ragazzi siamo, amici miei"



Ancora una volta è una bella gara, ma nell'incredibile (anzi purtroppo credibilissima) vicenda della sedicenne torinese, dello stupro inventato col fratello incolpando "due che sembravano zingari" e della successiva fiaccolata trasformatasi in "fiaccolata" che brucia il campo nomadi della Continassa, e nella testimonianza del segretario cittadino del PD Paola Bragantini, noto alcune cose più pazzesche di altre.

"I pieghevoli nelle buche incitavano alla violenza, al ripuliamo la Continassa. I segnali c'erano tutti".
Come vedremo, segnali colti con tempismo dalle forze dell'ordine, che subito inviavano un contingente massiccio di uomini.

E nel quartiere da tempo c'è chi vorrebbe veder chiuso quel campo abusivo chiuso nelle mura di una vecchia cascina diroccata che si trasformerà nella sede della Juventus.
Ah!

Quanti uomini delle forze dell'ordine c'erano a vigilare sul corteo? "Ho visto due o tre carabinieri, qualche poliziotto".
Un contingente massiccio, si è detto.

Quando ha chiesto rinforzi cosa le hanno risposto? "Che il campo era già stato evacuato da un quarto d'ora".
Geniale: invece di impedire il pogrom, lo prendo come fatto scontato e inevitabile, e casomai aiuto le vittime designate a mettersi in salvo prima del disastro.

Chi c'era in corteo? "Gruppi organizzati da stadio. Non so di quale genere. Si diceva Bravi Ragazzi e Drughi".
Ahhhhhhh!

E le persone rimaste fuori, nessuno ha cercato di fermarli? "No, mentre bruciava tutto intonavano cori da stadio".
Aaaaaaaaaaaaaahhhhhhh!
In Egitto, come ho raccontato qui qualche giorno fa, gli ultras sono parte attiva e responsabile delle manifestazioni di piazza contro Mubarak prima e contro il regime militare poi.
In Italia invece vanno a bruciare i campi nomadi. E tutto ricorda un'altra vicenda in maniera molto sinistra, come se si stesse configurando una sorta di metodo per raggiungere in fretta e senza troppe lungaggini burocratiche i propri obiettivi. La war on terror come coperta da gettare su ogni nefandezza, applicata al locale e non al globale.

E in tutto questo, nell'ansia da condanna e da politicamente corretto, il sindaco Piero Fassino dichiara "inaccettabile che si dia luogo a manifestazioni di linciaggio nei confronti di persone estranee ai fatti con la sola ragione che sono cittadini stranieri". Ignorando o più probabilmente facendo finta di ignorare che i cosiddetti "nomadi" in Piemonte si chiamano Sinti, che nomadi non lo sono quasi più da decenni, e che la maggioranza di loro ha cittadinanza italiana da generazioni. Poi forse quelli scappati dalla Continassa sono effettivamente cittadini stranieri, ma pensate che un Drugo o un Bravo Ragazzo stia a sottilizzare su queste cose?

PS - Letture consigliate:

03/12/11

Judy was a punk



Passata l'euforia per un video del genere, resta la domanda da cento milioni: come mai, fra una dozzina d'anni o anche meno, il 90% di questi bambini ascolterà musica di merda e non avrà nemmeno un disco dei Ramones in casa?
Perché, archiviata questa splendida dimostrazione di come la musica agisca a livello istintivo prima ancora che culturale (e di come i Ramones abbiano sempre fatto splendida musica da cartoni animati, in un certo senso), la maggior parte di loro sarà conformata a un'idea di gusto che pone alcune cose fuori dal recinto dell'ascoltabile e del normale, e altre dentro?
Non si tratta forse dell'ennesima dimostrazione di come le scelte e le passioni siano, prima che nostre, smistate a monte?
Perché Nevermind ha venduto più di trenta milioni di copie in tutto il mondo?

02/12/11

1. Fleet Foxes. Helplessness Blues. Sub Pop.



Difficile ripetersi, dopo un inizio così. Si era gridato da più parti al miracolo, nel 2008, quando dal nulla o quasi sbucarono i Fleet Foxes, cinque ventenni di Seattle che parevano presi di peso dal 1971 e dalle collezioni di vecchi vinili dei loro genitori: barbe, capelli, camicie a quadri, chitarre acustiche e armonie vocali degne dei più celebrati protagonisti del suono west coast. Si era gridato al miracolo a torto, oggi possiamo dirlo, perché la bellezza di quel primo ep (Sun Giant) e di quel primo album omonimo sono poca cosa – in senso del tutto relativo, sia chiaro – di fronte a quello che è venuto in seguito. Il vero miracolo Robin Pecknold e soci lo hanno fatto quest'anno, infatti, riuscendo non solo a confermarsi ma a migliorarsi, nonostante pressioni enormi, soglie di attenzione ai minimi da parte del pubblico e secondi album letali per la maggior parte dei loro colleghi. E davvero miracoloso suona Helplessness Blues, che parte dal suono già inconfondibile del gruppo e lo rende più denso, maturo e stratificato, ma egualmente magico, e prefigura diversi possibili sviluppi futuri. Da lì comincia la nostra chiacchierata con Pecknold stesso, in attesa di vedere il gruppo dal vivo in Italia a novembre (il 17 a Roma, il 19 a Bologna e il 20 a Milano).

Al primo ascolto, Helplessness Blues sembra solo un nuovo disco dei Fleet Foxes. Col tempo però si rivela molto più intenso ed elaborato del vostro primo album, pur restando inconfondibilmente vostro...
È esattamente quello che volevamo. L'album non è stato scritto da una band tutta diversa in uno stile tutto diverso, anche se sarebbe interessante provarci. Sapevamo sarebbe stato una continuazione del discorso iniziato con il primo disco, ma con più carattere. Abbiamo speso più tempo sulle canzoni, ci abbiamo lavorato così a lungo che siamo arrivati a conoscere intimamente ogni loro parte, anche se alla fine della registrazione avremmo comunque ritoccato molte cose. Ma fare qualcosa di più ricco era decisamente il nostro scopo.

Come mai il lavoro è stato così lungo e faticoso?
Per tre ragioni soprattutto. Volevamo più tempo libero, dopo essere stati quasi costantemente in tour per un paio di anni; tempo per stare più speso a casa a suonare e scrivere. Inoltre, avevamo dubbi su alcune canzoni e alcuni arrangiamenti. Infine, ci sono stati un po' di problemi tecnici e sfighe. Circostanze e sfighe: senza una delle due cose l'album sarebbe uscito prima.

Ne aggiungerei una quarta: sembra davvero che ci sia stato un maggiore lavoro sulle singole canzoni.
Per il primo album avevamo una dozzina di canzoni, nove le abbiamo scartate e sostituite con altre più nuove. Per Helplessness Blues, invece, abbiamo più o meno tenuto sempre quelle, e invece di scartarle e scriverne di nuove abbiamo lavorato costantemente su quelle, rifacendo gli arrangiamenti a tutte.

È vero che ti sei ispirato a Stormcock di Roy Harper?
Sì. Lui, John Fahey e Robbie Basho sono fra i miei chitarristi preferiti. Mi piace molto suonare la chitarra a dodici corde e scrivere in quel modo. Stormcock in particolare ha canzoni in cui l'arrangiamento sembra molto semplice per sei minuti buoni, e poi tutto si trasforma totalmente. C'è qualcosa di molto ragionato nella lunghezza delle canzoni, nel quando e nel perché le cose succedono. Tutto suona studiato e insieme molto casuale, mi è sempre piaciuta questa combinazione.

Veniamo ai concerti. Sul palco ora siete in sei, avendo aggiunto il polistrumentista Morgan Henderson, ex bassista hardcore punk con i Blood Brothers.
Non stavamo cercando un sesto membro, se non fosse stato lui non avremmo preso nessuno. Siamo diventati amici mentre stavo scrivendo l'album, ci vedevamo spesso e mi dava un sacco di consigli, era sempre in giro e ha finito per lavorare al disco con noi, è stato molto naturale. Essere in sei sul palco rende tutto più facile, il concerto scorre meglio, siamo in grado di legare meglio le canzoni e di gestire meglio le pause, con così tante mani possiamo fare andare sempre avanti la musica. Morgan ha aggiunto molto alla nostra musica, non riesco a immaginare di tornare in cinque, adesso. Penso che la nostra musica sarà diversa anche grazie a questo.

Quale canzone del nuovo disco pensi rappresenti meglio le possibili direzioni future?
The Shrine/An Argument, con le sue quattro sezioni abbastanza distinte in otto minuti. Mi piace, mi immagino un disco di una sola canzone lunga 25 o 30 minuti in quello stile, con un sacco di cose diverse che succedono messe una dietro l'altra, sarebbe bello.

Nelle nuove canzoni ci sono anche diverse parti che lasciano spazio a un suono più rumoroso e pieno, soprattutto dal vivo... diventerete più elettrici?
Non ne sono sicuro. Sto lavorando a nuove canzoni in cui sostanzialmente urlo e c'è molta distorsione, ma non so, può essere difficile. Mi piace fare dischi avventurosi, che non mantengano lo stesso umore per tutto il tempo. In futuro penso ci sarà spazio per cose molto tranquille a altre più rumorose.

In concerto mi ha colpito la vostra capacità di tenere la gente silenziosa e attenta, nonostante la clama della vostra musica. È difficile?
Nel tour del primo album abbiamo fatto lo stesso set ogni sera, per quasi due anni: cominciavamo con una canzone a cappella, per presentare il concerto nel modo che volevamo. Chiedevamo la maggiore attenzione proprio all'inizio, e avrebbe funzionato solo se la gente avesse prestato attenzione. E funzionava, la gente era molto tranquilla più o meno ovunque, e stava zitta per tutta la canzone. Il silenzio si notava.
(Il Giornale della Musica n. 287)

(Still) Buying Records / 59

01/12/11

جميع رجال الشرطة والأوباش



Chi mi conosce un po' sa che non ho mai granchè frequentato, né capito, né quindi amato la cosiddetta "mentalità ultras".
Adoro il calcio, sono andato a vedere più volte la mia squadra in curva, e pure in quei settori dove se non canti rischi le botte, e fra un celerino e un ultras sceglierei naturalmente un ultras. Ma insomma, ci siamo intesi. Si tratta di "un mondo che non mi appartiene", come direbbe uno dei protagonisti del mio libro.
Confesserò anzi che uno dei più grossi ostacoli alla mia comprensione di quel mondo è sempre stata l'obiezione più banale che da sempre si sente nei suoi riguardi: "ma tutta quella rabbia, perchè non la usano alle manifestazioni invece che contro i tifosi dell'altra squadra?". Roba da padre di famiglia, lo so.

Oggi però succede una cosa nuova, che trapela fra le maglie di un'informazione che dopo anni di messaggio univoco "ultras:male=polizia:bene" non può tollerarla (un interessantissimo saggio sui media italiani e sul loro procedere per categorie contrapposte invece di informare è Il paese dei buoni e dei cattivi di Federica Sgaggio, che sto leggendo e che consiglio vivamente anche a chi è meno pignolo del sottoscritto).
Cosa?
Che gli ultras non solo prendono parte alle più importanti manifestazioni dei nostri tempi, ma agiscono da "servizio d'ordine" di queste manifestazioni, difendendo dagli attacchi di esercito, polizia e scagnozzi vari la grande maggioranza dei manifestanti, meno o per nulla esperta di scontri di piazza. Succede anche che gli altri manifestanti, che i media piazzano dalla parte dei buoni, non solo non condannino l'operato degli ultras e dei cattivi in genere, ma anzi ne riconoscano l'importanza.

Illuminanti, in tal senso, questo reportage di Al Jazeera English, questo di Bleacher Report e questo del blog Invisible Arabs, incentrati sulla presenza non organizzata ma del tutto attiva in piazza Tahrir, sia a gennaio sia negli scorsi giorni, di ultras (normalmente acerrimi rivali) di Zamalek e Al Ahly, le due squadre più popolari dell'area del Cairo e dell'Egitto intero, e fra le più titolate d'Africa.

Cito dal primo pezzo (neretti miei):
"The Ultras are here. I know that because they’re the only ones facing the CSF with force while singing their hymns," protester Mosa'ab Elshamy wrote on Twitter on the first day of clashes.
Elshamy, a photographer and activist, was in Tahrir when he noticed the arrival of the football fanatics. They had come to confront a police force armed with rubber bullets and tear gas.
"They stayed there in the square almost through 100 hours of fighting," Elshamy said. "It’s easy to notice them because of their use of Molotov cocktails, their extreme courage and recklessness, their chants. They became a common sight."


E ancora:
Elshamy attributed the Egyptian Ultras' willingness to confront security forces with their "long history with police".
That history, said Rabab El-Mahdi, an assistant professor of political science at the American University in Cairo, is due in part to what she called "clear class confrontations".
"Since the Ultras were created, they were always targeted by state security. They are seen as a mob or as hooligans," El-Mahdi said.
"So they developed skills that none of the middle class was forced to develop. Plus they come from backgrounds where such skills are needed on daily basis just as survival mechanisms."
She added that as long as Egypt's security apparatus remained intact, violent confrontations would continue.
"The skills they developed in dealing with police came in very handy and it comes in handy every time there is a direct confrontation," El-Mahdi said.


E ancora, nelle parole di uno degli ultras stessi:
Ultras member Ahmed is also careful to explain that he and his "brothers in blood" do not attack first.
"An Ultra doesn't attack anyone," Ahmed said. "We’re a watchdog for the truth. Any unfairness that we spot, within the state or anywhere, we have to stand up for what is right."
Still, he was steadfast that the Ultras are far from a political group.
"We don't have any political direction. Whenever we go to a strike or a demonstration, we do it on an individual basis. We don't announce it. We are just here as humans. As Egyptians," Ahmed said.
"On Saturday, initially we came individually. But then we found because we have similar beliefs we went straight to the front line and there were our brothers to the left and right. The personality of an Ultra places you at the front line because you are defending a cause."


Non ricorda un po' anche le manifestazioni della nostra Val Susa? Quel video - che purtroppo non trovo - in cui si vede la folla dei manifestanti "pacifici" esultare alla riconquista del cantiere da parte dei cosiddetti "black bloc"? O quell'intervista a una signora anziana che definiva senza mezzi termini quei ragazzi degli "angeli" (e sulla retorica nell'uso del vocabolo da parte dei nostri media ci sarebbe da aprire una parentesi enorme...), perchè sapendo cosa fare in mezzo ai lacrimogeni hanno salvato la vita a decine di persone che li respiravano per la prima volta?

Come la mettiamo, dunque?

2. Falty DL. You Stand Uncertain. Planet Mu.



Si chiama Drew Lustman e viene da New York, ibridando il più eccitante suono londinese con sapori di casa: il suo è uno degli album che segneranno l'annata. Vi si sente la continuità hardcore con dubstep e relativo post, funky, garage, jungle; ma anche la Grande Mela nella piu pronunciata sensualità, nei rimandi nascosti al calore di disco e house, e nella finezza non proprio cockney. E si arriva addirittura a lambire la bassa fedeltà chillwave, con svolazzi drogati di synth e sogni ad occhi aperti. Per la prima volta inoltre Lustman si confronta con il cantato, femminile in tutti e tre i casi: Anneka nell'iniziale Gospel of Opal, un Burial in pieno giorno e virato soul, che sta al 2011 come i Lamb stavano al 1996; Lily McKenzie nel 2-step dolce ed evocativo di Brazil e nella techno lenta e jazzata di Waited Patiently, in chiusura. Con risultati altrettanto strabilianti.
(Rumore n. 232)

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